Due tribù si danno appuntamento, con la clava del futuro in guisa di mouse, per darsene di santa ragione. Parliamo del Fair web contro il Dark web. Due emisferi asimmetrici, uno dentro l’altro ed uno contro l’altro. Due approcci in conflitto insanabile tra loro: la Rete è diventata un reticolo suddiviso in blocchi ontologicamente contrapposti: il socially correct contro il free speech.
La politica, nell’era della mediopolitica, esige che tutti gli spazi policy/politics godano di esposizione pubblica immediata e ipermediatizzata. E la mediopolitica immediata agisce nell’ infosfera dell’ecosistema digitale planetario con dieci social network che si potrebbero definire istituzionali. Moltiplicatori di consenso.
Oltre a quelli che riguardano la Cina (Wechat, Weibo e Renren) e quelli diffusi in Russia (VKontakte e Odnoklassniki) ci sono Facebook, con i suoi quattro miliardi di profili attivi, e Twitter che ne conta 350 milioni. E in questa top ten ben figurano Instagram, LinkedIn, YouTube. Sono canali graditi e frequentati dai detentori del potere politico in tutte le latitudini del pianeta.
C’è una differenza di massima tra Facebook e Twitter: il primo vanta un livello partecipativo più diffuso, il secondo più “alto”: gli opinion leader, la politica, il giornalismo, le star sono tutte su Twitter. Diventata a tutti gli effetti agenzia di stampa, con la sua capacità di ricevere e diffondere, dopo averle organizzate e sistematizzate per hashtag, notizie istantanee, Twitter raccoglie il 23% della popolazione quotidianamente connessa alla Rete. Il 23% giusto.
Con i suoi quasi 89 milioni di follower su Twitter, il volume di fuoco dell’ex presidente Donald Trump è stato sempre notevole, contraddistinto da una considerevole capacità di coinvolgimento della platea che lo segue. Ha un consenso e un dissenso egualmente radicati e convinti. Le echo-chamber che si formano spontaneamente ripartiscono questa partecipazione militante: regolano i flussi di traffico, organizzano le appartenenze e ne esacerbano la polarizzazione. Attraverso il rafforzamento di “bolle” si aggregano i propri simili e si allontanano scettici, dissidenti e contestatori, definendo il perimetro della divisione degli spazi del confronto pubblico con una nuova categoria che qui potremmo definire: intrapubblica. È un neo-cluster di utenti la cui prassi tende a chiudere internet sconfinata nei confini di una intranet. Le loro forza deriva dalla polarizzazione intransigente: si definiscono per ciò che non sono, per essere l’opposizione del proprio opposto. E fanno leva sulla rabbia contro un comune nemico per raccogliere consenso, per sommare all’idem sentire una identità di vedute e una comune agenda.
Queste nuove tribalità digitali trasformano le connessioni in occasione di discrimine, in selezione continuativa dei pari, di quella community sempre più intranea rispetto al concetto originario: il comportamento della community diventa quello di un movimento, e quest’ultimo può diventare setta. O gruppo di fuoco: nell’opera del filosofo Luciano Floridi si indaga il contatto tra l’online e l’offline, introducendo la categoria universalistica dell’on-life: quel che si dice in Rete si finisce per mettere in opera nella vita reale.
Donald Trump non ha esperienza militare ma è un veterano di Twitter, arma che ha utilizzato con quella crudezza nella formulazione dei tweet che Jean Baudrillard definiva “intelligenza del male”[1]: ha sparato le prime cartucce sulla piattaforma di microblogging nel luglio 2010 e da allora ha twittato 59349 volte, fino al congelamento del profilo. Quasi mai attenendosi ai codici di comportamento di Twitter, il Trump twittatore è sempre stato aggressivo. Proprio perché ha generato qualche “digital shitstorming” di troppo, oggi non twitta più. O comunque non più come @realDonaldTrump: il suo profilo è stato ufficialmente chiuso il 9 gennaio in conseguenza delle proteste violente di Capitol Hill, delle quali il quarantacinquesimo presidente americano è considerato l’ispiratore. Molti cittadini – americani e non solo – a quel punto hanno deciso di riconsegnare le chiavi del profilo al padrone di casa, migrando altrove. È iniziato un distacco irreversibile: i fan di Trump identificano ormai Twitter come un’espressione Dem, e come ci dice John Levine sul New York Times, alla metà di gennaio hanno iniziato ad abbandonarlo in massa. Per nulla turbata dalle dimensioni dell’esodo, Twitter ha sospeso 70.000 profili vicini alle tesi oltranziste del gruppo QAnon.
Ma chi lascia i grandi social media, dove va? Si addentra in un territorio incontrollabile. Un “grey web” dove l’interfaccia con il dark web è dietro l’angolo: andare a rintracciare un nome, una identità reale dietro a una identità digitale diventa impossibile. Parler e Gab sono piattaforme di microblogging dalla moderazione bassa o nulla dove proliferano gli estremisti, ma anche su Twitch e nei torrent delle chat dei gamers si moltiplicano gli appelli a prendere le armi. E non solo negli Stati Uniti. L’idea di “aprire” il Parlamento ostile a Trump è stata predicata sui social per settimane, prima di essere messa in atto. Molto più su Parler che non su Twitter e Facebook. La reazione dei social media è stata d’altronde antitetica: scandalizzata ed esiziale per le piattaforme di Jack Dorsey e Mark Zuckerberg, del tutto festosa per Parler e Gab. E così il conflitto tra i due emisferi della Rete è esploso. Parler è stato sospeso – prima volta anche questa – dagli store Apple e Google Play ed Amazon. «Abbiamo sempre sostenuto che i diversi punti di vista dovessero essere rappresentati sull’App Store, ma non c’è spazio sulla nostra piattaforma per la violenza e l’attività illegale», afferma Apple. «Parler non ha preso le misure adeguate per affrontare il proliferare di queste minacce alla sicurezza dei cittadini». Nata nel 2018, oggi è in piena fase espansiva. Ha cambiato proprietà nel giugno 2020 e dei nuovi titolari si sa poco. Dan Bongino è il nuovo Ceo, ma la lista completa degli investitori non è pubblica. Sono state provate numerose interazioni con l’agenzia russa di disinformazione Internet Research Agency, che d’altronde non è estranea a casi documentati di hacking nei confronti di siti istituzionali americani ed europei.
E poi c’è Gab. Nata nel 2016 come piattaforma di microblogging per la tutela della libertà di parola, nasconde dietro a questa nobile causa l’ombrello che consente a sette suprematiste e a formazioni neonaziste di mantenere le comunicazioni al riparo della legge. Il social network ha suscitato l’attenzione pubblica quando, in seguito alla sparatoria alla sinagoga di Pittsburgh nell’ottobre 2018, si è scoperto che l’unico autore dell’attacco, Robert Gregory Bowers, aveva pubblicato un messaggio su Gab con intenzioni violente. Dopo la sparatoria, Gab è andato offline: il suo stesso provider di hosting gli ha negato il servizio, temendo di essere indagato per complicità in attività eversive.
Mentre le piattaforme social media più usate devono fare i conti con le richieste – da parte dell’Onu, dell’Unione Europea e del congresso americano – di concordare un protocollo di public policy sempre più aderente alla normativa (rispettare le sensibilità, segnalare i post inopportuni, contrastare l’hate speech, riconoscere e inficiare le fake news, tutelare la privacy, riconoscere i diritti d’autore, etc.) i propugnatori della Rete anarchica costruiscono piccoli imperi. Come i funghi, crescono nell’ombra: si nutrono in modo parassitario e producono spore non di rado velenose.
Zuckerberg e Dorsey – Facebook e Twitter – sono comparsi in audizione al Congresso Usa di Washington l’ultima volta il 17 novembre 2020. Prima di allora erano stati convocati altre due volte dalla stessa Camera americana, una volta alla Casa Bianca con Obama, una volta al Parlamento Europeo a Bruxelles e infine a Londra, per riferire alla House of Lords. Un percorso fatto di interlocuzioni frequenti, disponibilità dei dati, fiducia reciproca tra big del web e grandi istituzioni nazionali e sovranazionali e culminato in una rinnovata attenzione verso la cybersecurity e la lotta alle fake news. Con tratti di inedita reattività. A cavallo dell’8 e 9 gennaio, nell’arco di 24 ore, Twitter ha cancellato il profilo di Trump, Facebook glielo ha sospeso, YouTube ha reso inaccessibili i suoi video. Trump non si è dato per vinto e ha fatto sapere di volersi spostare su Parler. Da quel momento, in meno di dodici ore, Apple e Google hanno impedito di accedere a Parler, revocando l’accordo di distribuzione. Parler ha fatto sapere di aver subìto un danno, ma di attrezzarsi per garantire il servizio senza la porta d’accesso convenzionale delle major del web.
I software di analisi conversazionali monitorano, ma l’IA fatica a penetrare tutti i codici, i registri, gli slang che permeano la Rete. Quando due adolescenti si incontrano su Twich – la piattaforma live streaming più diffusa al mondo – per giocare simultaneamente a distanza, mandare in onda un discorso, una presentazione, una vendita – l’interazione vocale, la mimica, la prossemica vengono captate e decodificate con grande difficoltà. Diverse sparatorie tra gang ed alcuni attentati nelle scuole americane sono state premeditate e discusse sulla piattaforma di Twich, ma nell’overflow delle informazioni[2] (9,24 milioni di streamer attivi) e con la loro particolare declinazione, nessuno è mai riuscito ad intervenire. Si deve così ammettere che la Rete costituisca, nei suoi abissi più profondi, una realtà difficilissima da esplorare compiutamente.
Di regole per la Rete, per scongiurare la polarizzazione e contrastare l’hate speech, non si è ancora capito se deve occuparsi l’Unione per le Telecomunicazioni a Ginevra (due conferenze sull’argomento: nel 1988 e nel 2012), l’Unesco a Parigi o direttamente il Palazzo di Vetro a New York. Nell’incertezza, non si muove nessuno. E infatti non esiste alcun memorandum internazionale che tuteli la libertà della Rete. Tanto che quando Cina, Iran e Turchia vietano questo o quel social media, la proprietà americana si affretta ad eseguire senza neanche accennare a una protesta: perché sa che non può.
Ecco che il socially correct si scontra con lo spirito spontaneistico, anarco-libertario della Rete. E riaffiorano i vulnus della legislazione in materia, per un settore – quello dei giganti del web – a cui l’Unione Europea non riesce nemmeno a dare una tassazione stabile. Dove hanno sede legalmente i social network? A quali leggi devono sottostare? Quali intese presiedono la capacità delle piattaforme di stabilire contratti commerciali e realizzare profitti in Italia?
Andiamo sempre più verso una Rete duale: quali relazioni si intrecceranno tra legalisti e sregolati? Siamo a un bivio, una direzione va presa.
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[1] Nel suo “Il Patto di lucidità o l’intelligenza del male”, Jean Baudrillard definisce le reti come causa di un conflitto duale tra realtà imminente e realtà virtuale.
[2] Sul tema dell’ingestibile flusso delle informazioni si legga Overdose, la società dell’informazione eccessiva, Da Empoli, G. , Marsilio 2002.