“Ho visto Nina volare tra le corde dell’altalena…”, eppure io me la ricordo diversamente. Era un bambino quello che spesso si accaparrava l’altalena della casa del mezzadro, si sedeva sul seggiolino e volava. Chi lo spingeva era una bambina. Lui si chiamava Fabrizio, e lei Nina.
Ho visto Nina volare è la canzone che Fabrizio De André ha inserito nel suo ultimo album, Anime salve. Un brano che mi ha dedicato e che parla di noi, della nostra infanzia spensierata all’insegna della libertà, mentre a pochi metri di distanza la guerra imperversava.
Io e Fabrizio siamo nati nello stesso anno, il 1940, siamo cresciuti insieme a Revignano d’Asti. Avevamo due anni quando la famiglia De André acquistò la cascina accanto a quella dove viveva la mia famiglia. Erano sfollati in Piemonte perché il padre era ricercato dai fascisti per aver dato rifugio ad alcuni ebrei nella sua scuola. Il professor De André arrivò con la moglie Luisa, i figli – con Fabrizio c’era il fratello maggiore, Mauro – la madre e la suocera. Poi la guerra finì, ma loro se ne andarono solo nel 1950.
Io, Mauro e Fabrizio eravamo gli unici bambini, quindi fu naturale diventare compagni di giochi. Ben presto rimanemmo solo io e Bicio – così lo chiamavamo tutti. Suo fratello era più grande, molto riservato e solitario, noi invece eravamo due zingarelli scalmanati che passavano le giornate all’aria aperta a correre tra i campi, a fare scherzi, a giocare con gli animali, e ad andare sull’altalena: era il nostro gioco di ogni giorno, d’estate. La nostra è stata un’infanzia felice e Fabrizio è qui che ha scoperto il suo grande amore per la natura, gli animali e la vita di campagna. Ricordo che spesso, quando litigavamo, lui mi diceva in un perfetto dialetto piemontese: «Ricordati Nina, s’am fai anrabié at spus pi nen!» (Ricordati che se mi fai arrabbiare non ti sposo più). Probabilmente devo averlo fatto arrabbiare, visto che non solo non mi ha mai sposata, ma non si è mai più fatto vedere fino al 1997.
Io sono sempre rimasta alla Cascina dell’Orto invece, mi sono sposata, ho avuto due figli, ho vissuto con mia madre e la famiglia di mio marito. Poco è cambiato negli anni, fino al 20 settembre del 1997. Era un sabato come tanti altri, io ero all’ombra di una pianta e stavo mettendo i peperoni in composta. Mio marito Antonio mi si avvicinò con un’espressione sorpresa e mi disse solo: «Al cancello c’è De André». Subito pensai che fosse uno scherzo, ma poi andai a vedere, ed era proprio vero. Fabrizio era lì, quarant’anni dopo. L’idea che mi ero fatta di lui negli anni era che, diventato una celebrità, un personaggio famoso, fosse cambiato, fosse diventato un signore sofisticato, ed invece l’uomo che mi trovai davanti era la persona più semplice e alla mano che potessi immaginare. Tornammo indietro nel tempo, a quei due bambini che non ci avevano mai abbandonato ed erano rimasti dentro di noi in attesa del giorno in cui ci saremmo rivisti. Fabrizio volle rivedere i nostri luoghi, la casa dove era cresciuto, il portico, la sorgente e il pozzetto delle salamandre dove da bambini passavamo le ore ed i pomeriggi interi, per poi tornare a casa con l’acqua fresca per le nostre famiglie. De André – a volte mi viene da chiamarlo per cognome – si stupì di come ogni cosa fosse rimasta intatta nel tempo, esattamente identica a come lui se la ricordava.
Mi fece moltissime domande su quei nostri anni spensierati, mi chiese se mi ricordavo come si chiamasse l’asinella che suo padre gli aveva regalato il Natale del 1944. Si chiamava Lidia, e io me lo ricordavo perfettamente. Ripensammo insieme alle canzoni popolari che si cantavano durante la guerra, alle parole che non avevamo dimenticato e a tutto ciò che amavamo, come il pane che faceva ogni giorno mia nonna. Fabrizio rimase con noi quattro ore: gli offrimmo del Moscato ma lui lo rifiutò, erano più di dieci anni che aveva smesso di bere. In compenso fumava una sigaretta dietro l’altra, quelle non le avrebbe mai abbandonate. Gli chiesi perché non fosse tornato prima. Lui non mi diede una vera e propria risposta, solo mi disse: «Ti ho ricordata in una canzone». Io mi commossi, proprio come era successo l’anno precedente, quando l’avevo ascoltata per la prima volta.
Mio figlio era tornato a casa un pomeriggio e mi aveva detto che De André doveva avermi dedicato una canzone. Io avevo dato poco peso a questa rivelazione, non poteva essere vero. Poi, però, la ascoltai e vidi il videoclip in televisione: c’erano due bambini, una femmina e un maschio, una bicicletta, delle corse a perdifiato per i campi. Non ebbi più dubbi, quella canzone era per me, i ricordi, l’altalena, il miele delle api che tanto ci interessava osservare, il padre che aveva dovuto cambiar paese. Mi emozionai immensamente: io non avevo dimenticato Fabrizio, e in quel momento ebbi la prova che lui non aveva dimenticato me.
Alla fine di quel pomeriggio, quando Fabrizio si congedò, ci abbracciammo e ci tenemmo stretti per qualche istante. Ebbi la netta sensazione che quel saluto non fosse un arrivederci, ma un addio. Purtroppo, non mi sbagliavo.
Oggi Fabrizio compirebbe ottant’anni, io li faccio tra un mese: sono una nonna felice che si gode la sua famiglia. Penso a come lui sarebbe oggi, e nitidamente lo vedo a fare il contadino nella sua Sardegna, lontano dai riflettori e dai palchi che tano lo mettevano a disagio. Lo vedo circondato dalla natura e dagli animali e penso che – potendosi permettere di sognare – potrebbe essere anche qui, alla Cascina dell’Orto… quella sì che sarebbe un’autentica meraviglia.