“Perché non andiamo a rispondere a modo nostro alle Sentinelle in piedi”? Un invito nato quasi per scherzo. Intorno al quale, istintivamente, si è riunito un gruppo di amici, in un caotico, colorato e ironico – soprattutto ironico – girotondo diventato minuto dopo minuto sempre più grande. Sono nati così i Sentinelli. Un movimento nato dal basso, senza gerarchie, mosso soltanto dall’urgenza di accendere le strade di Milano e poi di molte altre città – in Italia e persino in Europa – delle molte sfumature dei diritti. Una chiamata alla partecipazione che è stata raccolta anche da Edizioni Tlon, casa editrice che da alcuni anni si occupa di riportare la filosofia dove è nata: nelle strade, di restituirle la sua dimensione originaria di strumento per capire e affrontare l’oggi. La piazza (tanto reale quanto digitale) non poteva che essere il reciproco luogo di incontro, e fare avvertire una comune esigenza di tornare a parlare delle lotte e delle urgenze che mostrano chiaramente che fretta c’è di mettere “prima le persone”. Nati il 5 ottobre 2014, a ridosso del quinto compleanno del gruppo il 25 settembre 2019 è stato dato alle stampe il saggio “I Sentinelli. Che fretta c’era” in cui la voce collettiva dei Sentinelli di Milano ha tracciato una mappa della strada percorsa e di quella ancora da percorrere per disegnare un futuro che metta al centro i diritti di tutti. Con i pilastri della laicità e dell’antifascismo, in queste pagine come in tutte le loro manifestazioni i Sentinelli suggeriscono un modo fresco e libero per essere attivamente creatori del mondo come ci piacerebbe che fosse. Questo libro vuole essere prima di tutto un passaggio di testimone. Una risposta ai tanti che si sono riconosciuti simili ai Sentinelli e hanno trovato in loro quella voce che mancava per indurli a prendere parola. Un esempio da raccogliere e fare proprio. Mi è spesso capitato di chiedermi cosa io, come individuo, avrei potuto fare per sentirmi utile: l’ho capito quando Tlon mi ha proposto di scrivere questo libro. Il mio contributo doveva essere quello di raccogliere testimonianze e dar loro una forma, tagliando e cucendo per confezionare un abito che facesse onore al grande lavoro dei Sentinelli. Si trattava di tenere insieme tanti temi, perché tante sono le declinazioni in cui oggi si esprimono le discriminazioni, e non ci si può considerare davvero liberi se non lo sono gli altri. Raccontare il gruppo significava però anche fare armonizzare il suono delle molte voci che compongono e che hanno incontrato i Sentinelli, ciascuna col proprio percorso e la propria storia. Come farlo? La risposta sta proprio nel metodo da loro applicato in questi anni: facendo sul serio ma senza prendersi troppo sul serio, facendo incontrare e mettendo a frutto tutte le specificità, perché costruire e creare sono parole che hanno senso solo al plurale. Non ho potuto così far altro che interrogarmi su cosa significhi proteggere un diritto, ed è la risposta che abbiamo provato a dare fin dalle prime pagine, quelle che Limina ospita di seguito. Da qui ha avuto inizio il percorso che abbiamo provato insieme a sintetizzare nelle pagine del libro, da cui ho imparato, come ha scritto Massimo Cirri, che quel verso “Tornerai maledetta primavera”, di cui i Sentinelli hanno fatto proprio l’inno, è anche un antidoto a tutti gli inverni che ci si parano davanti.
***
«Quando stavano attenti, i Sentinelli hanno capito da quelli bravi che il linguaggio è una materia magmatica e multiforme e che, nelle pieghe di ciascun termine, custodisce chiavi di comprensione a volte sorprendenti. Prendiamo ad esempio la parola “diritto”. “Diritto” è qualcosa che si estende in una direzione, senza piegare su se stesso e dare l’impressione di tornare indietro. Per questo, altri ambiti hanno preso in prestito il termine per farne sinonimo di ciò che è giusto o dovrebbe essere percepito come tale e, di conseguenza, dell’insieme delle norme che regolano lo stare insieme di una comunità; quindi, chiudendo il cerchio, “diritto” è quel che trova posto anche nelle leggi e che per questo deve essere tutelato. Tutto lineare, “diritto” appunto.
Una strada che porta direttamente al concetto di “diritto acquisito”. Garantito, insomma, dalle leggi e dalle conquiste. E invece no: mai come oggi certi diritti, certe rette, si piegano e si fanno tonde, come i piattini sui bastoni dei giocolieri, che ruotano vorticosamente in equilibrio precario su una base minuscola e resa stabile solo dall’abilità di chi la maneggia. Un equilibrio affascinante e quasi magico che resiste solo fino a che qualcuno impiega abbastanza concentrazione e fatica per muovere i propri muscoli nel modo giusto. Senza una cura costante, capace di adattarsi a ogni minima oscillazione, di accarezzarli con la giusta dose di leggerezza e fermezza insieme, il piattino comincia a barcollare. Prima appena, poi caracolla vistosamente, e basta una frazione di secondo perché cada a terra. Magari scheggiandosi irrimediabilmente. La forma di un diritto, come quella di certi oggetti fatti per essere parenti dell’aria, è fondamentale. Mutarla significa togliere – forse per sempre – la possibilità di volare. Ma anche se si è fortunati e il piatto resta intero, occorre del tempo per rimetterlo al suo posto, perché ricominci a girare, perché sprigioni la stessa magia. Tempo che non solo poteva essere usato per fare di un piattino due, o tre, aumentandone capacità e fascino, ma anche – e forse soprattutto – tempo dentro il quale l’osservatore, rapito dall’incantesimo, viene strappato violentemente, per poi essere catapultato di nuovo nel tempo e nello spazio quotidiano, dove ad assorbirlo ci pensano le preoccupazioni minime di tutti i giorni. Se il piattino-diritto cade, come spiegare a chi lo ha visto cadere come era possibile che stesse lì, colorato e vincitore sulla forza di gravità? Che era necessario che stesse lì?
«Io credo nelle fate!» fa ripetere Peter Pan ai bimbi sperduti e a tutti i lettori mentre Campanellino si sta spegnendo. L’unico modo perché la fata e la sua magia restino in vita è che tutti i bambini ci credano, fermamente. Che rifiutino la pretesa razionalità degli adulti che relega la magia a qualcosa di sciocco e infantile, ripetendo che “è ora di diventare grandi, di pensare alle cose serie!”. Infine, che credano alle fate, che sentano che è giusto così, che è necessario. Come le fate, i diritti muoiono e i piattini cadono, se si smette di crederci. Succede se si lascia ripetere al cattivo di turno che i diritti sono cosa poco seria, il giocattolo di chi non ha niente da fare, mentre lui, proprio come l’uomo d’affari de Il Piccolo Principe, passa le sue giornate sul suo pianeta ripetendo «io sono un uomo serio, io sono un uomo serio», contando le stelle come monete da chiudere in una cassaforte, senza che nessuno le veda brillare. In un mondo in cui le stelle si spengono e le fate muoiono, i diritti cominciano a essere raccontati come giochi per bambini viziati, perdite di tempo inessenziali, inciampi sulla via della produttività, dei problemi da risolvere. E non importa più a nessuno se quel piccolo puntino luminoso che, visto dalla nostra prospettiva, è un puntolino insignificante e buono per fare atmosfera le sere d’estate, in realtà è un sole di una dimensione a noi difficile persino da concepire, che dà calore e vita a pianeti e galassie intere. Non importa, perché tanto non sono la nostra, di galassia. È questo che succede a un mondo dove ci si è premurati di spegnere tutte le luci. Gli occhi si abituano al buio, e si chiedono perché si è sprecato tempo, energia, impegno a tenere la luce accesa.
Certo, questo non accade se arriva un blackout. Se improvvisamente salta tutto, gli occhi se ne accorgono e non si vede più.
Ma se si comincia a spegnere una luce alla volta? Magari di quelle piccole, di quelle che, dai, tanto non serve poi davvero così tanto. Che sarà mai se in Parlamento passa una legge secondo cui le traduttrici dovranno portare sul cartellino “traduttore”! Dai, “ministra”, suona così male, chi se ne frega se l’Accademia della Crusca ha detto che è giusto così! Che vi offendete per così poco, voi donne isteriche? Voi che abortite perché non siete abbastanza attente, quando basterebbe dare un figlio in adozione, anche se una gravidanza può essere tutto tranne che un momento idilliaco? Luci piccole, piattini da caffè che smettono di girare. Tolti uno per volta, però, si resta senza ugualmente. E poi, in un mondo senza piattini da caffè, perché non cominciare a chiedersi se si può vivere davvero anche senza i piatti da portata? E senza le stelle, iniziano i dubbi su cosa ce ne facciamo dei lampioni. Costa meno fare senza. Gli uomini d’affari intanto hanno i loro cassetti pieni di luce, hanno le cliniche private in cui si abortiva all’estero prima che fosse legale qui, hanno il “non chiedere, non dire”. E tutti gli altri? Per tutti gli altri, anche la luce sarà diventata un bene di lusso. Un bene costretto in una gerarchia. Qualcuno si sarà premurato di spiegar loro che, prima che della luce, hanno bisogno del cibo; prima dei diritti civili, di quelli sociali. Quindi che gli uni e gli altri si contrappongono. Lo avrà spiegato abbastanza bene da fare in modo che ci si creda. Lo avrà fatto con le parole, dimostrando che “è il linguaggio che cambia le cose”. La stessa convinzione che più volte ha negato per rifiutare termini come “avvocata” (con buona pace, tanto per fare esempio, del Salve Regina, in cui la Madonna è definita «Avvocata nostra»: non esattamente il libretto rosso di Mao o un discorso di Che Guevara). Non è distopia, è attualità. Alcune parole stanno già dimostrando la loro fragilità. Vale molto più per il termine “diritto” che per la declinazione al femminile delle professioni. Allora cos’è, oggi, un diritto? La risposta appare ogni giorno più nebulosa, più soggettiva, il vocabolario non basta più (e scusateci se citiamo il vocabolario, non è nostra intenzione escludere chi è solito darli alle fiamme). Nemmeno più ciò che è sancito dalla legge si riconosce come diritto, in un Paese dove un ministro, chiamato a conservarla, si veste della qualifica di difensore della famiglia (al singolare, nonostante la legge sancisca che ne esiste ben più di una specie sola) per dichiarare che impediremo alle donne di abortire. Dove una capogruppo cittadina del partito di opposizione firma per prima un documento contro l’aborto. Dove, ancora, un altro ministro si riappropria fieramente del linguaggio di un partito disciolto per legge, come giustamente è il Partito Nazionale Fascista. Dove, a conti fatti, a molti sfuggono due passaggi fondamentali. Il primo è, come sopra, che il linguaggio conta. Che la parola “diritto” non ha nulla a che spartire con “obbligo”, ma tutto con “dovere”. Sancire un diritto non obbliga nessuno ad avvalersene, ma impone alla collettività il dovere di fare in modo che ognuno possa farlo. Il secondo passaggio, proseguendo, è che oggi non spetta più alla politica (intesa nel senso comune) essere il giocoliere, far volare i piatti, aver cura dei diritti. La politica dei partiti nazionali è un giocoliere che sta scegliendo altre palline, cerchi di colore diverso, altre priorità. Allora tocca ai cittadini, in mezzo a pianeti di uomini d’affari, far fiorire pianeti di lampionai, che ogni giorno, metodicamente, si occupano di tenere accesa la propria luce, anche se qualcuno gli ripete che non serve a nulla. Tocca a ciascuno di noi essere giocolieri e far girare i piatti, fare politica. Essere quegli abili bambini che conoscono bene l’importanza di quello che stanno facendo, e non dimenticano mai che è un gioco, e proprio per questo è importante.
Dall’ottobre 2014, di questi lampionai, leggeri e serissimi giocolieri, ne esiste un gruppo che ormai gode di riconoscimento e stima che sorprendono persino loro. Si chiamano i Sentinelli di Milano. Sanno benissimo quanto delicati e preziosi siano i diritti, quelli riconosciuti nelle leggi e “le cose giuste” che ancora mancano. Preziosi, perché non definiscono i confini del vantaggio di qualcuno – I diritti di tutti gli uomini devono essere di tutti gli uomini, proprio di tutti, sennò chiamateli privilegi, ha scritto Gino Strada – ma sono la radice su cui si costruisce lo stare insieme, un modo di guardare il mondo pensandolo al plurale, anziché al singolare. Uno sguardo sul mondo che, per sua stessa natura, non può essere recepito dall’alto, ma deve essere incarnato e difeso personalmente; non nello spazio chiuso di una formula o di un luogo di potere, ma nella condivisione, mettendoci la faccia. I diritti si creano, si difendono e si maturano nel confronto, nella piazza, nella presenza in mezzo agli altri. Come lo spettacolo del giocoliere, non sussistono per sé, ma soltanto nel momento in cui un gruppo di persone si riunisce e offre la propria attenzione e partecipazione attiva perché la magia si verifichi. Difendere un oggetto delicato e labile come un diritto, però, è un compito difficile che «esige cura e apprendimento continui. Cercare e saper riconoscere chi e che cosa, in mezzo all’inferno non è inferno. E farlo durare e dargli spazio», direbbe uno cui probabilmente divertirebbe molto la storia su cui ci si sofferma in queste pagine: Italo Calvino. Non c’è un modo giusto né uno solo per farlo. Ma c’è, spesso, anche da parte dei più motivati, il timore dell’incertezza col quale si maneggia qualcosa che può rompersi. Come si fa, nel tempo in cui la fragilità dei diritti e il pericolo a cui sono sottoposti sono sempre più evidenti, a proteggerli? I Sentinelli di Milano hanno provato a dare la loro risposta, a sintetizzare un modo in cui loro si riconoscono. Una possibilità, una delle tante. Il primo passo, quindi. Primo passo che per loro sta tracciando una strada non facile, ma diritta, verso una “primavera dei diritti”, perché loro hanno capito bene la fretta di dare esempio possibile. La fretta che c’è di mettere sempre più mani a proteggere la luce dalle sferzate del vento, perché non si spenga e si continui a vedere.»