Dalla sua nascita a Ravenna nel 2018 alla sesta edizione del 2023, Polis Teatro Festival si presenta come una rassegna con due intenzioni illuminate; la prima, più squisitamente politica, aspira a rimettere al centro temi quali difesa di diritti civili, le migrazioni, le guerre e il cambiamento climatico. La seconda, altrettanto politica ma anche sociale, vuole riavvicinare il pubblico al teatro contemporaneo e riportare sotto il palco anche cittadini che per motivi sia economici che culturali non vi mettono piede, adottando misure inclusive come il contenimento dei prezzi.
Quest’anno i due ideatori e direttori, Davide Sacco e Agata Tomšič della compagnia ErosAntEros, hanno scelto di porre il focus sull’eterogeneo panorama dei paesi balcanici. Dal 2 al 7 maggio in cartellone si sono tenuti eventi diffusi nella città, favorendo «artisti provenienti da Bosnia, Croazia, Kosovo, Slovenia, Albania e compagnie che su quel territorio hanno deciso di indagare e riflettere».
L’intento di portare a Ravenna il teatro nella sua dimensione europea si sposa con quello di animare non solo la città ma anche le aree limitrofe. Ed è per questo che con una navetta messa a disposizione dall’organizzazione si può raggiungere il Teatro Socjale di Piangipane, sede dello spettacolo di Klaus Martini, PPP ti presento l’Albania. La cornice della messa in scena è parte della suggestione generale e si lega perfettamente col filo politico del programma di Polis: al centro della landa padana si innalza, in un piccolo paesino, un palazzo costruito da una cooperativa di braccianti a inizio Novecento, i quali nella loro concezione collettivistica della produzione erano persuasi che la realizzazione di spazi destinati alla comunità permettessero l’elevazione culturale delle masse contadine.
Oltrepassando la prima saletta del palazzo, ci si ritrova direttamente in teatro. Sul palco appare una scenografia essenziale, composta da tavolo e sedia bianchi, libro, lampadine e una serie di foto. Per Klaus Martini, nato in Albania e cresciuto in Italia tra Umbria e Friuli Venezia Giulia, non è il primo lavoro che coinvolge la figura di Pier Paolo Pasolini, avendo precedentemente figurato tra i ruoli principali in La Morteana con la regia di Massimo Somaglino. In questa occasione, il suo incontro con Pasolini lo porta a sviluppare un monologo autobiografico composto di storie personali, scritti di Pasolini e ritocchi autoriali.
«Ti senti più italiano o albanese? Chi sei?». La domanda che incalza fin dai primi momenti del soliloquio sembra trovare, nella lettura di Il sogno di una cosa, un modo per agganciarsi al nostro presente e spiegare pensieri di migranti o di cittadini di seconda generazione. Una parte dello spettacolo è infatti concentrata sulla lettura di brani tratti da quello che fu il primo romanzo di Pasolini, scritto nell’immediato Dopoguerra e destinato a raccontare le sorti di un viaggio rocambolesco che porterà dei giovani friuliani nella ex Jugoslavia. Martini percepisce il testo pasoliniano come un’architrave su cui innestare la storia della propria famiglia di origini albanesi, mettendo in scena con la semplice strumentazione di cui dispone un viaggio nel quale affiorano racconti d’infanzia, suggestioni personali e un coacervo di lingue indistinte. Sorge in alcuni momenti spontaneo chiedersi oltre alla funzione di gancio per la sceneggiatura, quale sia stato il rapporto di Pasolini con l’autore, con l’Albania o con gli stessi, altri, paesi dei Balcani che si vuole riportare alla luce oltre ai brani citati.
«Adriatico, matrimoni, funerali, Albania». Andando avanti, il quesito si scioglie e quella che fu la vita degli italiani nel Dopoguerra, descritta da Pasolini verso la fine degli anni Quaranta in Il sogno di una cosa, rappresenta un presagio della sorte di tanti e tante albanesi che, a seguito di crisi e conflitti civili e territoriali, hanno scelto di abbandonare la terra natia per tentare una strada altrove. L’Adriatico, che segna solo cento chilometri tra una riva e l’altra, è il simbolo di questo moto ondivago dell’identità, che conduce chi guarda a oscillare tra i ricordi di matrimoni rievocati da Martini, come anche funerali, che diventano le scene dolceamare provate dall’attore per narrare di occasioni per riconciliarsi con famiglie ormai sparse in diverse parti del mondo e tradizioni che vanno negli anni rarefacendosi.
L’uso del friuliano, dell’italiano e dell’albanese appare una delle soluzioni migliori dello spettacolo, perché conduce il pubblico all’interno di quella tensione costantemente descritta dall’attore e riesce inequivocabilmente a trasmettere un concetto centrale da accogliere per comprendere il discorso più che mai attuale sulle seconde generazioni, che vuole l’identità di chi ha un’appartenenza territoriale multipla in preda a innumerevoli contrasti e in cerca di una sintesi, in questo caso tra le due sponde del mare.