Ho una mia personale teoria sulle origini della pandemia. Non è ancora supportata dalla scienza, ma il tempo mi darà ragione, come succede in ogni epoca ai grandi visionari. Per il momento mi accontento di sapere di avere ragione, non sono mica uno di quegli scrittori esibizionisti in cerca di un pubblico idolatrante, io.
La teoria, sinteticamente espressa, è la seguente: il Coronavirus è conseguenza di un Dio incavolato con i Pavement, i quali dopo vent’anni dallo scioglimento (e a dieci esatti da una brevissima reunion, da un ultimo tour e da un best of intitolato – ci credete? – Quarantine the past) annunciano che nel 2020 si riuniranno nuovamente (fin qui tutto bene), ma decidendo – ed è qui che il suddetto Dio perde il suo carattere misericordioso – di fissare solamente due date, una in Spagna e una in Portogallo. Due date. In Spagna e Portogallo. Capite cosa intendo? Una delle band più importanti degli anni ’90 decide di riunirsi – dando il via ad ole oceaniche, da Auckland a Hammerfest – e uccide sul nascere l’entusiasmo di milioni di fan piazzando due date soltanto, tra l’altro in due posti non esattamente centrali nel contesto musicale mondiale.
Ora, lo so cosa state pensando: i Pavement non sono mica così importanti da scatenare l’ira funesta di Dio, giusto?
Oddio, so che non lo state pensando tutti. Tra voi ci sono almeno altre due categorie, oltre agli scettici: i primi – che chiamerò i saggi – stanno annuendo compiaciuti e pensando “ben fatto Dio, motivo più che valido per punire la popolazione mondiale con la peggiore epidemia dai tempi dell’influenza spagnola”. L’altra categoria – agli antipodi di quest’ultima – si sta chiedendo non tanto chi siano i Pavement, né tanto meno ha aperto una nuova scheda sullo smartphone e googlato il nome Pavement; no, questa terza categoria – che si scinderà al termine della lettura di questo articolo in due sottocorrenti, i futuri illuminati e i persistenti nell’oscurità – si sta tuttora chiedendo se valga la pena sulla base di questo articolo googlare il nome Pavement e andare alla scoperta di una delle band fondamentali degli anni ‘90. E come il Mar Rosso di fronte a Mosè, i primi arriveranno alla fonte della verità, mentre i secondi continueranno a vagare ignari per il mondo, senza mai porre in dubbio il dogma autoalimentantesi che l’ultimo decennio del XX secolo sia racchiuso tra il suicidio di Kurt Cobain e Wonderwall degli Oasis.
Ma torniamo alla domanda rimasta appesa nell’aria: i Pavement sono davvero così importanti?
Dunque, amici lettori, poniamola in questo modo: se mi venisse chiesto quali sono per me le cinque band più significative degli anni ’90 – ma smettiamola di parlare forbito, parliamo delle band degli anni ’90 che amo di più – elencherei in ordine sparso Smashing Pumpkins, Radiohead, Nine Inch Nails, Blur e Pavement. Ok, so che con questa affermazione mi sono giocato i lettori-fan-atici-dei-Nirvana, ma permettetemi di scrivere che anche il fan più irriducibile di Cobain e soci, al cospetto di una conversazione onesta e franca (parlo di quelle conversazioni da orario di chiusura dei pub, quelle che facevamo prima che Dio si indiavolasse per la reunion insoddisfacente dei Pavement e chiudesse tutto), anche il fan più malato della band di Seattle, dicevo, ammetterebbe come i Nirvana siano stati un fenomeno di costume ancora più che musicale. Ecco, l’ho detto: addio fan dei Nirvana, avanti fan delle altre band citate. Nel salutare i primi, faccio un passo ulteriore: se qualcuno (ma chi è mai quel qualcuno?) mi obbligasse a ridurre il mio elenco da cinque a quattro band – ma sbilanciamoci: facciamo da cinque a tre – non sarebbero i Pavement a cadere dalla torre. Non dirò i prescelti, avendo io già perso troppi lettori in un paragrafo solo, ma non sarebbero i Pavement a scendere dal podio.
Coloro che, come me, sono venuti al mondo nell’ultimo vagone di quel trano chiamato Generazione X, sono cresciuti musicalmente negli anni ’90. Quindi, quando scrivo che i Pavement sono tra le band fondamentali di quel decennio, intendo dire che sono tra le band fondamentali della mia vita. E quindi, per la proprietà transitiva, sono tra le band fondamentali per tutta la Generazione X. [Ok ragazzi, se parliamo di importanza è giusto che i Nirvana tornino prepotenti dentro la cinquina, e in posizione di vertice. Ma non c’è motivo di scrivere un articolo di alcun genere sui Nirvana; non dopo quell’aprile 1994 in cui chi ancora non li aveva scoperti li scoprì e ora li ama o li detesta per partito preso, senza possibilità di smuovere di un centimetro alcun giudizio. I Nirvana sono una scacchiera imprigionata nel cemento].
Ma il caso Pavement è diverso, perché parliamo di una band di culto, ma che milioni di persone ignorano tuttora. O conoscono poco, oppure collegano a qualcosa di sbilenco e poco attraente, a partire da un nome che svela un understatement il quale, unito a un’ironia sopraffina e a un rifiuto di prendersi sul serio introvabile in qualsiasi altra band di successo mondiale, rappresenta il vero marchio di fabbrica della band.
I Pavement hanno un nome dimenticabile, scrivevano canzoni sbilenche e testi sghembi, suonavano chitarre scordate e cantavano in modo stonato. Stephen Malkmus era un bel ragazzo, ma non aveva nulla di maledetto; piuttosto, somigliava al nerd dalla battuta appuntita che rischia quotidianamente di essere chiuso nell’armadietto dai bulli della scuola. Poco diretti, poco commerciali, ignari delle mode e masochisti nelle scelte imprenditoriali. Un esempio? Dopo un esordio garage/noise amato dalla critica, ma troppo sgangherato per attrarre il grande pubblico, i nostri pubblicano nel 1994 il loro capolavoro – Crooked rain, crooked rain – diventando accessibili quanto basta per sedurre le radio ed MTV, dove il singolo Cut your hair (la canzone più paracula da loro mai composta) circola allegramente e con brio. Sembra che tutto vada nella giusta direzione: band di assoluto valore, album di assoluto valore, successo meritato. Malkmus e soci che siedono al tavolo dei grandi, tra le mani le carte giuste per accedere all’olimpo. Cosa accade, allora? La scelta più punitiva che una band con la testa sulle spalle infliggerebbe mai a se stessa: i Pavement ribaltano il tavolo da gioco e pubblicano un disco – Wowee Zowee – ancora più sbilenco, sperimentale e respingente del primo Slanted & Enchanted, a partire dall’assurdo e immemorabile titolo, grido di giubilo attribuito al primo batterista della band, personaggio bizzarro che trascorreva i concerti in scherzi stupidi piuttosto che a suonare lo strumento per il quale era pagato, cosa che gli procurò decine di richiami da parte dei compagni e, ultimo, il licenziamento (guardare per credere il documentario Pavement – Slow century, che si apre con i Pavement sul palco e Gary Young in equilibrio sulla propria testa invece che dietro la batteria).
Insomma, è il 1995 e i nostri sputano in faccia al successo e rimpiccioliscono, proprio come i luoghi in cui suonano e le vendite dei loro dischi. Nel frattempo, il globo dice addio al grunge e vira verso il britpop e le sperimentazioni elettroniche alla Ok computer che omologheranno la seconda metà del decennio, prima di soccombere anch’esse al millennium bug, all’hip pop e al folk rock dalle tinte nostalgia. Ma se l’importanza storica di una band va cercata nella sua capacità di influenzare chi arriverà dopo, con i Pavement si troveranno a fare i conti tutti i coevi e i successori che tenteranno di sporcare il proprio rock con improvvisazioni davvero improvvisate, e non buttate lì ad arte per sembrare puri. Puri, i Pavement lo furono davvero e fino alla fine: di quella purezza che i geni non cercano, e che potremmo raffigurare con l’immagine di cinque ragazzi che improvvisano in un garage e cinquant’anni dopo si trovano ancora tutti i sabati sera nello stesso garage, qualche birra e la voglia di continuare a cazzeggiare, il divertimento prima di tutto.
Parlando di influenze, ricordate Song 2 dei Blur? Sì, parlo del pezzo che partiva quando lanciavi Fifa ’98 sulla Playstation. Era il brano di punta di un album – l’omonimo Blur, grezzo e sottovalutato manufatto del 1997 – che a detta del leader Damon Albarn nacque proprio grazie ai Pavement e al loro imparagonabile stile. D’altronde, qualcuno pensa davvero che i Blur di Parklife avrebbero mai realizzato un disco così garage, composto da pezzi sghembi come Country sad ballad man, lo-fi come You’re so great, b-sides promosse dalla panchina al campo da gioco come Theme from retro?
Perfino Thom Yorke, leader della band che avrebbe sostituito Cobain al timone della seconda metà del decennio, si è sempre dichiarato fan dei Pavement. La lista dei colleghi spasimanti sarebbe infinita, ma cercare di imitare lo stile di qualcuno che ami non significa potersi tingere della sua anima, così come non puoi prendere un diamante grezzo, dargli una lucidata e scagliarlo contro i cristalli dell’alta società senza rompere qualche specchio. Non a caso, la strada dei Pavement si interruppe nel 1999 con un album prodotto da Nigel Godrich, già padre di Ok computer e amante dei Pavement al punto da chiedere di lavorare gratis per loro. Terror Twilight nacque sotto i migliori auspici (i Pavement e Nigel Godrich, scherziamo?), ma si concluse con Malkmus sempre più solo, sempre meno a suo agio, sempre meno divertito («The damage has been done, I am not having fun anymore», recita in Ann don’t cry, uno dei suoi rarissimi versi a cuore aperto).
Impossibile incanalare la purezza dei Pavement nella perfezione metallica di Ok computer. La band si sciolse pochi mesi dopo, con Malkmus che all’ultimo concerto, metaforicamente piovuto nel dicembre 1999, si presentò al microfono con un paio di manette a simboleggiare il suo senso di prigionia all’interno di una band che non sentiva più sua e che non voleva più guidare. Da lì a poco avrebbe dato il via a una carriera solista con discreti risultati, ma mai all’altezza dei capolavori del millennio passato.
Non vado oltre. La preghiera, per chi non avesse abbandonato questo articolo a metà strada per tuffarsi dentro Crooked rain, crooked rain, è: tuffatevi dentro Crooked rain, crooked rain. Meglio ancora, tuffatevi dentro Quarantine the past, la stupenda raccolta che esattamente dieci anni fa segnò il ritorno dei nostri sui palchi di mezzo mondo. Scoprirete il meglio dell’indie-rock anni ’90 e mi ricorderete a vita nelle vostre preghiere. E voi, cari Pavement, non fate più arrabbiare Dio e piazzate un tour 2021 che tocchi tutti gli angoli della terra, sedando i cattivi pensieri con classici senza tempo quali Gold soundz, Stop breathin’, Here e Summer babe (winter version). Come all’Estragon di Bologna quel 25 maggio di dieci anni fa, serata indimenticabile nella quale, se io e gli altri seguaci del vostro culto avessimo sospettato che sarebbero occorsi altri dieci anni per rivedervi insieme sullo stesso palco, avremmo un po’ imprecato, un po’ pianto, un po’ imprecato, un po’ pianto, stringendoci forte sulle note finali di Range life.