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Perché I Miserabili di Ladj Ly esistono ancora



Un poliziotto traffica nel tubo adibito a pattumiera per cercare qualcosa. Due pitbull si rincorrono davanti all’entrata del condominio circondati da una miriade di ragazzini che li incitano, adolescenti in monopattino partono per delle consegne, sparandosi con pistole a pallini nei tempi morti. Sembra un film, e invece no.
Le riprese con il drone dei palazzi di Ladj Ly in Les Misérables mi hanno riportata a qualche estate fa, quando ho trascorso un paio di mesi in uno di quegli HLM alle porte di Parigi, adiacente a uno dei quartieri più uptight della capitale, dove si può passeggiare nel Parc Monceau e sentirsi come in un romanzo proustiano, nonostante la contemplazione del parco sia intervallata da jogger, che levano un poco di quella poesia in cui si vorrebbe rimanere. Imboccata rue Malesherbes e percorrendola verso Porte de Clichy, si arriva a tutt’altro tipo di poesia: ecco ergersi un gruppo di palazzoni popolari, verrebbe da dire imponenti usando un linguaggio noto, ma non sarebbe esatto. Bruttezza e desolazione sono le parole che vengono subito in mente guardandoli: il bianco è diventato grigio e le imposte giallognole, stipate a più non posso, sembrano sempre sul punto di cadere.
Palazzi costruiti in fretta e furia per ospitare mano d’opera proveniente per lo più dalle ex-colonie francesi che dovevano contribuire alla realizzazioni di “vere” case, per “veri” cittadini. Poi sono rimaste, imbruttendosi sempre più e diventando la casa fissa di moltissime persone.

Per me era una vacanza, un’esperienza inusuale, esotica, e già così mi era bastata. Peccato che tutti gli altri inquilini ci vivano giorno e notte, sopportando il fatto di sentirsi dimenticati. Come la donna Kabil che mi confondeva con la sorella di qualcuno, buttandomi le braccia al collo, o il senzatetto che dormiva nella tromba delle scale, rigorosamente senza luce, o i ragazzini senza scopo che avevano stampata già sul viso quell’aria di sfida contro un sistema di cui non si sentono parte, da cui si sentono esclusi e giudicati. Una valle dei miracoli, senza miracoli.
Esattamente ciò che descrive Ladj Ly, originario di Montfermeil, uno dei “posti caldi”, come si divertono a chiamarli i media. I primi dieci minuti del film basterebbero forse alla comprensione di unintera questione, di cui da anni in Francia si discute, a vuoto parrebbe.

Ladj Ly

La finale di calcio: così si apre il film di Ladj Ly con un ragazzino che esce da uno di quei palazzoni, coperto da una bandiera francese. Ricorda la Marianne di Delacroix, l’essenza della Francia. Poi una folla ricopre gli Champs-Élysées e le riprese diventano felliniane. Con questi volti che esultano, ma estrapolati dal loro contesto sembrerebbero distorti dal dolore e dalla sofferenza. C’è la Francia in questa folla, la stessa Francia divisa, spaccata, dove i valori fondanti di Liberté, Égalité, Fraternité sembrano finiti nel dimenticatoio. Una spaccatura segnalata anche da Ladj Ly, che riprende un uomo esultante coperto dalla bandiera algerina. E non è un caso.
Sembrerebbe quasi che il desiderio di vita, di appartenenza sia soffocato, e si metta a straripare in altre direzioni. Dove si può, dove riesce, con una certa apatia. Una di queste direzioni è il radicalismo e Ladj Ly mostra quanto sia facile: dove lo stato sembra assente, le autorità della mosquée se non altro ci sono ed esemplare è la frase che dice uno di loro ai ragazzini: rispettate i genitori, i grandi, i vicini. Non c’è riferimento a una comunità più vasta, come lo Stato, nel discorso dell’imam, perché per loro semplicemente non esiste.
Esistono microcomunità, ognuna con le proprie regole, rispettate pure dai poliziotti, come quella de “le maire”, il sindaco spirituale parrebbe di un intero quartiere, o quella degli zingari che vivono secondo altre leggi ancora. In una delle prime scene del film il capo di polizia fa intendere come si possa ricorrere anche a mezzi non ortodossi e che la sola cosa che importa è la coesione nell’equipe contro «la brutalità del mondo che ci circonda», come dice quasi ironicamente uno dei poliziotti. Eppure questa brutalité esiste davvero e tutti concorrono a crearla. Da questi discorsi emerge un cinismo, una rassegnazione, che Ladj Ly tenta finalmente di scuotere: sarebbe facile e ben più comodo poter fare una cernita fra buoni e cattivi e mettersi il cuore in pace, ma la realtà è ben più complessa e il regista non cade in questa facile trappola, lasciandoci inebetiti di fronte alla grandezza della tragedia che si sta consumando e a cui nessuno sembra voler porre rimedio.

Ladj Ly sceglie Victor Hugo per il suo titolo, lo scrittore francese per eccellenza, il romantico con gli ideali di giustizia e di eguaglianza. Ma non lo fa con solo intento celebrativo. Les Misérables esistono ancora, e non sono solo qualcosa che leggiamo distrattamente sul giornale o in un romanzo ottocentesco. E allora questo film adempie a uno dei più alti valori dell’arte, quello di rappresentare per smuovere le coscienze e mettere in moto azioni riparatrici.
L’arte non deve sempre avere uno scopo, ma credo che in questo caso sarebbe utile trovarlo, alla maniera del verismo di Zola, che rappresentava la realtà nuda e cruda, ma a differenza di Verga, la controparte italiana, credeva nel progresso, nella possibilità di un miglioramento.

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