«In cotal guisa i primi uomini delle nazioni gentili, come fanciulli del nascente gener umano, quali gli abbiamo pur nelle Degnità divisato, dalla lor idea criavan essi le cose, ma con infinita differenza però dal criare che fa Iddio: perocché Iddio, nel suo purissimo intendimento, conosce e, conoscendole, cria le cose; essi, per la loro robusta ignoranza, il facevano in forza d’una corpolentissima fantasia, e, perch’era corpolentissima, il facevano con una maravigliosa sublimità, tal e tanta che perturbava all’eccesso essi medesimi che fingendo le si criavano, onde furon detti «poeti», che lo stesso in greco suona che «criatori». Che sono gli tre lavori che deve fare la poesia grande, cioè di ritruovare favole sublimi confacenti all’intendimento popolaresco, e che perturbi all’eccesso, per conseguir il fine, ch’ella si ha proposto, d’insegnar il volgo a virtuosamente operare, com’essi l’insegnarono a se medesimi; lo che or ora si mostrerà. E di questa natura di cose umane restò eterna propietà, spiegata con nobil espressione da Tacito: che vanamente gli uomini spaventati «fingunt simul creduntque».
Giambattista Vico, nei Principi di una scienza nuova, enuncia così quello che senza dubbio si potrebbe definire il cuore stesso della creazione letteraria, cioè che gli uomini finiscono per credere a ciò che hanno inventato. Una formula che a mio avviso riguarda tanto il lettore quanto l’autore, in particolare Georges Simenon che alla questione della “verità” dedica uno dei suoi libri più pirandelliani, Le memorie di Maigret (Adelphi), opera pubblicata nel 1951. Come in Sei personaggi in cerca d’autore, Simenon mette in scena l’incontro con il personaggio di Maigret in carne e ossa, rompendo la più solida delle complicità con il suo autore per, infine, affermare la propria verità, quella vera contro quella del suo creatore, fabbricata ad arte nel segno del falso e della mistificazione.
Il secondo capitolo, in particolare, si apre con il titolo «Nel quale si tratta della cosiddetta nuda verità, che non convince nessuno, e di verità “aggiustate” che invece sembrano più autentiche». È un dialogo appassionante tra due personaggi, dall’aspetto di un dialogo platonico, nel fondo, con un’ironia sottile, questa meraviglia che è l’umorismo belga e che si trova raramente nell’opera di Simenon. Ed è proprio in uno scambio iniziale che il Graal della verità romanzesca si rivela al lettore in tutta la sua nudità.
«So bene che questi libri sono pieni zeppi d’imprecisioni tecniche. Inutile star lì a elencarle. Sappia che sono volute, e gliene spiegherò la ragione.
[…]
La verità non sembra mai vera. Non parlo solo di letteratura o di pittura. Potrei citare il caso delle colonne doriche, le cui linee sembrano rigorosamente perpendicolari e invece danno questa impressione solo perché sono leggermente curve. Se fossero dritte, il nostro occhio le vedrebbe bombate, capisce?
[…]
Rendere le cose più vere di quanto non siano, tutto qua. Ed è proprio così che ho fatto con lei, Maigret: l’ho resa più vero di quanto non sia.»
Con questo libro sembra di accedere al raro privilegio che alcuni rinomati chef ti concedono quando ti fanno chiamare discretamente dal personale di servizio per entrare nelle cucine e osservare con un solo sguardo un’enciclopedia di sapori, gesti, ingredienti, contemplare le facce del suo secondo, del commis, insomma dell’intera brigata del creatore, compresi i lavapiatti. Ognuno prosegue il proprio lavoro lanciando un’occhiata di sbieco e allo stesso tempo quasi indifferente all’ospite del capo. Tutto è lì, eppure nessuno di questi elementi potrà illuminare il mistero della verità romanzesca.
Una doppia verità: Maigret Magritte
Le parole, sempre le parole, e le cose, ovviamente. Un semplice anagramma alla base di un saggio sul mistero Simenon? Prendiamoci il nostro tempo, direbbe il maestro Alcofribas Nasier, poiché solo il tempo è padre della verità. Sono sempre stato affascinato da Magritte, il cui manifesto, Il doppio segreto, campeggiava sul muro della mia stanza, il volto androgino tagliato a metà con i campanelli sonanti accanto a quello di Maradona, e i libri di Simenon occupavano un posto nella mia biblioteca Bildungsroman. Tuttavia, è la doppia consonante che impedisce la possibilità dell’anagramma Magritte Maigret, e allora? Una semplice domanda attraversava i miei pensieri, più precisamente l’anomalia: come mai i due, al centro della vita intellettuale parigina dell’avanguardia e dell’avanspettacolo (soprattutto Simenon) degli anni Venti e Trenta, l’Età dell’Oro delle arti, entrambi belgi, non si erano mai incontrati? Ho cercato in lungo e in largo, nelle memorie personali o accademiche, le tracce di una conversazione diretta, o il racconto di un testimone. Nulla. Una storiella belga, in effetti.
Eppure, negli Scritti completi di Magritte pubblicati nel 2001 da Flammarion, troviamo molti punti di convergenza tra le due poetiche. Proverò a indicarne alcune piste.
Il segno e la crepa
In Pietr il Lettone c’è un passaggio in cui Simenon enuncia il modus operandi di Maigret:
«Era piuttosto una sua teoria, che non aveva d’altra parte mai sviluppato e che nella sua mente rimaneva imprecisa. Dentro di sé la chiamava “la teoria della crepa”. In ogni malfattore, in ogni delinquente, c’è un uomo. Ma c’è anche, e soprattutto, un giocatore, un avversario, ed è questo che la polizia tende a vedere in lui, è questo che in generale affronta. Maigret agiva come gli altri. E come gli altri si serviva degli eccezionali strumenti che i Bertillon, i Reiss, i Locard hanno messo nelle mani della polizia e che costituiscono una vera e propria scienza. Ma lui cercava, aspettava, spiava soprattutto la crepa. Il momento in cui, in altri termini, dietro il giocatore, appare l’uomo.»
Nei romanzi di Simenon, l’essenziale romanzesco non si svolge nella trama, nell’azione fragorosa, nella storia che avvolge le cose; è nelle cose stesse, nella singolarità dei destini, a cui si può accedere solo attraverso la frattura invisibile e impercepibile crepa.
Qui risuona la dimostrazione efficace portata da Slavoj Žižek nel suo articolo Jacques Lacan, per una clinica moderna (Savoirs et clinique, 2003/2, n. 3):
«I Kinder Surprise – uova di cioccolato vuote, avvolte in una carta dai colori vivaci – sono uno dei dolci più popolari in Europa. Quando si aprono, si trova all’interno un piccolo giocattolo di plastica (o delle piccole parti da assemblare per costruire il giocattolo). La maggior parte delle volte, il bambino che ha comprato l’uovo si affretta ad aprirlo e a rompere il guscio senza preoccuparsi di mangiare il cioccolato, ansioso solo di scoprire il giocattolo nascosto al centro. Un tale amante del cioccolato non illustra perfettamente la formula di Lacan «Ti amo, ma perché, inspiegabilmente, amo in te qualcosa più di te, l’oggetto a, ti mutilo» (Il Seminario, 1964, libro XI)? In effetti, non si potrebbe dire che questo giocattolo è il famoso oggetto a di Lacan, il piccolo oggetto che riempie il vuoto al centro del nostro desiderio, il misterioso tesoro al centro della cosa che desideriamo?»
È attraverso la crepa – le parole che si separano dalle cose, come in Magritte, o il paesaggio infranto dai vetri della finestra – che si ritrova una colpa originaria, cioè quella strana estraneità a sé stessi che ci spinge a cercarci negli altri. D’altronde, solo ciò che può essere (coupé) tagliato è colpevole (coupable).
Quando Michel Foucault pubblicò nel 1966 Les Mots et les choses, Magritte sentì il bisogno di scrivergli il 23 maggio di quello stesso anno una lettera che, a mio avviso, illustra bene il cuore della questione:
«Le parole Somiglianza e Similitudine vi permettono di suggerire con forza la presenza – assolutamente strana – del mondo e di noi stessi. Io credo nondimeno che queste due parole non siano abbastanza differenziate e che i vocabolari non siano abbastanza costruttivi circa ciò che le distingue. Solo il pensiero può essere somigliante, somiglia essendo ciò che vede, sente o conosce, diventa ciò che il mondo le offre. Ciò che non “manca” di importanza è il mistero evocato, di fatto, dal visibile e dall’invisibile, e che può essere evocato di diritto dal pensiero che unisce le “cose” nell’ordine che richiama il mistero.»
Maigret e Magritte non sono simili; essi si somigliano.
Per una letteratura e un’arte della fuga
Nel 1936, Magritte dipinse La Clef des champs, che ho potuto vedere quest’inverno al Museo Thyssen-Bornemisza di Madrid. C’è una finestra, incorniciata da due tende rosse, che dà su un paesaggio naturale, alberi sullo sfondo e il vetro della finestra rotto, i cui frammenti, sul pavimento all’interno della stanza, riproducono gli elementi del paesaggio altrimenti riflessi sulla finestra, prima della crepa. Tali frammenti sono al di qua del muro, all’interno della casa. In altri termini ci troviamo in una fuga verso l’interno di sé, un’evasione dentro di sé.
Allo stesso modo, si fatica a separare i pezzi di Magritte e Simenon quando ci si avventura nel mondo di entrambi, attraversato da una moltitudine di vite nude, eteronime, metamorfosi, trasfigurazioni, ovvero corsi e ricorsi del tempo, resurrezione e morte. Appunto, darsela a gambe, fare camporella ovvero, come l’espressione La clef des champs indicava originariamente. Prendere il largo, fuggire allo stesso modo del povero commesso viaggiatore perduto in una vita trascorsa sui treni e che s’immaginava una via d’uscita attraverso quell’arte minore della littérature de gare, libri in vendita nelle stazioni, letture d’evasione, tutto ciò che avrebbe voluto fare per non rimanere intrappolato nella sua vita ordinaria, e scappare con un Maigret preso al volo pagandolo all’edicolante pochi spicci.
Simenon, quanto a lui questo desiderio di evasione da sé, che lo abitava da sempre, lo aveva ben descritto in un’intervista rilasciata a Paris Match il 17 febbraio del 1973 in occasione dell’annuncio del suo “suicidio” letterario:
«Ho vissuto in tutti gli ambienti con una sorta di mimetismo naturale. Quando mi ero stabilito sulla mia barca, ero subito in contatto con i marinai. Ho fatto la stessa esperienza a Épalinges, parlando con i contadini. Ho cercato di vivere vicino alle persone. Il mio sogno, da giovane, era di vivere molteplici vite…»
La clef des champs, tra i suoi significati, ne contempla uno che concerne il cuore tragico dell’esistenza. «Si dice – scrive Montaigne – che il saggio vive finché deve, non finché può; e che il dono più favorevole che la natura ci abbia fatto, e che ci toglie ogni motivo di lamentarci della nostra condizione, è quello di averci lasciato la clef des champs. Ha previsto una sola entrata nella vita, e centomila uscite.»
Quando Simenon, il 17 febbraio 1973, “suicida” Maigret, si appropria della formula originaria di Seneca: «vive finché deve, non finché può». Potrebbe accontentare i suoi numerosi lettori sfornando altri Maigret su Maigret. Il tempo però per lo scrittore belga era ormai quel momento.
Il tempo, ancora lui, come nella magnifica canzone di Luigi Tenco Un giorno dopo l’altro, sigla della serie televisiva Maigret interpretata da Gino Cervi, e che corrispondeva di più, secondo Simenon, all’immagine che lui stesso s’era forgiato del commissario. (Ne consigliamo la versione di Steven Brown dei Tuxedomoon).
Colpo di scena
È quando ci si lancia in questo tipo di ricerca che normalmente si verifica un piccolo miracolo, cioè qualcosa di completamente inaspettato e insperato. La parola “serendipity“, creata nel 1754 dallo scrittore inglese Horace Walpole, definisce il ruolo del caso nella scoperta di una verità inattesa, di un’intensità ben maggiore rispetto a quella che era il motore originario della ricerca. Una parola terribile, sia chiaro, per le orecchie di un italiano, al punto che mi ha spinto a chiedere al mio amico Daniele Ventre, giovane autore di una delle più belle traduzioni in esametri dell’Odissea, se gli antichi Greci non avessero una parola migliore per esprimerlo.
Mi scrive: «Per i Greci, la scoperta, sia per ingegnosità che per caso, ha sempre una componente essenziale di ‘tykhe’. È fortuna. Per loro, l’euriskein (trovare) e il tykhe (fortuna) esistono comunque. Al massimo, mettono l’accento sull’imprevedibile, l’aprosdoketon, e sulla sua connotazione ierofanica (è un’opera divina, daimonion)». Così Euripide conclude spesso le sue tragedie con la consueta serie di anapesti:
«Esistono molte forme di divinità,
gli dèi fanno molte cose al di là di ogni aspettativa,
e se ciò che ci si aspettava non si è realizzato,
un dio trova la strada verso realtà inattese,
e così questa vicenda si è conclusa.»
Concludendo: «Non c’è serendipità per i Greci, perché in fin dei conti, per loro, tutto è serendipità.»
Lavorando sull’impossibile binomio Maigret/Magritte e i fratelli de Chirico – questi due geni in uno, inventori del sogno surrealista secondo Breton – mi sono imbattuto, è proprio il caso di dirlo, in una lettura ad alta voce dello scrittore Rocco Carbone, studioso di Simenon, per Radio RAI. In realtà sono due i testi degli anni Trenta che Alberto Savinio (pseudonimo di uno dei due fratelli) dedica a Simenon, e che mi hanno causato lo stesso sussulto che Magritte provò quando vide per la prima volta il dipinto Chant d’amour. Tutto è detto lì, scritto con uno stile che lascia segni profondi sulla carta: particolarmente il secondo articolo, che ho potuto procurarmi grazie a mio fratello – mi chiedo spesso cosa sarebbe la letteratura senza la fratellanza – che lo ha cercato nella biblioteca del Centro Studi Piero Gobetti di Torino, molto gentile con noi. Un saggio che, probabilmente per la prima volta, il lettore francese potrà gustare grazie a Jean-Charles Vegliante, che ha tradotto queste pagine per noi.
«Simenon, fotografia oftalmologica, con gli occhi di una mitragliatrice Leica»; «Simenon, Dostoevskij minore»; «Maigret, Sherlock Holmes di circostanza»; e Alberto Savinio che fonda tutta la sua analisi sull’arte della cucina e della musica. Simenon libera il genere poliziesco dai piatti serviti freddi “con i loro cetriolini” della tradizione inglese per dare finalmente vita a un nuovo romanzo poliziesco borghese.
Ma lasciamo la parola (e le cose) a Savinio.
In copertina: Il doppio segreto di René Magritte