Era ormai la fine del 1989, un anno che segnava per molti versi un cambiamento. Proprio nei giorni in cui sullo schermo scorrevano le immagini della caduta del Muro di Berlino, i Depeche Mode registravano tra la Danimarca e l’Italia un misterioso disco che avrebbe dovuto rappresentare una svolta nella loro carriera dopo il successo di Music for The Masses, con hit come Strangelove e Never Let Me Down Again, e del live 101.
Per quanto riguarda me, lavoravo a Milano da circa tre anni presso i Logic Studios dei fratelli Carmelo e Michelangelo La Bionda, una vera e propria cittadella della musica in via Quintiliano 40. Da un annetto avevo finalmente iniziato a fare lavori da fonico, dopo un impegnativo tirocinio da assistente accanto ad alcuni professionisti freelance soprattutto stranieri: una gavetta che tocca a tutti quelli che vogliono fare il mio mestiere. Nel 1988 Alan Moulder, celebre produttore e fonico inglese, aveva prodotto il disco Malafemmina di Gianna Nannini e caso volle che l’avesse terminato proprio ai Logic Studios, dove ebbi la fortuna di fargli da assistente. Fu così che Alan l’anno successivo pronunciò il mio nome quando Flood, il produttore dei Depeche Mode, gli chiese un consiglio su un fonico da arruolare per il nuovo disco della band. Da lì ebbe tutto inizio.
La mia funzione era quella di sound engineer, l’ingegnere del suono. Operavo sulle attrezzature per registrare, disponevo i microfoni. Conoscevo bene lo studio e dunque rendevo tutto il procedimento più semplice per chi arrivava da fuori. Avevamo a che fare con Flood, che oltre a essere un produttore è anche uno dei migliori sound engineer inglesi di sempre. Ad essere sinceri, loro non correvano nessun rischio: alla peggio, se non mi fossi dimostrato all’altezza del compito, sapevo che mi avrebbero rifilato a fare i caffè per la band. Invece tutto andò per il verso giusto, in quei giorni di sperimentazione musicale. Erano tutti entusiasti del mio lavoro, che ricordo come una grossa soddisfazione professionale.
A dirla tutta, il primo giorno fu piuttosto scioccante. Ricordo che direttamente dall’Inghilterra arrivò un TIR strapieno di tastiere e sintetizzatori, un’imponente quantità di attrezzatura che doveva essere cablata al mixer dello studio. Un lavoro che mi tenne molto occupato. Alla fine, tutto funzionava al meglio: eravamo finalmente pronti per iniziare il lavoro di registrazione. La session è durata sei settimane. L’idea era quella di registrare sei brani, uno per ogni settimana. All’inizio della lavorazione di un brano veniva riprodotto un provino, che era una demo registrata da Martin Gore, l’anima creativa della band. Poi si decideva che strada intraprendere per registrare il brano in maniera definitiva. Molte volte, questo voleva dire trasformarlo tantissimo, quasi stravolgerlo.
Quei quattro ragazzi inglesi mi colpirono sin dall’inizio. In studio erano a un livello di professionismo altissimo. Erano molto rigorosi negli orari, si lavorava da mezzogiorno fino a mezzanotte, con una pausa verso le sette di sera per mangiare un boccone. Tutti erano molto concentrati: erano consapevoli che quello sarebbe stato un disco chiave per la loro carriera. Ognuno aveva una figura ben precisa. Martin Gore, che era il compositore dei brani, delegava molto la produzione e la scelta dei suoni ad Alan Wilder e a Flood, mentre si concentrava molto quando bisognava registrare le chitarre, i cori o gli strumenti che suonava lui direttamente con grande capacità. Dave Gahan era ovviamente coinvolto soprattutto nelle parti di canto, ma anche quando c’erano da prendere decisioni artistiche sulla direzione dei brani o dare giudizi sul lavoro svolto fino a quel punto. Invece Andy Fletcher, che forse è quello che musicalmente interveniva meno, lo vedevo in realtà come una figura chiave nella band, era quasi il loro manager. In più dava molti input sulla direzione artistica da far prendere ai brani, aveva una grande attenzione. In sala di registrazione avevamo montato un vero e proprio set da band, con tanto di batteria acustica, basso e chitarre. Quasi ogni sera, finita la session di registrazione oltre la mezzanotte, la tensione si smorzava e partivano dei mini concertini punk-rock, capitanati da Alan Wilder. Ad orchestrare l’alchimia della band era sempre Flood, che svolgeva il lavoro di produttore. Era lui a indicare la strada da prendere per raggiungere la sonorità che si desiderava ottenere, decideva quali strumenti utilizzare, individuava e analizzava le parti mancanti, rifletteva sulla stesura dei brani.
Così Violator stava vedendo lentamente la luce. Mi sono accorto da subito che il valore di quel disco da un punto di vista artistico era legato alle sue sonorità assolutamente innovative per quell’epoca. Era pieno di elettronica, come ci avevano abituati i Depeche Mode, ma c’era anche molta contaminazione di strumenti acustici come le chitarre. E anche la tecnica del campionamento, usata molto dalla band anche in passato, era ora assoldata per campionare suoni reali e più concreti, come ad esempio i passi di Personal Jesus, o certi cori o passaggi di chitarra che sono finiti nel campionatore, e questa fu una grande novità.
In quella session registrammo sei brani, tra cui canzoni-chiave come Personal Jesus, World in My Eyes, Halo e Policy of Truth. Il brano più importante fu in assoluto Personal Jesus, che prese tantissimo tempo in lavorazione e del quale facemmo anche il mixaggio perché doveva subito uscire come singolo. Il mix fu fatto da François Kevorkian, al quale ho fatto da assistente: fu in quell’occasione che ho toccato il mio record di permanenza consecutiva in studio, quaranta ore non-stop… un’esperienza bellissima perché ho assistito al mix di uno dei brani più importanti della storia della musica elettronica. A livello tecnico, il suono che ha più caratterizzato Personal Jesus è quello dei passi che formano la parte ritmica, che furono registrati in diverse location dello studio e in vari ambienti, utilizzando degli anfibi realmente sbattuti su dei flight case o altri materiali: il tutto fu poi campionato in un Emulator III e risuonato per ricreare lo stesso pattern ma con una precisione meccanica. L’altro suono caratterizzante è il riff di chitarra, che è la parte musicale principale del brano: fu suonato da Martin Gore sia con la chitarra acustica che con quella elettrica, parti che furono poi campionate e riprocessate per creare altri suoni dello stesso riff che vennero sommati. Nella fase di mix si aggiunsero anche campionamenti di voci di predicatori americani che ci furono mandati per mezzo di una musicassetta spedita dagli USA: ricordo che ad un certo punto avevamo il mix fermo, non potevamo concludere il lavoro perché stavamo aspettando quella cassetta. Internet ancora non esisteva e quello della spedizione via posta era l’unico modo per ottenere suoni di quel tipo. Altri tempi.
Fatti gli ultimi ritocchi, il lavoro era ormai al termine. Una volta ultimato il mix, Daniel Miller volò in Inghilterra per fare il transfer sul vinile, e tornò una manciata di giorni dopo con cinque prove stampa e si scelse quella che suonava meglio delle altre. Questo credo dia un’idea del livello di dettaglio e cura nella realizzazione di questo disco, che avrebbe visto la luce di lì a poco, il 19 marzo del 1990. Riascoltandolo anche oggi, si intuisce come si trattasse di un LP coraggioso, pieno di azzardi e di sperimentazione. Come avevo imparato in quei giorni di registrazione, la filosofia di lavoro dei Depeche Mode prevedeva il divieto di utilizzo di suoni che fossero già stati usati in passato: ogni suono veniva costruito da zero e appositamente per la funzione che doveva avere in quello specifico brano. Era un elemento innovativo notevole per una band così importante, e un’esortazione al potere della creazione. Portava le incisioni a un livello di sperimentazione altissimo, e poi questo confluiva anche nel risultato musicale finale che diventava veramente unico. Credo sia proprio questa unicità sonora a far sì che oggi, a trentun’anni esatti di distanza dalla sua uscita, Violator non suoni assolutamente datato e continui a girare tra i nostri ascolti anche ora che siamo rinchiusi in casa, ricordandoci che dobbiamo sempre osare un po’ di più per trovare la nostra vera essenza.