Eppure è tutto lì, nero su bianco, in quel titolo: Paris Milonga. Riferimenti geografici, stilistici, una dichiarazione d’intenti ermetica ma essenziale, come si confà alle persone pratiche e di poche parole. La Francia e il Sudamerica, il jazz e la musica popolare, i confini di un’arte che Paolo Conte sta davvero imparando a maneggiare. Gli anni Settanta sono stati un lungo apprendistato: non c’era da imparare a essere un artista, ma a indossarne i panni. A mostrarsi, esibirsi, uscire dal guscio. Gli anni Ottanta sono un altro paio di maniche, un’ascesa irresistibile che trova compimento il 12 marzo del 1985 con il primo concerto parigino al Théatre de la Ville.
Nella primavera del 1981 quei salotti buoni sono ancora un miraggio, ma basta una fervida fantasia per riuscire a vagheggiarli. «Tutto il meglio è già qui/ non ci sono parole», canta l’avvocato astigiano in un pezzo che la Francia ce l’ha già nel titolo, Madeleine, con la sua rassicurante malinconia e quella sequela di ricordi che scorrono veloci («Si sa, col tempo e il vento tutto vola via»).
Snodo fondamentale nella carriera artistica, primo vero successo discografico e trampolino verso un decennio dorato, Paris Milonga viene registrato presso gli studi RCA di Roma con la produzione di Italo “Lilli” Greco e vive anche dei contributi di musicisti quali Claudio Dadone, Jimmy Villotti, Felice “Happy” Ruggiero, Lele Melotti e molti altri: una vera orchestra, per la prima volta. E tutto cambia.
Il geniale autore che si vergognava di interpretare se stesso ha ormai lasciato il posto a un artista sicuro dei propri mezzi, ma ancora piuttosto incline a canzonarsi, come a voler mostrare al pubblico di non essere disposto a prendersi troppo sul serio. La maestosità di Alle prese con una verde milonga si stempera nella divertita interpretazione de L’ultima donna, una sorta di vaudeville che sembra uscire dalla penna di Georges Brassens.
Il confronto-scontro tra due canzoni così volutamente agli antipodi mostra anche l’incredibile gamma espressiva di Paolo Conte, un autore che passa con disinvoltura da un registro linguistico all’altro, dal forbito allo sboccato («Questa vita bagascia!»), con un ruolo preponderante delle onomatopee («Chips chips/ du du du du du/ ci bum ci bum bum») e un utilizzo dell’inglese perlopiù destinato alla resa sonora più che di vero significante. Di più, la poetica dell’avvocato si nutre di sinestesie spesso legate ai colori, retaggio dell’altra vita artistica da pittore. Ecco così comparire non solo la verde milonga, ma anche la verde frontiera e i laghi bianchi del silenzio. Le figure umane che allontanandosi diventano foulards è altrettanto tipicamente contiana: basti pensare alla ragazza fisarmonica o alle trasfigurazioni degli impermeabili.
Si noterà che finora abbiamo accuratamente evitato di addentrarci nelle canzoni, limitandoci a girarci attorno, a prenderne dei brandelli per sottoporli a più specifiche analisi. La verità è che ancora, a quarant’anni esatti di distanza, si fa fatica a parlarne di questo repertorio così conosciuto eppure fondamentalmente misterioso.
Un brano come Via con me, di cui nell’album confluisce la prima take provata in studio, è talmente incastonato in quella che dovremmo chiamare “cultura popolare” da risultare quasi ovvio. In realtà è tuttora un universo sconosciuto, sfuggente nella sua apparente semplicità, e tale è destinato a restare. Boogie sembra spuntare fuori dallo stesso piano-bar che viene dipinto nel testo. È un mondo che Conte ama raccontare, perché è il luogo fisico in cui la musica si suona e si vive. L’orchestra «che si dondolava come un palmizio» potrebbe essere la medesima de L’orchestrina, soltanto con la cassiera dal volto da pechinese a fare le veci dell’odalisca. Di fatto, travolto dal piano e dalla cassa rullante, tutto il locale sembra sobbalzare al ritmo dei suonatori in un turbinio di sudore, passione, amore sconfinato per la musica jazz mescolata con lo swing («Era un mondo adulto/ si sbagliava da professionisti»).
Quasi agli antipodi nella scaletta, Alle prese con una verde milonga e Parigi segnano i confini del mondo musicale di Paolo Conte. La prima, trasportata dai fraseggi di chitarra acustica e contrabbasso, è un omaggio al Sudamerica e – tra le righe – a uno dei suoi geniali figli, il chitarrista argentino Atahualpa Yupanqui che l’avvocato astigiano aveva avuto modo di ammirare l’anno precedente al Premio Tenco. Nei suoi cinque minuti di languida bellezza c’è tutta la classe che Conte può applicare al suo fare musica. Parigi è invece forse la più canonica canzone d’amore mai uscita dalla mente di Conte, ma non può sfuggire il fatto che il sentimento si manifesti su due livelli: quello tra i due amanti travolti dalla passione, e quello per il luogo stesso dal quale tale passione pare sgorgare («Mentre tutto intorno è solamente pioggia pioggia pioggia/ e Francia»).
La passione travolge anche Via con me, con il suo incedere leggero e quel bisogno di mollare tutto e partire verso un più rassicurante ignoto, alla pari di quanto accadrà l’anno successivo nell’album Appunti di viaggio in Fuga all’inglese. Insolitamente lontano dalla “sua” provincia, protagonista assoluta di molte canzoni (una su tutte: Diavolo Rosso, pubblicata di lì a poco), il Paolo Conte di Paris Milonga appare invece in bilico tra il fatalismo e l’esistenzialismo. Fatalista e al tempo stesso sardonica è L’ultima donna, l’agrodolce ritratto di una ipotetica vecchiaia che ai rimpianti preferisce gli ultimi, spensierati bagordi. Esistenzialista è la parabola di Un’altra vita, vera perla nascosta del disco, ammantata di un lirismo pregno di metafore («Quando il leone starà/ ad aspettarti sulla sua strada/ a mezzogiorno ti guardi intorno/ neanche il signore non c’è/ è seduto a pranzo con i suoi amici/ e la sua bici non ti presterà») adagiate sulle solitarie note del pianoforte.
La sigletta finale di Pretend Pretend Pretend chiude il sipario come l’annuncio di ulteriori spettacoli, e con una convinzione nuova di zecca: tutto il meglio è già qui.