Il 2020, anno della pandemia di Covid-19, ha esibito una funzione positiva del confine, se è vero che per proteggere la salute è necessario poter controllare e limitare i movimenti delle persone secondo criteri di precauzione sanitaria. Questo è vero tanto in riferimento al virus attuale quanto, in prospettiva, ad altri (eventualmente più gravi) che potrebbero diffondersi in futuro. Il virus, tuttavia, si è abbattuto su un pianeta i cui confini sono utilizzati da tempo anche per bloccare, controllare e schedare gli esseri umani secondo criteri diversi da questo, e a murare frontiere tra Stati per tutt’altre ragioni.
Pochi mesi prima dell’esplosione pandemica, nel novembre 2019, era stato celebrato il trentennale della caduta del muro di Berlino: un’occasione per prendere atto che le battaglie di quell’epoca non avevano condotto, purtroppo, alla condizione mondiale libera che tanto il socialismo contro cui protestavano, quanto il liberalismo che agognavano, si erano candidati a realizzare tra Ottocento e Novecento. Sorprendente è anzi quanto il secolo seguito alla caduta del muro sia caratterizzato dalla moltiplicazione dei muri e da limitazioni così brutali della libertà di viaggio da provocare, come in Libia, un ritorno a campi di concentramento degli esseri umani. La libertà di viaggio era il diritto che, nel modo più potente, aveva ispirato le mobilitazioni nella Ddr e in tutto il mondo comunista alla fine degli anni Ottanta; ma le potenze che con più forza si opposero al muro, Stati Uniti ed Europa, si impegnarono dai primi anni Novanta a costruire muri nuovi: dal confine con il Messico a Ceuta e Melilla, enclave spagnole in Marocco, per sbarrare ogni via di transito che non fossero mortali barriere naturali per deserto e per mare.
Tali sbarramenti hanno provocato, nei trent’anni seguiti al 1989, un numero di morti decine di volte più elevato di quello causato dal muro di Berlino (che non diviene per questo un ricordo meno triste o un crimine meno grave). I muri californiani o spagnoli rappresentavano, però, soltanto l’inizio. Negli anni Duemila Israele ha aggiunto alla barriera che già circondava Gaza dal 1994 il muro in Cisgiordania; barriere sono state costruite al confine con l’Afghanistan dall’Uzbekistan e dal Pakistan, dopo che l’attacco statunitense del 2001 aveva prodotto flussi di profughi da quel Paese. L’invasione angloamericana dell’Iraq ha fatto della capitale Baghdad, proprio come di Kabul, un coacervo di muri: i T-Walls issati per limitare e controllare spostamenti non tra Stati ma tra arterie e strade metropolitane, dove gruppi o individui potevano mettere in atto gesti ostili. I muri associano alla volontà di bloccare la migrazione illegale quella di prevenire attività politiche illegali. In Iraq agli attacchi contro l’occupazione militare si associavano stragi commesse contro le comunità da parte di gruppi di fanatici mossi da obiettivi settari.
Per questo la costruzione in città del primo muro tra quartieri sunniti e sciiti, nel 2007, sembrò pronunciare sull’intero Paese una parola di condanna. Era lo stesso anno in cui l’ultima barriera europea della Guerra Fredda, quella tra Gorizia e Nova Gorica, veniva superata, ma anche quello in cui la ricca e potente monarchia teocratica degli Emirati Arabi costruiva una barriera al confine con il poverissimo Oman, del tutto analoga a quelle euro-americane. Un’analoga volontà di fermare un’immigrazione sia economica che umanitaria, e di contrastare i passaggi di militanti ostili, induceva l’Iran a murare parte del suo confine con il Pakistan e più a Oriente la Cina fortificava il confine con la Corea del nord. Nel 2009 – mentre a Berlino si festeggiava il ventesimo anniversario della caduta del vecchio muro – i lavori per una barriera iper-tecnologica iniziavano ai confini della potenza che, in pochi anni, sarebbe diventata la più murata al mondo: l’India. La famigerata barriera al confine con il Bangladesh fu pensata per arrestare milioni di profughi da uno dei Paesi più sovrappopolati e poveri al mondo.
Gli ultimi dieci anni hanno decretato un’esplosione dei muri. Le rivolte scoppiate nel Nord Africa e in Medio Oriente hanno aperto la strada a conflitti, cambiamenti e repressioni che hanno indotto milioni di persone a lasciare i loro Paesi verso l’Europa, ma anche i governi del mondo musulmano a sorvegliare i confini in modo pervasivo per il timore di attività clandestine. La Turchia ha costruito a partire dal 2014, al confine con la Siria, un muro identico per aspetto ed estensione a quello israeliano. Il fine è quello di bloccare i profughi, ma anche di osteggiare la rivoluzione secolare promossa dai curdi. Tra il 2014 e il 2017 l’Arabia Saudita ha fortificato i confini con l’Iraq e lo Yemen, la Giordania quelli con Iraq e Siria, Israele ha rafforzato le barriere attorno a Gaza e ne ha costruita una nuova con l’Egitto per bloccare l’immigrazione africana. L’Iraq ha innalzato una barriera sul confine con la Siria nel 2018 mentre nuovi muri venivano costruiti o rafforzati in tutto il mondo, tra Malesia e Thailandia, Zimbabwe e Botswana, Perù ed Ecuador. L’India ha modernizzato la barriera al confine con il Pakistan, costruendone un’altra alla frontiera con il Myanmar. Il muro con il Bangladesh è divenuto il più lungo al mondo, superando i quattromila chilometri di lunghezza.
È l’Europa, tuttavia, ad essersi ricoperta di un intreccio di barriere e fili spinati per frenare l’immigrazione causata da conflitti politici, guerre, siccità e crisi economiche, soprattutto da quando i migranti hanno iniziato a usare rotte alternative a quella nordafricana attraverso la Turchia o la Russia. La muratura dell’Europa orientale è avvenuta così tra il 2012 – anno delle prime barriere tra Grecia e Turchia e tra Bulgaria e Turchia – e il 2016, lungo i confini che erano stati protagonisti degli eventi legati alla caduta del muro di Berlino. Barriere sono sorte tra Macedonia e Grecia, Ungheria e Serbia, Slovenia e Croazia, Austria e Ungheria, Lettonia e Russia, Norvegia e Russia, Ucraina e Russia (quest’ultima motivata anche dal conflitto intorno alla Crimea e al Donbass). I luoghi simbolo della caduta del muro e della Cortina di ferro si sono dotati di nuovi muri e cortine: circostanza su cui una parte della politica europea ha calato un silenzio imbarazzato, mentre un’altra la cavalcava brandendo il pericolo di “invasioni” migratorie come arma politica.
Nel 2019, a differenza del 2009, sono per questo state frequenti le denunce del paradosso del passaggio da un mondo del muro a un mondo di muri. C’è chi ha fatto notare, però, che vecchi e nuovi muri sono fenomeni completamente diversi: la Cortina di ferro impediva alle persone di uscire da uno spazio, le nuove cortine le tengono fuori da esso. È vero, ed è una differenza che non va sottovalutata. Esistono tuttavia anche elementi di continuità. Pochi sanno che il muro di Berlino fu, nel 1961, una sorta di archiviazione del problema berlinese in qualche modo apprezzata dalla Casa Bianca. «Non dico che sia una soluzione ottimale – disse John F. Kennedy al suo segretario personale Kenneth o’ Donnel – ma è sempre molto meglio di una guerra». Quel fatidico 13 agosto, anche il segretario di stato aggiunto Foy Kholer faceva notare che «il flusso dei profughi tedesco-orientali stava divenendo incontrollabile». Gli Stati Uniti comprendevano, insomma, l’esigenza di un competitor politico-economico di non ammettere un’emorragia di forza lavoro pericolosa per il proprio sistema di produzione.
Il criterio della razionalità economica governa anche oggi un mondo dove i muri sono posti in essere in accordo tra Paesi di arrivo e Paesi di partenza, sulla base di una composizione di interessi molto più esplicita di allora. Si pensi agli accordi tra l’Italia e i Fratelli musulmani di Al-Sarraj per la repressione dei migranti sulle coste libiche e nel Canale di Sicilia, o a quelli tra Italia e Niger per la vendita di armi in cambio di pattugliamenti più severi delle frontiere; o ancora alla complessa politica neo-imperiale della Turchia nel Mediterraneo, onerosa e pericolosa per l’Unione Europea e non avversata, tuttavia, a causa del potere ricattatorio di Erdogan, ai cui ordini c’è la sola polizia di frontiera che possa interdire, per conto dell’Europa, la rotta balcanica. La cooperazione tra Stati di partenza, transito e arrivo è ancora più strategica riguardo a viaggiatori specifici come i militanti politici, eventualmente classificati come terroristi. Si pensi al muro costruito di comune accordo tra Iran e Turchia nel 2017, funzionale a impedire i movimenti della guerriglia curda che si oppone ad entrambi.
Lo Stato contemporaneo vuole conoscere identità, qualifiche e intenzioni dei viaggiatori. Non accetta che esseri umani possano muoversi autonomamente, ossia senza una scansione mirata delle loro caratteristiche. Il “muro” è in realtà per questo un intreccio fisico-istituzionale di materiali bruti, dispositivi tecnologici, procedure di polizia, archivi digitali e ricerche empiriche e informatiche. Era già così con la “quarta generazione” del muro di Berlino (anni Settanta-Ottanta), e il progetto di un High-Tech-Mauer 2000 avrebbe dovuto rendere, nelle intenzioni della Ddr (1988), il vallo berlinese simile a quelli che Stati Uniti, Israele e Unione Europea avrebbero costruito negli anni immediatamente successivi. Muro e confine sono interfacce di uno stesso genere di governo degli esseri umani: quello fondato sulla repressione della loro capacità di muoversi mantenendo in ombra, per qualsiasi motivo, informazioni che li riguardano. È un governo nazionale e planetario: gli aspetti politicamente o economicamente costosi (costruzione delle barriere, pratiche di concentramento, uso della violenza) sono regolarmente appaltate/esternalizzate da Stato a Stato secondo una catena gerarchica mondiale.
Il crollo della Cortina di ferro fu facilitato dalla pressione che l’allora blocco liberale poté esercitare su quello socialista (ancora negli anni Settanta-Ottanta) a causa del debito finanziario contratto dai governi del Patto di Varsavia con quelli della Nato dopo i fallimenti degli esperimenti economici dei primi negli anni Sessanta, quando il mondo industrializzato aveva dovuto affrontare il salto nella società dei consumi. La politica del debito che contrassegna il mondo odierno nacque allora, nella fine dello scontro politico tra comunismo e capitalismo e nella coesistenza gerarchica e differenziale tra i blocchi inaugurata dal Muro. Il paradigma dell’inclusione differenziale contraddistingue il mondo del debito che allora si definì e che oggi qualifica il pianeta. Esso è fondato su una logica premiale che assegna visti e/o permessi di soggiorno/viaggio agli individui sulla base di requisiti economico-politici (contatti/contratti di lavoro nel Paese di arrivo, liquidità e precedenti penali assenti nel Paese di partenza) e ruoli ai diversi Stati nella catena di controllo dei movimenti migratori e degli spostamenti politicamente sensibili.
È uno schema inventariale dell’umanità. È sempre più ricco e digitalizzato: realizzazione tendenziale del sogno dei Paesi del blocco sovietico, con le loro antesignane schedature di massa. Come il liberalismo continua diversamente un’opera illiberale, così i “nuovi” muri sono diversi soltanto in parte dai vecchi: attualizzano un’opera di classificazione dell’umano per scopi di governo globale, processi di selezione di forza lavoro docile. La storia dei nuovi muri non inizia con la caduta, ma con la costruzione del Muro di Berlino: la prima grande fortificazione non costruita contro eserciti, ma contro esseri umani. Dalla Grande Muraglia Cinese al Vallo di Adriano, passando per la Linea Maginot fino al Vallo Atlantico, le fortificazioni avevano avuto per eccellenza una funzione militare. Mentre la guerra si sposta dalla terra al cielo e dal cielo allo spazio satellitare, la scienza del governo procede dai corpi fisici alla ricchezza sociale incamerata dall’individuo.