La linea di demarcazione fra un dentro e un fuori viene ricondotta in questo spettacolo teatrale a movimento del corpo: «da un di qua a un di là». Prima lo si fa – si mette in atto lo spostamento – poi lo si pronuncia, e da come risuonano le sillabe si inventa una canzone, un motivo da tenere in corpo, da spingere e rilanciare fino a che non si esaurisce da sé. E poi? E poi si ricomincia.
Michele Igino Sordo mette in scena in «Solo più un Andirivieni. Passaggio da un altro a un altro» (andato in scena al Teatro Out-Off di Milano dal 12 al 16 ottobre) il processo che porta alla trasformazione del gesto in parola. Quello che ne risulta è un esperimento teatrale gioioso, in grado di raggiungere vertici poetici toccanti e spunti interessanti. Bisogna però saper accettare i rallentamenti e le deviazioni che il percorso inevitabilmente sottende: per arrivare al cuore del problema dinamico che Igino Sordo vuole indagare, cioè il problema della prossimità (fisica) tra un qui e un lì, un IO e un TU, è necessario smontare il linguaggio e spezzettare le sillabe in una serie di stringhe ritmiche, ripetute, che possono disorientare in un primo momento lo spettatore. Non è un compito facile, infatti, rovesciare la gerarchia millenaria di matrice cristiana che mette in principio il ‘Verbo’ (la parola), e solo successivamente il Gesto (l’azione). Oggi sappiamo che le cose non stanno proprio così, ma l’idea che il contenuto informazionale passi prevalentemente per il tramite del linguaggio rimane molto radicata, anche perché quotidianamente usiamo le parole per comunicare e molto poco (quasi per niente) il corpo, al punto che ci dimentichiamo puntualmente di ascoltarlo, pensando che non abbia niente da dire.
In realtà tutto è linguaggio in natura, e il fatto che il teatro provi a divulgare questa evidenza a lungo ignorata è di per sé un qualcosa di estremamente importante. Così «Solo più un andirivieni» propone questo percorso di rovesciamento del pensiero, trasferendo il senso dalle parole ai gesti, alla disposizione spaziale degli oggetti di scena, alla ritmica.
Le percussioni vengono suonate da uno scanzonato batterista (il bravo Fabrizio Carriero), in ampia sintonia con le numerose proposte del giocoso Michele. “Stuzzicando” i piatti e i tamburi i due inscenano un dialogo fatto di risonanze, in cui la batteria amplifica ed estende gli accenti delle sillabe che si rincorrono fino a incastrarsi l’una nell’altra generando così combinazioni impreviste. Una loop station cattura un giro di parole di Michele e nel vortice della ripetizione lo trasforma in suono, in possibilità ritmica, su cui poi la batteria può intervenire. Sono momenti di improvvisazione Jazz che lo spettacolo regala al pubblico con spontaneità e leggerezza. Da qui, da questa giostra musicale che chiede continue attenzioni ed energia creativa, si arriva a porsi la questione: qui o lì? Come si fa il passaggio? O meglio, cosa significa passare da un qui a un lì, che poi è di nuovo un qui? Cos’è un confine?
Sul palco c’è un planisfero politico, è fissato a terra e Igino ci passa sopra, provando a spostarsi liberamente, come se non vi fossero guerre a vessare la superficie di quel mondo tagliuzzato in parti diverse. L’autore-attore prova a ricostruire, a misura d’uomo, lo spazio-mondo che è diventato spazio astratto, impercorribile, una copia invisibile del mondo vero, quello fatto di acqua, di terra, attraversato dai fiumi e ricoperto di vegetazione. Ci prova quasi fosse un bambino che esplora il mappamondo con le dita e ci dice che bisogna continuare a provare, che vale la pena tentare: bisogna camminare e provare a passare da qui a lì, in pace.
Fotografie nel corpo del testo di Marina Giannobi