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Madre belva. Lo sgretolarsi dell’invulnerabilità della figura femminile

Una riflessione sulla perdita della sacralità della donna nella narrazione contemporanea a partire dalla serie TV “Qui non è Hollywood”

Fare qualcosa di terribile serve: ad andare avanti.
Me ne sono accorta da sola, me ne sono accorta guardando mia madre, guardando la madre della mia migliore amica, che ha scelto di consumare un cancro in silenzio, lasciandolo sapere alla figlia quando non sarebbe stata più in tempo. Me ne sono accorta guardando i telegiornali. Leggendo. Guardando le serie tv, anche guardando Qui non è Hollywood (Disney+, 2024). Sono trascorsi quattordici anni dai fatti di Avetrana e tutto questo tempo può far dimenticare molte cose. Ero convinta di ricordarmene, di ricordarmene bene. Abitavo ancora con i miei, il giornalista del Tg1 era l’unico a parlarci durante la cena. Forse, mi avrebbe fatto lo stesso effetto ripercorrere i giornali di allora o i servizi in televisione, forse, ad aver avuto allora questi quattordici anni in più, l’avrei notato prima. Forse. Ma me ne sono accorta dopo queste quattro puntate che non intendo recensire, ma che sono state in grado di mostrare – con la candida crudeltà che solo l’obiettivo della macchina da presa sa avere – quanto le cose terribili servano a non rimanere incagliati e quanto le donne, in quest’arte, siano piuttosto capaci.

In Qui non è Hollywood, è reso visibile il sintomo più chiaro del morbo che si è scatenato nel 2010 e che ha, successivamente, generato un circo mediatico su cui la serie si focalizza: l’apparato femminile di una delle tante famiglie disfunzionali che esistono al mondo. Ci sono le figure maschili, certo. Paiono, a volte, anche cause scatenanti. Si travestono, altre, con fattezze di mostri: tanto più semplici da accettare, da concepire, da puntarci contro il dito. Ma sono tre donne quelle che non comprenderemo mai se non ponendoci nell’ottica di dover – quasi essendone costrette – andare avanti, a trovare una vi(t)a altra.

La madre di Sarah, solidificata in una granitica missione affidata da Geova più che in un dolore che le telecamere non riusciranno a immortalare per una figlia scomparsa prima e ritrovata, ma solo come un corpo gettato in un pozzo, poi. La cugina che pare, nell’accanimento mediatico, ricevere, finalmente, la carezza di un poco d’attenzione, la consolazione di un ruolo, il conforto di meritarselo un posto nel mondo. La zia, miocardio dell’uragano attorno a cui tutto si avvolge, in spire taglienti come solo quelle famigliari sanno essere, per poi essere scaraventate pericolosamente verso l’esterno, scaglie in balia di una forza centripeta irriducibile, incontentabile.
Una trinità al femminile che rimane, a conti e sentenze fatte, incomprensibile. Dei personaggi – se vogliamo attenerci a quanto di fiction c’è nell’opera di Pippo Mezzapesa – a cui vorremmo poter ruotare attorno, per svelare il lato oscuro di un satellite a noi eternamente invisibile, in cui vorremmo immergere le unghie come bisturi dell’anima per comprendere quel pezzo mancante che potrebbe essere l’unica spiegazione valida se non ragionevole per una blasfema trinità la cui unica missione, seppur con diverse declinazioni, è quella di procedere, evitando che il resto si tramuti in sale.

Lady Macbeth, Johann Heinrich Füssli, 1984

La cattiveria, che può rivelarsi necessaria, ha un odore difficile da nascondere: non ne sono privi illustri personaggi femminili della letteratura e del cinema. Basti pensare ai miti di Era e Medea, razionalmente feroci nelle punizioni verso amanti e mariti a scapito di chiunque o alla madre di Grendel in Beowulf, a incarnare un mostruoso esempio di maternità primordiale che ci dimostra quanto possa deformarsi l’amore se spinto all’estremo.
Ci sono, poi, citandone solo alcuni e mescolando classici e contemporanei, gli indimenticabili quanto potenti personaggi di Lady Macbeth (W. Shakespeare, Macbeth), Cersei Lannister (G. R. R. Martin, Game of Thrones), la Marchesa de Merteuil (P. Choderlos de Laclos, Les Liaisons Dangereuses), l’infermiera Mildred Ratched (K. Kesey, One Flew Over the Cuckoo’s Nest), Margaret White (S. King, Carrie), Annie Graham (Hereditary diretto da A. Aster).
Tra questi sono, probabilmente, le protagoniste appartenenti ai titoli più orrorifici – per il proprio genere – ad avvicinarsi di più e meglio all’idea di quell’essere terribile e donna allo stesso tempo che personalmente possiedo – grazie ad esempi che sono fatti di ossa e sangue e grida e parole – proprio grazie a un genere che permette la possibilità di non dare spiegazioni o di ricorrere al soprannaturale nel farlo, mentre, altrimenti, condivisibili o meno, possono esserci vendette, ambizioni, sindromi di Munchausen e, comunque, motivi altri adatti a trovare un perché. Così come l’horror, riescono bene le fiabe ad affidare e spesso la perfidia a figure femminili in forma di matrigna, salvando, però, in qualche modo, le madri, archetipo infallibile ed intoccabile fino, almeno, agli sfinenti atti di cronaca che ci instillano incredulità e stupore di fronte a mamme colpevoli – un ossimoro, ma solo apparente, in una cultura cui siamo assuefatti ma le cui crepe stanno, forse, iniziando a stortare le voci di diversi autori e autrici.

Ne è esempio recente l’opera di Antonio Franchini, Il fuoco che ti porti dentro (Marsilio, 2024) che, nel raffigurare la sua di madre, non si lascia gonfiare gli occhi di cecità e pianto nemmeno di fronte alla sacralità della morte, descrivendo così la sua immagine in ospedale: «È difesa dai separé da tutti i lati ed è coperta da un lenzuolo, non le hanno chiuso la bocca che è spalancata, protesa. È lo spada sul banco della pescheria».
Ma trovo che siano sempre di più gli esempi di raffigurazioni non solo della donna, ma della madre, personaggio più inviolabile al mondo, che iniziano, invece, a sfarinarlo, frantumandolo, rivelandone la carnalità in tutto il suo abominio. Penso al suono che scompare portandosi il peso di azioni ascritte prima solo al padre di Camurri ne Il nome della madre (NNE, 2020), all’invalicabile dimensione oscena offerta da Giovagnoli in Cos’hai nel sangue (Nottetempo, 2022), a una madre «predatrice nata» per Guevara in Mio padre e altri imprevisti (Cento Autori, 2022) e, chiaramente, alla ferina sincerità di Antonella Lattanzi in Cose che non si raccontano (Einaudi, 2023).

Questo coraggio, la sfrontatezza – finalmente – di questi autori, delle loro opere, è, a mio avviso, lo stesso che ho riscontrato nella rappresentazione dei personaggi femminili in Qui non è Hollywood ed è sostanziale.
Il potere di queste immagini è quello di raccontarci non di regine, marchese o divinità, ma di persone normali. Di donne, mamme, zie, sorelle che conosciamo anche noi – forse, che siamo. Ed è essenziale iniziare a trattare queste figure come quelle maschili, perché, come disse Trevisan in un’intervista: «La paura delle cose reali non è nulla in confronto a quello immaginato».
Questi non sono solo personaggi, sono anche reali, al pari dei corrispettivi maschili e meritano e meritiamo di trattarli, finalmente, per quello che sono. È vero che quando succede qualcosa di brutto è la mamma che vorremmo chiamare, ma è arrivato il momento di desacralizzare questa figura, non rendendola automaticamente mostro, ma, piuttosto, persona. Che, a volte, può essere molto peggio.




In copertina:
Frame tratto dalla serie TV Qui non è Hollywood, Disney+, 2024

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