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Ma Milano non è mai stata mia. Ripensare una città a chilometri di distanza

Sono nata a Milano quando Milano era ancora la città grigia e respingente che ho amato per tutta l’infanzia. Ricordo cieli di un bianco sporco, da ottobre ad aprile. Pioveva spesso, e quando pioveva andavamo a scuola con gli stivali di gomma, che ci cambiavamo nell’atrio; ricordo la segatura sul pavimento, tutte quelle galosce fradice, l’inverno inospitale di Milano. Poi irrompeva la primavera, con i gelati sulla strada per il parco, le fioriture quasi violente dei glicini su cui si arrampicavano torme di formiche, le foglie dense dei platani, le magnolie intraviste dentro giardini segreti. Nei fine settimana e a ogni spiraglio di vacanza ce ne andavamo via, al mare, a respirare l’aria buona; ero convinta che la città si svuotasse tutta, allora, e il mio sogno era poterci rimanere, invece, sola nella Milano verdissima di viali alberati, di polvere e di balconi al culmine dell’estate, con i gelsomini in fiore e l’asfalto che si scioglie.
Il quartiere in cui sono cresciuta, alle spalle di Porta Genova, negli anni della mia infanzia bello non era di certo, eppure mi piaceva da matti; mi pareva un posto segreto e pieno di misteri. Mi piaceva il ponte verde sospeso sopra i binari, l’aspetto dimesso delle strade, il passaggio a livello dietro la chiesetta di San Cristoforo, che pareva uno scampolo sgarrupato di campagna capitato per sbaglio lì in mezzo ai palazzi; andavo due volte alla settimana a fare nuoto in una piscina lungo il Naviglio, la Canottieri Milano, e nella vasca passavo tutto il tempo a fantasticare su come sarebbe stato entrare in gran segreto, con una torcia, dentro lo scheletro della fabbrica dismessa che stava proprio lì di fronte, la Richard Ginori – che si chiamava, curiosamente, come il servizio di piatti che mi era costato un paio di sonore sculacciate quando per sbaglio avevo fatto cadere una tazzina. Mio papà tutte le sere lavava i piatti e cantava Ragazzo padre di Jannacci, una canzone che ancora ascolto quando sento troppa nostalgia di casa.

Milano

Perché da casa, e da Milano, io sono andata via – giusto pochi anni prima che Milano diventasse la città in cui tutti volevano vivere, accogliente e luccicante, tradendo forse un po’ il suo segreto, almeno agli occhi di chi come me l’amava per la sua bellezza ritrosa e dimessa, per il fatto di lasciarsi scoprire solo da quelli che hanno pazienza e occhi per il verde segreto dei cortili, per i frutti degli ippocastani, per la sobrietà composta delle facciate e del pavé. Sono andata via a diciotto anni, e così Milano è rimasta la città della mia infanzia, della scuola, delle prime volte di ogni cosa. Solo dopo averla lasciata ho scoperto, con vera sorpresa, di quale cattiva fama – fama di antipatia rapace, di vanterie da cumenda, di prevaricazioni e prepotenze, e soprattutto: della mancanza di quella gioviale furberia di cui si rimprovera il nord Italia al di fuori del nord – godessero Milano e i milanesi. Non me la presi mai, anzi ci ridevo; non perché io non sia permalosa, ma perché sono una di quelle persone perennemente a disagio con l’idea di appartenere a qualcosa, una di quelle persone sghembe abituate, forse rassegnate, a essere sempre fuori posto. Non mi sentivo allora particolarmente milanese, malgrado la mia calata e le vocali chiuse e aperte a sproposito. Ho abitato poi in altre città, mi sono goduta il lusso di sentirmi un po’ apolide, di imparare altre lingue, di guardarmi vivere in mezzo agli altri senza troppo bisogno di sentirmi a casa. A Milano ci tornavo sempre, sempre per poco tempo; la ritrovavo ogni volta più lustra e più efficiente. Nessuno mi diceva più che Milano era brutta, e io non mi sorprendevo più a pensare che la sua bellezza la capiscono in pochi. Eppure, avevo la sensazione che quella Milano che piaceva tanto non fosse quella vera, che ci fosse di mezzo un malinteso; ma era una sensazione che tenevo per me.

Da qualche anno vivo a Roma per amore, e da quando sono qui ho iniziato a sentirmi milanese. Non perché non ami Roma, anzi; ma mi sembra tutto così diverso, così agli antipodi della mia idea di Milano, e mi sento tanto lontana dal benché minimo sintomo di adattamento, da aver avuto bisogno di raccontarmi che la cosa è dovuta al fatto che sono una dei pochi milanesi scesi a vivere qui, percorrendo come salmoni al contrario la corrente che – mi ripetono tutti – tanti romani ha portato a Milano, costringendoli pure a rinnegare quella vecchia boutade secondo la quale la cosa più bella di Milano sarebbe il treno per Roma.

Era a Roma che mi trovavo quando, la sera del 7 marzo, è stata annunciata la chiusura della Lombardia: un’espressione che mi è parsa senza senso, e mi ha lasciata sgomenta fra le luci della città – eravamo in macchina, era già buio da un pezzo, andavamo a cena da amici e stavamo passando dietro il Colosseo; è stata la nostra ultima cena fuori, finora, e poco a poco, a stare in casa e a non uscire dal quartiere, che ho esplorato al ritmo di piccole passeggiate con il mio cane, mi ci sono abituata; ma non sono più uscita da quello sgomento improvviso, di sentirmi in qualche modo in un esilio. Penso a Milano quasi tutto il tempo: alla mia famiglia a Milano, alla casa dei miei genitori, ai parchi di Milano, alle sirene delle ambulanze nelle vie di Milano, alla primavera che torna a Milano, e che per tutti gli anni della mia infanzia e adolescenza era una promessa stordente, così verde, così incredibilmente energica. Penso alle sciure di Milano, per cui da sempre sento un nodo di ammirazione e timore, perché so che non sarò mai alla loro granitica altezza per compattezza e severità di visioni e di maniere, io troppo lassista, troppo pigra, troppo incerta; penso alle sciure che ora andranno in giro con le mascherine, efficienti e diritte anche nella paura, anche senza il rossetto, anche nei loro tagli di capelli iper-geometrici incespugliti dalla chiusura dei parrucchieri – ma li avranno aggiustati loro, in casa, con le forbicine, senza perdersi d’animo, perché non si perdono mai.

Milano

In questo stato d’animo di nostalgia patologica, nell’improvvisa urgenza di pagare il mio debito di transfuga quindici anni dopo la fuga e tutto in un’unica rata, è arrivato a salvarmi un libro. Mi ha salvata al modo in cui salvano i libri, e cioè per catarsi; mi ha fatta commuovere subito, quando l’ho aperto, perché si apre con una disanima, precisa in un modo quasi inquietante, dei profumi che ha la fine della primavera a Milano – gelsomini, gomma, asfalto rovente che si scioglie – ed è una cosa che ho sempre pensato anch’io, che quel profumo non lo si trova da nessun’altra parte; e poi ho pensato che presto a Milano tornerà quel profumo dell’estate in arrivo, delle sere che fa buio tardi, ma chissà quando ci potrò tornare io, a Milano. Ma il mio dolore lo stavo già consolando, grazie a quel libro in cui nel frattempo ero entrata, e che racconta una Milano che io non ho nemmeno lontanamente conosciuto, perché era già bella che finita quando sono nata, ma che era la città che intuivo, in modi oscuri e imperfetti, terribilmente imprecisi per ignoranza, guardando lo scheletro della Richard Ginori, ascoltando mio papà che cantava le canzoni di Jannacci, camminando per le strade dietro piazza Vetra e intorno a San Siro. Una città che nessuno forse riconoscerebbe più, ma che Giulio D’Antona, nel suo Milano. Storia comica di una città tragica (uscito per Bompiani a marzo), malgrado sia nato anche lui quando quella città era già sparita, riesce a riportare in vita con un’evocazione in grande stile, che parte dai profumi dell’estate in arrivo, da una barzelletta su una bicicletta e da un nonno che gli ha insegnato cos’era, e cos’è, l’umorismo milanese, attraverso quello che faceva ridere lui. E così le pagine si spalancano sulla città livida e stranita nel dopoguerra, sul cabaret, l’intrattenimento per perdigiorno e lavoratori stanchi che nelle sere di Milano inizia a prendere piede in trattorie da due soldi, arrivato dritto da Montmartre, sull’umorismo stralunato dei Gufi e di Jannacci, su un mondo in cui si mescolano galleristi e malavitosi, e le canzoni parlano di ladri e di San Vittore, e Cochi Ponzoni nel cuore della notte dà un passaggio sulla sua Cinquecento rossa a Lucio Fontana, che per ringraziarlo gli fa, «Vegn su che ti do un quader!», ma lui un quadro non l’ha mai voluto. C’è Bruno Lauzi e Ornella Vanoni, c’è la mala e la ligera, l’arte dei piccoli criminali, il Jamaica, il Cab 64 e il Derby, dove la sera si ritrovano malavitosi e ricconi, e il piccolo Diego Abatantuono, figlio della guardarobiera, viene spedito a calmare un sicario ubriaco. C’è il Gruppo Motore e ci sono i comici che daranno vita a Zelig; c’è, soprattutto, l’umorismo milanese, stralunato, dimesso, un modo di far ridere senza volersi far notare, come se ci si sentisse fuori posto, sempre un po’ sghembi, sempre un po’ fuori dai riflettori. Come mi sono sempre sentita io, e a questo punto penso che dev’essere perché sono sempre stata di Milano, ma Milano non è mai stata mia.



Illustrazione copertina di Michela Salvagno: https://mucoplanet.blogspot.com/

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