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Una storia ruandese, a trent’anni dal massacro tra Hutu e Tutsi

Pietro Veronese esplora le vite di chi è sopravvissuto al genocidio formando famiglie d’elezione per guarire

Ero rimasto a dormire da mio fratello. Verso le quattro del mattino fummo svegliati da colpi d’arma da fuoco ovunque. Avevano già cominciato a uccidere. La sparatoria continuò anche quando fece chiaro. Non ci potevamo muovere, fuori c’erano già i posti di blocco, dove chiedevano le carte d’identità. La radio diceva: non fate scappare i tutsi. C’era l’ordine per tutti di restare a casa.
Kagabo


Il Ruanda, nazione situata nel cuore dell’Africa, si presenta come un territorio verdeggiante e montagnoso, ricco di laghi e vulcani. Nonostante le sue dimensioni modeste, pari a poco più della Sicilia, ospita quasi il triplo degli abitanti. La sua storia, però, è segnata da eventi tragici che ne hanno plasmato l’identità.
Le prime tracce di insediamenti umani in Ruanda risalgono all’epoca post-glaciale. Nel corso del XI secolo la società si organizzò in numerosi regni; l’arrivo degli europei avvenne solo nell’Ottocento, rivelando un popolo strutturato attorno a una monarchia e dedito principalmente all’agricoltura. La componente maggioritaria era rappresentata dagli Hutu, mentre i Tutsi, minoritari, ricoprivano il ruolo di allevatori e detenevano il potere regale.
La Conferenza di Berlino del 1884 sancì la spartizione del continente africano tra le potenze europee e aprì una triste pagina di colonialismo estrattivo sotto ogni punto di vista. Il Ruanda venne assegnato all’Impero tedesco, ma con la sconfitta tedesca nella Prima Guerra Mondiale il territorio passò sotto il dominio belga.
L’amministrazione coloniale belga ebbe un impatto profondo sulla società ruandese. Introducendo criteri razziali estranei alla cultura locale, impose l’identificazione etnica sulle carte d’identità, cristallizzando la distinzione tra Hutu, Tutsi e Twa in una rigida gerarchia. Questa categorizzazione artificiale, basata su presunte origini diverse, ebbe conseguenze devastanti, trasformando gruppi sociali in etnie definite da presunte differenze genetiche. Come direbbe l’antropologo francese Amselle, assistiamo all’invenzione dell’etnia.

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Tensioni etniche e ascesa dell’Hutu Power

Nel secondo dopoguerra, il Ruanda fu scosso da un crescente malcontento politico. L’élite Tutsi reclamava maggiore autonomia o addirittura l’indipendenza, mentre in Belgio l’ascesa al potere dei cristiano-socialisti spingeva verso un’alleanza con la maggioranza Hutu.
Questa strategia coloniale, alimentata da sentimenti nazionalisti e suprematisti tra gli Hutu, con il beneplacito della chiesa cattolica sfociò nella “rivoluzione Hutu” del 1959: massacri ed esili segnarono l’inizio di un periodo buio, culminato con l’abolizione della monarchia Hutu nel 1961 e l’instaurazione di una dittatura che oppresse la minoranza Tutsi per quasi tre decenni.
Il crollo di questo ordine bipolare nel 1990 aprì nuovi scenari. Il presidente francese Mitterrand, durante il vertice di La Baule, invitò i paesi africani ad abbracciare la democrazia, con libere elezioni e multipartitismo come requisito per il mantenimento degli aiuti francesi. In questo contesto, il Fronte Patriottico Ruandese (FPR), composto da esponenti della diaspora Tutsi, entrò in armi nel paese nel 1990. Il loro obiettivo era il ritorno in patria, la fine delle discriminazioni e la riconciliazione nazionale.
Lo scoppio della guerra civile coincise con un periodo di riforme democratiche imposte dal regime Hutu sotto pressione francese. Tuttavia, le persecuzioni contro i Tutsi all’interno del Paese si intensificarono, alimentate da una propaganda razzista e suprematista incarnata dall’ideologia Hutu Power: i “dieci comandamenti Hutu”, pubblicati nel 1990, ne furono la massima espressione.
Il 6 aprile 1994, l’aereo che trasportava il presidente Juvénal Habyarimana e il suo omologo burundese fu abbattuto all’atterraggio a Kigali. Si tratta della scintilla che diede il via al genocidio dei Tutsi, perpetrato dalle milizie Hutu su ordine di un governo provvisorio appoggiato dalla Francia.

I massacri sistematici, durati circa cento giorni, causarono la morte di oltre un milione di persone, tra cui circa 70.000 Hutu che si erano rifiutati di partecipare alle stragi. Ad oggi, il bilancio continua ad aumentare con la scoperta di fosse comuni.
L’estremismo Hutu crebbe, alimentato da una propaganda razzista che demonizzava i Tutsi come invasori e nemici del popolo Hutu. Fu questo clima di odio e divisione a creare le condizioni per lo scoppio di questo terribile genocidio. L’assassinio del presidente Habyarimana fu di fatto un pretesto per scatenare la violenza: in poche ore le milizie Interahamwe, armate e addestrate dal governo, iniziarono a massacrare sistematicamente i Tutsi. Uomini, donne e bambini furono uccisi a colpi di machete, bastoni e armi da fuoco. Le vittime furono violentate, mutilate e bruciate vive.
La comunità internazionale rimase impassibile di fronte all’orrore che si stava svolgendo in Ruanda. Nonostante le prove schiaccianti del genocidio in corso, non furono prese misure concrete per fermare le uccisioni. Solo dopo la morte di oltre 800.000 persone, il Fronte Patriottico Ruandese, guidato dai Tutsi, riuscì a rovesciare il governo Hutu e porre fine al genocidio.
Il genocidio ruandese ha lasciato un segno indelebile sul paese. Oltre alla perdita di vite umane, il Ruanda ha subìto una totale devastazione economica e sociale. Molti sopravvissuti portano ancora le cicatrici fisiche ed emotive del trauma.

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Trent’anni dopo: un paese in ricostruzione

A trent’anni dal genocidio, il Ruanda ha fatto passi significativi verso la ricostruzione. Il paese ha raggiunto una relativa stabilità e ha registrato una crescita economica. Tuttavia, la strada per la guarigione è ancora lunga; le tensioni etniche persistono e la giustizia per le vittime del genocidio non è stata ancora completamente raggiunta.
Oggi è fondamentale ricordare il genocidio ruandese non solo per onorare la memoria delle vittime, ma anche per prevenire future atrocità. La storia del Ruanda ci insegna che l’odio e la divisione possono portare a conseguenze devastanti. Dobbiamo lavorare insieme per promuovere la tolleranza, il rispetto e la comprensione reciproca, in modo da costruire un mondo in cui tali tragedie non possano più accadere.

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Per parlare di questa importante tragedia che non deve essere dimenticata ho letto un bel libro appena uscito per le edizioni e/o. Si tratta di La famiglia. Una storia ruandese di Pietro Veronese, un lavoro corale, un racconto a più voci, co-autoriale. Il libro è il racconto diretto di donne e uomini sopravvissuti al massacro e che trovo giusto citare come riportati nelle prime pagine del libro: LÉONIE UWANYIRIGIRA, YVONNE TANGHERONI INGABIRE, detta KAZUNGU – MUHIMPUNDU ARMELLA, detta MIMÌ, UWASE BEATA, detta BETTY, GRÂCE NADINE UMUHIRE, MUJYAMBERE HONORINE, BUCYANA LUC, JEAN-PIERRE NKURANGA KAGABO, GAKWAYA ALBERT.
Le storie ruandesi raccolte costruiscono un libro toccante e straziante che narra le vicende di questi nove sopravvissuti al genocidio del Ruanda del 1994. Attraverso le loro testimonianze, Veronese ci porta all’interno dell’orrore del genocidio, raccontando le atrocità commesse, la perdita di persone care e il trauma indelebile che ne è derivato. Ma il libro non si sofferma solo sul dolore, raccontando anche la forza di volontà dei sopravvissuti nel ricostruire le loro vite e nel creare nuove famiglie, basate sull’amore, sul sostegno reciproco e sulla speranza.

Una famiglia particolare, quella che dà il titolo al libro, perché la biologia non c’entra nulla. Infatti, ad unire i membri della Famiglia Igihozo (che è la voce narrante del libro) non è il DNA, ma una memoria condivisa e terribile.
Gli appartenenti della famiglia, i protagonisti del libro, sono tutti dei sopravvissuti al genocidio contro i Tutsi, nel quale hanno perso genitori, fratelli, sorelle, nonni, parenti, oltre a un numero infinito di amici, conoscenti, vicini di casa, compagni di studio o di lavoro. Questa idea di costruire famiglie non biologiche fatte di connessioni solidali e di mutuo appoggio per aiutarsi nella risoluzione del trauma fu ideato all’indomani del genocidio da un movimento di studenti sopravvissuti e rimasti praticamente soli al mondo. Alcuni dei protagonisti del libro avevano già messo in atto questa pratica di muto-aiuto in Ruanda, prima di venire in Italia. In ogni caso, tutti lo hanno trovato perfettamente adatto alla propria situazione individuale, e non appena gli è stato proposto lo hanno subito adottato. «Il primo obiettivo dei sopravvissuti è parlare del genocidio – sostiene Beata nel libro -. Sapere chi siamo, raccontare la nostra storia». La famiglia lo rende possibile.

La famiglia. Una storia ruandese non si limita ad essere un resoconto commovente di una tragedia indicibile; è un grido di speranza che risuona dal passato per illuminare il presente e il futuro. La forza e la resilienza dei sopravvissuti, la loro capacità di ricostruire una parvenza di famiglia e di comunità tra le rovine dell’odio, offrono una testimonianza potente e incoraggiante dello spirito umano. Il libro ci invita a riflettere non solo sugli orrori del genocidio del Ruanda, ma anche sul nostro ruolo come cittadini globali di fronte a tali atrocità. La storia dei protagonisti ci sprona a rompere il muro dell’indifferenza, a denunciare l’ingiustizia e a lottare per un mondo dove la tolleranza e il rispetto per l’altro siano valori condivisi da tutti. Per questo La famiglia. Una storia ruandese è un’opera letteraria di grande valore, un ponte tra la memoria del passato e la speranza per un futuro migliore. La sua lettura è un’esperienza che ci arricchisce come esseri umani e ci spinge a diventare cittadini del mondo più consapevoli e responsabili.

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