Prosegue il viaggio di Limina tra i libri finalisti della X edizione del Premio Lattes Grinzane, riconoscimento internazionale organizzato dalla Fondazione Bottari Lattes che vede la partecipazione di autori italiani e stranieri ed è dedicato ai migliori libri di narrativa pubblicati nell’ultimo anno. Finalisti dell’edizione 2020 sono Giorgio Fontana con Prima di noi (Sellerio), Daniel Kehlmann con Il re, il cuoco e il buffone (traduzione di Monica Pesetti; Feltrinelli), Eshkol Nevo con L’ultima intervista (traduzione di Raffaella Scardi; Neri Pozza), Valeria Parrella con Almarina (Einaudi) ed Elif Shafak con I miei ultimi 10 minuti e 38 secondi in questo strano mondo (traduzione di Daniele A. Gewurz e Isabella Zani; Rizzoli). Lungo il tragitto che porterà alla premiazione finale prevista per sabato 10 ottobre presso il Teatro Sociale Giorgio Busca di Alba alle ore 16.30, in presenza fino a esaurimento posti e in diretta streaming, Limina seguirà da vicino il Premio, proponendo recensioni, interviste e articoli di approfondimento per conoscere meglio i cinque libri finalisti e accompagnarli verso il traguardo finale.
Per la quarta tappa del nostro cammino ci spostiamo nel diciassettesimo secolo in territorio tedesco, con il romanzo storico di Daniel Kehlmann Il re, il cuoco e il buffone.
Realismo magico e estrema cura nei dettagli storici sono gli elementi caratterizzanti l’ultimo romanzo di Daniel Kehlmann, edito Feltrinelli, Il re, il cuoco e il buffone: la narrazione tratteggia un ritratto dell’Europa pre-illuminista, raffigurata nei suoi dettagli più caratterizzanti. Ne salta fuori un’immagine di mondo completamente differente dalla nostra, pur con degli insegnamenti da darci, nel quale ci si ritrova proiettati senza via di scampo e dal quale si ha difficoltà a uscire.
Il periodo storico prescelto, il XVII secolo, è delineato nei suoi tratti più curiosi e divertenti, ma anche negli aspetti più gretti. Si legge di processi a streghe e stregoni, con dettagliata descrizione di tutto l’iter: la ricerca dei presunti colpevoli, le accuse, le confessioni estorte sotto tortura, torture tanto crude da creare confusione nello stesso condannato su cosa fosse vero e cosa fosse falso, la descrizione dell’impiccagione.
Ma si legge anche di guerra, soprattutto nei suoi risvolti più squallidi. Abbiamo passato tutta la vita ad ascoltare una narrazione dei conflitti precedenti al XX secolo come eventi distruttivi sì ma in qualche maniera eroici, decisamente differenti dalla logorante e alienante guerra di trincea. Ed è così, certamente. Ma è oltremodo sconvolgente leggere per pagine e pagine della puzza nauseabonda di escrementi che regnava sovrana negli accampamenti militari o delle ferite purulente appartenenti ai soldati, senza possibilità alcuna di medicazione. È come se si vivesse un momento di epifania: perché, in fondo, chi ci aveva mai pensato? E si legge poi di individualismo politico, di regnanti che gettano in rovina il proprio popolo per il proprio tornaconto personale, di fughe, di vigliaccherie.
Grazie alla narrazione onnisciente con focalizzazione alternata, si è in grado di assumere i panni di molteplici personaggi e leggere nelle loro menti e nei loro animi: la grandezza di Kehlmann sta nel far entrare il lettore nel giusto ordine di idee. E lo fa a tal punto che non ci sembra più strano leggere di uomini e donne in balia degli eventi e che hanno una visione provvidenzialistica della storia universale, che processano mugnai innocenti ritenuti stregoni perché possiedono dei libri o che immaginano il territorio persiano ricolmo di torri di giada, grifoni, serpenti parlanti (secondo pensieri sull’Oriente ereditati dalla mentalità medievale del mondo latino).
Quindi la modalità di scrittura permette di entrare in un sistema di valori completamente differente, di far rivivere il periodo storico in toto. Del resto, la stessa presenza di zone d’irrealtà all’interno di una narrazione per il resto assolutamente realistica è indice di voler aderire in tutto e per tutto allo spirito del tempo. E il motivo per cui questo concetto non sia paradossale è molto semplice: perché quello descritto è un mondo in cui la magia è reale, parte integrante della vita quotidiana, per quanto questo possa sembrare assurdo agli occhi di un lettore che abbia nel proprio bagaglio un sistema di valori post-illuminismo. Si deve pensare al realismo magico del romanzo come parte di un grande disegno di rappresentazione verosimile di quel periodo storico. Perché la magia è realtà in un mondo in cui si abbia la certezza dell’esistenza di draghi, delle formule magiche e della magia omeopatica come unico efficace metodo di cura e di salvezza.
Ma in un romanzo estremamente grave a un occhio più attento, la patina principale è estremamente ironica: come quando si legge di un evento culminante quale è la defenestrazione di Praga, ove viene scritto che l’uccisione dei governatori è fallita perché «erano caduti su un mucchio di merda e sono sopravvissuti. C’era sempre della merda sotto le finestre del castello, per via di tutti i vasi da notte svuotati quotidianamente». Del resto, il titolo stesso del romanzo fa riferimento a una situazione fortemente ironica: Federico V del Palatinato, detto il Re D’Inverno, definitivamente caduto in disgrazia, a stento in grado di sostenersi ma che si muove accompagnato da un cuoco e dal buffone Tyll.
Gli occhi attraverso i quali la Storia e la storia vengono osservate sono molteplici, dunque, appartenenti alle classi sociali più differenti: basso popolo, eruditi, nobili, reali decaduti, saltimbanchi. La polifonia di voci può spaesare e genera disordine, ma essa non è altro che specchio riflesso di un’epoca caotica a seguito del quale niente è più stato lo stesso. La Guerra dei Trent’anni, scenario sempre presente della vicenda, ha modificato in maniera irreparabile l’assetto del continente europeo, i rapporti, la mentalità: c’è tra gli studiosi chi le attribuisce una portata talmente disastrosa da giudicarlo l’evento peggiore prima della Grande Guerra.
E tra tutti loro, poi, in tutto questo marasma svetta, inconfondibile, la figura di Tyll Ulenspiegel, un leggendario girovago del folklore tedesco. La tradizione lo vuole nato e vissuto in epoca tardomedievale, nel Trecento: pertanto assume ancora più valore il fatto che Tyll sia la guida spirituale del lettore e il perno della narrazione, se si considera che è stato prelevato da un’epoca storica differente e posizionato in mezzo alla Guerra dei Trent’anni. Perché sebbene Tyll non sia propriamente il centro della storia, proprio per la diegesi frammentata di quest’ultima, la sua presenza latente non abbandona mai la vicenda. Sembra che tutto ruoti attorno alla figura di quest’uomo libero che si desidererebbe immortale, che guarda il mondo dall’alto della sua fune, grazie alla sua abilità da funambolo, e che ride.
«E tutti noi, che guardavamo in su, capimmo all’improvviso cos’era la leggerezza. Capimmo come può essere la vita per qualcuno che fa davvero ciò che vuole e non crede a niente e non obbedisce a nessuno; capimmo cosa significava essere persone così, e capimmo che noi non lo saremmo mai stati.»
La semantica della figura del girovago, il senso della sua presenza è legato al concetto di libertà. Perché ci troviamo qui in un mondo in cui la vera libertà è possibile, con tutti i rischi e i pericoli a essa connessi. Si può scegliere di abbandonare tutto, allontanarsi, darsi alla macchia sotto falso nome e guardare la vita degli altri scorrere da lontano, figli di nessuno e appartenenti a nessun luogo.
Il re, il cuoco e il buffone è in grado di rendere conto in maniera esemplare di uno dei periodi storici più oscuri vissuti in terra tedesca, se non su suolo europeo, di ridarne indietro lo spirito quasi come se l’autore li avesse vissuti. Ma se finora si è parlato di differenze, è anche giusto sottolineare quanto ci siano delle costanti universali:
«così andava il mondo. C’era una manciata di persone che erano davvero qualcuno, e poi c’era il resto: un esercito indistinto, una schiera di figure sullo sfondo, un popolo di formiche che brulicavano sulla Terra, accomunate dal fatto che a ognuna di loro mancava qualcosa. Nascevano e morivano, erano come le macchie vive e svolazzanti che formavano uno stormo di uccelli – se ne spariva una, non te ne accorgevi nemmeno. Erano poche le persone che contavano.»
Si diceva, appunto, che certe cose non cambiano mai.
Artwork copertina a cura di Alessandra Corsi