Black satire o dark comedy, in qualsiasi modo lo si voglia etichettare, The Menu è il paragrafo finale di un capitolo cinematografico e televisivo che comincia nel 2005 con la serie americana Hell’s Kitchen, continua il successo di The Bear e trova compimento con la pellicola che ha per protagonista l’eccellente Ralph Finnes, chef-ministro di un culto gastronomico che si appresta a celebrare il suo ultimo e più sanguinario rito. I commensali, infatti, da ospiti coccolati di una cena più che esclusiva si ritroveranno prede del cuoco e della sua brigata, vittime designate su di una tavola trasformatasi in altare.
L’opera, firmata dal regista Mark Mylod, non è perfetta, ma ha il pregio di portare all’esasperazione lo stile di un mondo tanto sovraesposto e sovrastimato da risultare ormai nauseante e indigesto. Vale la pena ripercorrere alcune tappe del cammino, o sarebbe meglio dire della discesa, che hanno portato ad abiurare alla “religione del piatto”: si scoprirà che la questione è più antica e complessa, ma anche più affascinante, di quanto non possa sembrare.
Dalla Charent Maritime, suggestiva regione francese sulle acque dell’Oceano Atlantico, e precisamente da una famiglia di viticoltori di La Rochelle, inizia la straordinaria carriera di chef Benoit Violer. La sua cucina s’impone presto come espérience sensorielle, capace di offrire composizioni innovative e armoniose di gusti, ma anche di unire forme geometriche, colori vivaci e odori invitanti, in una ricerca fantasiosa che diletta e appaga tutti i sensi.
Nel 2013 la guida Gault & Milau lo proclama cuisinier de l’année e La Liste due anni dopo farà altrettanto. A capo dell’ormai leggendario ristorante dell’Hotel de Ville di Crissier, vicino Losanna, Violer, tocca il vertice dell’arte a cui si dedica senza risparmiarsi. Tuttavia non basta. Il 31 gennaio del 2016, proprio mentre attendeva la conferma delle tre stelle assegnategli dalla guida Michelin, si toglie la vita con un colpo di fucile da caccia.
Due anni dopo Anthony Bourdain, americano di origini francesi, executive chef della Brasserie Les Halles di Manhattan, narratore, autore e conduttore di numerose serie televisive sulla cucina, una vera rockstar della gastronomia, si suicida, stringendosi attorno al collo la cinta dell’accappatoio.
Tragedie che la stampa e l’opinione pubblica hanno frettolosamente attribuito all’attuale deriva della cultura occidentale, pronta a rendere protagonista del circolo mediatico un cuoco piuttosto che uno scrittore o un filosofo, consacrandolo da un lato a vate del canto culinario, dall’altro imponendogli di assumere il ruolo complesso di comunicatore nonché creatore di un brand da divulgare e imporre sugli altri, impegno che di certo può essere causa di una pressione psicologica fatale.
La triste sorte di Violer e Bourdain, invece, trova già un illustre paradigma nella vicenda biografica di un personaggio della Roma imperiale: Marco Gavio Apicio, il cuoco più famoso dell’antichità. Alla sua esuberante ispirazione in cucina viene attribuito il primo trattato di gastronomia tramandatoci, ossia il De re coquinaria.
«O Apicio, tu avevi sacrificato al tuo ventre sessanta milioni di sesterzi, e ti rimanevano ancora dieci milioni di sesterzi abbondanti. Non tollerando tu di possedere un tale patrimonio da fame e da sete, bevesti il veleno – ultima tua bevanda. Non hai mai compiuto, o Apicio, un atto maggiore di golosità».
Sono i versi del poeta Marziale, da cui apprendiamo la ragione della sua fine: il cuoco, pur di accontentare i palati più raffinati, dilapidò una ricchezza immensa e quando si accorse che gli era rimasto un patrimonio non modesto, ma insufficiente a mantenere il tenore della sua gastronomia, decise di avvelenarsi.
Etichettato dagli intellettuali del suo tempo come exemplum paupertatis contrarium, quindi cattivo esempio, dives et prodigus, scialaquatore irresponsabile, e addirittura pravae mentis, uomo di animo corrotto, Apicio anticipa di molti secoli e in modo sorprendente la vicenda drammatica di Violer. Anche quest’ultimo aveva contratto un debito sostanzioso a seguito dell’acquisto di una partita di vini molto pregiati e costosi purtroppo mai consegnatigli.
Ricordiamo anche la storia altrettanto esemplare di Fritz Karl Watel, più noto come Jean Francois Vatel, il cerimoniere del castello de Chantilly durante il regno di Luigi XIV, nonché inventore dell’omonima crema. Nel 1671 una terribile tempesta bloccò nel porto di Boulogne la partita di pesce da lui ordinata, così non ebbe modo di servire la portata fondamentale della cena che stava allestendo, per l’amarezza e la vergogna di non aver adempiuto alla perfezione al suo dovere, preferì trafiggersi con la spada. Affidandosi a un interprete d’eccezione quale Gérard Depardieu, il regista Roland Joffé nel 2000 ne ha fatto il protagonista del film omonimo la cui visione permette di farsi un’idea del cinismo e della vacuità degli aristocratici del XVII secolo. E purtroppo in tempi recenti se ne potrebbero aggiungere diversi altri, come Bernard Loiseou o Joseph Cerniglia, che non hanno accettato la retrocessione sulla Guida Michelin.
Ci siamo affacciati sul lato più oscuro dell’alta cucina, il risvolto della medaglia di un mondo elitario e incantato divenuto ormai di moda, e per comprenderlo meglio ci vengono in aiuto proprio i testi ironici e sagaci di Anthony Bourdain, a cui va riconosciuto il merito non indifferente di averci fatto entrare nelle cucine dei grandi ristoranti, soprattutto nell’animo di chi le gestisce, illuminandone, con una sensibilità quasi antropologica, due aspetti significativi. Nell’opera Kitchen Confidential spiega innanzitutto che la vita di un cuoco avviene per la maggior parte a detrimento della normale interazione sociale:
«Non avere mai un venerdì o un sabato sera liberi, lavorare sempre durante le vacanze, essere indaffarati soprattutto quando il resto della popolazione è appena uscito dall’ufficio, generano una visione del mondo a volte peculiare […]».
Inoltre, la realtà della ristorazione spesso dietro il luccichio di piatti e bicchieri, cela abusi e vere e proprie ingiustizie.
Ma Bourdain ha un altro merito importante e prezioso ai fine del nostro discorso: fissa il momento decisivo della sua esistenza e ci sembra anche di quella di ogni uomo che scelga questa speciale professione. Da adolescente trasgredì il divieto dei suoi genitori e assaggiò un’ostrica appena pescata, scoprendo in tale gesto di ribellione, quello che non avrebbe mai immaginato:
«Avevo imparato qualcosa. In maniera viscerale, istintiva, spirituale […] e non potevo fare più marcia indietro. Il genio era uscito dalla lampada. La mia vita di chef era iniziata. Il cibo aveva potere. Era in grado di ispirare, sbalordire, sconvolgere, eccitare, deliziare e fare colpo. Aveva il potere di piacere a me… e agli altri».
Apicio, il goloso per antonomasia, sarebbe stato senz’altro d’accordo con le conclusioni a cui arrivò il precoce Bourdain nel mezzo della sua vacanza: l’ostrica è «il frutto proibito» e mangiandolo si lancia nella prima vera peripezia della sua vita, concedendosi a «una magia di cui fino a quel momento era stato solo vagamente e astiosamente consapevole». Il cibo «lo prende all’amo» e lo trasforma «in una creatura sensuale sempre a caccia di emozioni, affamata di piaceri, decisa a scioccare, divertire, terrorizzare e manipolare per colmare il vuoto della sua anima con qualcosa di nuovo».
Bourdain, attraverso tale aneddoto della sua vita, spiega l’origine della cucina come esibizione e contrappeso allo smarrimento interiore, ma soprattutto ci riporta alla cucina come gioco.
Ci auguriamo, alla luce di questo percorso, che anche alla tavola più sofisticata, prevalga la dimensione autentica dell’avventura su quella dell’interesse, del divertimento su quella del successo e soprattutto della passione su quella del primato, allo stesso tempo riconosciamo il debito con i classici: nel bene e nel male tutto deriva da lui, Apicio, l’uomo che, scientiam popinae professus, di fatto elevò la gozzoviglia a professione.
Dall’Introduzione a Marco Gavio Apicio, Antica cucina romana, introduzione, nuova traduzione e note a cura di Federica Introna, Rusconi Libri