A Potocari, un piccolissimo centro abitato della Bosnia Orientale, c’è un cimitero. Nulla di strano, a prima vista: un cimitero di campagna, come ce ne sono tanti. Le tombe sono centinaia, tutte uguali, sul fianco di una collina. Rettangolari, di legno, bianche. Il colpo d’occhio è impressionante. È ancora più impressionante, una volta entrati, rendersi conto che per tutte le persone sepolte qui le tombe riportano la stessa data di morte: 11 luglio 1995. L’11 luglio 1995 è la data di morte (approssimativa: la mattanza continuò per giorni e giorni) di 8372 persone (cifra ufficiale riportata al Memoriale di Potocari), civili musulmani, in stragrande maggioranza uomini, tra i 12 e i 77 anni. È il giorno in cui le truppe paramilitari serbo-bosniache guidate da Ratko Mladić entrarono a Srebrenica dopo anni di assedio. Nelle 48 ore successive avviarono una vera e propria pulizia etnica della città: autobus e camion che portavano centinaia di persone alle loro esecuzioni. Fucilazioni, persone fatte detonare con bombe a mano, stupri.
Ci fu chi cercò di fuggire dal massacro scappando a piedi nei boschi. Poche centinaia ce la fecero, arrivando sani e salvi giorni dopo a Tuzla; gli altri morirono nel tragitto, rastrellati dai paramilitari, o impiccati agli alberi per non farsi prendere vivi dai loro aguzzini.
Per giorni, tra il 6 e l’8 luglio 1995, fu richiesto alle forze di interposizione, i Caschi blu ONU olandesi il cui comandante era Thom Karremans, un intervento aereo che avrebbe fermato l’avanzata dei massacratori (le cui intenzioni erano chiarissime a tutte le parti coinvolte) verso la città. Il Tribunale dell’Aja ha confermato che la richiesta venne respinta numerose volte – o forse nemmeno inoltrata dai comandi europei a cui spettava il compito di proteggere l’enclave di Srebrenica. Quando i cittadini e le cittadine in fuga da Srebrenica corsero a Potocari (a pochi chilometri di distanza), dove erano di stanza i Caschi blu, vennero rassicurati: nessuno avrebbe fatto loro del male, semplicemente sarebbero stati smistati e ricollocati in territorio musulmano. Chi li rassicurava li stava già caricando sugli stessi autobus che li avrebbero portati all’appuntamento con la propria morte violenta. Chi li rassicurava, Ratko Mladic, aveva già iniziato a sterminarli, e intanto brindava con Karremans, che gli aveva anche lasciato a disposizione tank e divise ONU per facilitargli il lavoro.
Quello di Srebrenica è il più grave genocidio avvenuto su suolo europeo dopo la Seconda Guerra Mondiale. Eppure questa cosa enorme, questo nodo di dolore così grande e terrificante da non poterlo contenere in due soli occhi, in un cuore solo, dopo 25 anni non è ancora stato sciolto, non ha trovato davvero giustizia né, soprattutto, pace. Per questo l’11 luglio 1995 è anche la data di morte del sogno europeo, che però non è mai stata scritta su nessuna lapide bianca di un cimitero di campagna.
Chiunque abbia familiarità con le vicende della guerra di Bosnia e del genocidio di Srebrenica conosce benissimo l’importanza delle celebrazioni che si tengono ogni anno a luglio, in particolare in date simboliche come il venticinquennale. Ma nessuno, un anno fa, avrebbe mai potuto immaginare che questo anniversario sarebbe stato particolare anche per altri motivi. Per via della pandemia di COVID-19, tutto si è svolto in una modalità estremamente ridimensionata: la Bosnia Erzegovina era riuscita a contenere piuttosto bene i casi di COVID, ma nelle ultime settimane la curva ha ricominciato a salire, e con essa le misure di contenimento. La commemorazione dell’11 luglio, e i funerali delle vittime identificate nell’ultimo anno (otto, per il 2020), si sono tenuti regolarmente, ma le centomila persone che gli organizzatori attendevano saranno presenti solo in minima parte. Quest’anno alla Marcia della Pace, il cammino di cento chilometri che percorre a ritroso quello dei bosniaci che fuggirono a piedi da Srebrenica in quelle ore concitate, parteciperanno solo un centinaio di persone, tutti reduci della marcia del luglio 1995.
E forse mai come quest’anno sono importanti le iniziative collaterali artistiche intorno all’11 luglio: ad esempio, Aida Sehović ha inaugurato a Srebrenica un’installazione composta da 8.000 tazzine di caffè bosniaco (circa quante le vittime del genocidio) raccolte nell’arco di anni da famiglie bosniache in tutto il mondo. Si chiama “Što te nema”: perché non ci sei. Progetti come questo hanno una fondamentale funzione di conservazione della memoria collettiva, ma servono anche a mantenere Srebrenica rilevante sul piano internazionale, a non lasciarla scivolare nell’oblio, perché tanto c’è ancora da fare sia dal punto di vista della giustizia che da quello dell’elaborazione del trauma, entrambi elementi fondamentali per la riconciliazione sociale che la Bosnia insegue ancora. Una vera riconciliazione, per un paese lacerato da anni di guerra civile, sarà impossibile finché non sarà fatta davvero giustizia. Il Tribunale dell’Aja ha condannato molti dei principali responsabili di crimini di guerra di quegli anni, ma allo stesso tempo ha rinunciato a perseguire i quadri medi e inferiori delle forze militari e di polizia, mentre sta svanendo la già scarsa collaborazione tra le procure bosniaca, serba e croata, che avrebbe potuto ottenere qualcosa rispetto ai processi “minori”. Il processo a Ratko Mladic, principale responsabile del genocidio insieme a Radovan Karadzic, non si e ancora concluso, anzi è stato rimandato, come quasi tutto in questi mesi congelati, al 2021. Sebbene sia quasi certa la condanna all’ergastolo, è una questione di troppo ancora aperta: come fa notare Alfredo Sasso su Osservatorio Balcani, «è come se il Tribunale di Norimberga fosse stato ancora operativo nel 1971». Mentre la giustizia prosegue con i suoi tempi dilatati, ci sono ancora centinaia di famiglie in attesa di ritrovare i corpi dei propri cari scomparsi, uccisi, sepolti in fosse comuni nel raggio di decine di chilometri, e mai riesumati. Dopo tutti questi anni, mentre i testimoni diretti muoiono, i soldi da investire nei costosi processi di riesumazione diminuiscono e il mondo dimentica, ci si chiede se verranno mai ritrovati tutti e se il cimitero di Potocari finalmente potrà riposare, senza accogliere nuove sepolture ogni anno, a luglio.
Ma le condanne dei tribunali non bastano senza un lavoro profondo di educazione, di informazione, di riconciliazione, di elaborazione del lutto. «Nei Balcani, dalla dissoluzione della Jugoslavia multinazionale, tutto viene letto con le lenti dell’appartenenza nazionale, e lo stesso accade con la memoria: incapace di guardare ai propri errori, rivendicando solo quanto subito dall’ “altro”, e provare a rievocare qualcosa di comune», scrive Giorgio Fruscione. In questo momento, la situazione politica del paese continua ad essere stagnante. La Bosnia è bloccata in un limbo istituzionale eterno, dovuto alle conseguenze degli accordi di Dayton che hanno messo fine alla guerra soltanto poche settimane dopo il massacro di Srebrenica, che a quel punto molti si chiesero se fosse stata una pedina necessaria da sacrificare in nome della pace. Un Alto Rappresentante delle Nazioni Unite ha tuttora potere di veto su qualsiasi decisione del Parlamento bosniaco; a questo si uniscono gli strascichi irrisolti del conflitto e del genocidio, e una situazione economica molto precaria. Ai margini dell’Europa, mai veramente integrata nel sogno europeo nonostante per quattro anni Sarajevo sia stata «il centro del mondo» (come dice Roberta Biagiarelli nel suo spettacolo Souvenir Srebrenica citando Dževad Karahasan ma anche Luca Rastello), la Bosnia è stata lasciata sin dagli anni della guerra alla mercé dei paesi del Golfo, corsi in soccorso dei fratelli musulmani in pericolo e che oggi usano il paese a tutti gli effetti come una dependance.
Va detto che anche il resto d’Europa, per non dire delle Nazioni Unite, non ha affatto fatto i conti con le responsabilità internazionali di quello che è successo in Bosnia tra il 1991 e il 1995. «Il sangue versato a Srebrenica porta fra l’altro il marchio dell’Unione Europea. Ma porta anche la firma dei governanti di Sarajevo, poco interessati a Srebrenica, ma impossibilitati (per la rivolta popolare che ne sarebbe conseguita) a consegnare la città al tavolo delle trattative», scrive Luca Rastello nel suo capolavoro La guerra in casa (Einaudi). Mettendo da parte le responsabilità di numerosi paesi europei nei conflitti balcanici, le promesse non mantenute, le ingerenze, gli affari sporchi fatti vendendo armi e mine antiuomo ad ogni parte coinvolta (e noi italiani in questo ci siamo distinti), che non abbiamo il tempo di affrontare qui ma che sono questioni mai nemmeno nominate, figuriamoci risolte, con il passare degli anni una preoccupante ondata di revisionismo sta diventando sempre più mainstream, cosa molto preoccupante in un contesto mondiale in cui le fake news prendono pericolosamente piede. La Republika Srpska ormai non ha più remore nel proporre il suo revisionismo sui fatti e i personaggi di quegli anni, che minimizza il numero delle vittime e presenta la presa di Srebrenica come una «autodifesa necessaria», legittimata anche da alcuni attori internazionali. Nel 2019 ha fatto scalpore l’assegnazione del premio Nobel per la letteratura a Peter Handke, scrittore austriaco che non ha mai fatto mistero delle sue posizioni negazioniste del genocidio di Srebrenica. A dispetto di tutto lo strapparsi i capelli sulla cancel culture di questi ultimi tempi, le sue idee non gli hanno impedito di vincere il Nobel.
L’ONU è morta a Sarajevo, ha scritto nel 1995 Zlatko Dizdarević, giornalista del quotidiano Oslobodjenje, con un duro atto d’accusa di chi dopo tre anni di assedio ha perso completamente la fiducia nella giustizia internazionale: non solo, ma a Srebrenica è morta anche l’Europa. O perlomeno un’idea del sogno europeo che non si era ancora infranta contro il suo primo grande fallimento dopo la Seconda Guerra Mondiale: quella di un’Europa che prometteva che non avrebbe mai più permesso un genocidio sul suolo europeo, che ogni popolo sarebbe stato protetto da massacri commessi in nome dell’odio. Invece, la civilissima Europa non solo lo ha permesso, ma sulla pelle dei milioni di morti nei Balcani ha fatto affari d’oro, senza dare loro nulla in cambio se non la promessa, un giorno, di poter entrare nell’esclusivo club dell’Unione (come hanno fatto in anni recenti Slovenia e Croazia, e come continuano a tentare, restandone pericolosamente lontane, Serbia e Bosnia). Dopo Srebrenica, l’Europa si è strappata le vesti in un coro unanime di “mai più”, ha giurato che era stata solo una svista, un errore del sistema, che avrebbe difeso le vite di tutti, come dopo il 1945. Queste parole suonano ancora più stridenti oggi, mentre assistiamo quotidianamente alle morti di migliaia di migranti che rischiano la vita cercando di entrare nella Fortezza Europa, in cerca di un futuro migliore. Pochissimi ci riescono, la maggior parte perde la vita lungo la strada, in fondo al Mediterraneo, nei lager libici, o di stenti e freddo cercando di attraversare a piedi i Balcani per arrivare in Ungheria – quegli stessi Paesi dove 25 anni fa le persone morivano di stenti, fame e freddo in campi di concentramento o in città assediate. Forse non erano queste, le vite che all’Europa interessava proteggere, o fingere di proteggere.
Srebrenica oggi è lontana dalla nostra coscienza europea tanto quanto lo fu durante la guerra. Nel migliore dei casi è una storia ad effetto da raccontare, come questa settimana quando i Balcani sono di nuovo alla ribalta e sulle prime pagine dei giornali tra le proteste contro il governo a Belgrado e le commemorazioni del genocidio a Srebrenica. Tanta leggerezza sarebbe stata impensabile anche pochi anni fa, quando le guerre jugoslave erano ancora memoria viva per le società civili occidentali. Nel frattempo, l’unica guerra di cui si parla in questi mesi sui mass media è “la guerra al virus”, che applica una retorica belligerante molto pericolosa a una questione puramente medica: chi usa queste metafore dimentica che per chi ha vissuto una guerra o un assedio la chiave della sopravvivenza (non solo fisica) era la vicinanza umana e la solidarietà – concetto chiave che forse anche noi dovremmo mettere in evidenza quando si tratta di sopravvivere a un virus sconosciuto, sia come persone che come società.
Srebrenica, Tarik Samarah