Abbiamo continuato a fare scuola, nei mesi in cui tutto s’è fermato.
Non volevamo che la scuola si fermasse e abbiamo fatto quel che potevamo: lezioni via internet. So che gli insegnanti hanno svolto i programmi, interrogato, corretto compiti. E i ragazzi hanno seguito le lezioni e studiato e fatto esercizio. Tutti rigorosamente chiusi in casa, ognuno da solo davanti al suo computer. Tutti eroici.
Bene. Non ci siamo fermati. Siamo stati i bravi soldatini che compiono il loro dovere.
Ora però non vorrei che continuassimo così. Non vorrei che la strada, che il coronavirus ci ha tanto tragicamente imposto, diventasse l’autostrada del futuro, come da anni auspicavano alcuni pedagogisti e insegnanti, bollando come retrogrado, antico e sorpassato, il modo tradizionale di far scuola.
Una cosa mi è stata sempre chiara, che scuola vuol dire che tu studente vai in un posto chiamato scuola e lì trovi una persona che ti fa lezione.
La scuola è la lezione, poche storie.
E la lezione è un essere vivente che, in carne e ossa, arriva in classe per fare lezione. Ci arriva col suo passo, veloce, malcerto, zoppicante (dipende anche molto dall’età); si siede alla cattedra (o sta in piedi tutta l’ora, e gira tra i banchi); agita le mani, parlando, o non le muove mai e le lascia inerti accanto a sé; urla, o usa una voce così bassa che nessuno sente; scrive di continuo alla lavagna o non ci scrive mai, o addirittura la riempie di disegnini che gli servono a spiegare meglio, e si passa il gesso ovunque, anche sul viso, e si sporca dappertutto, e così imbiancato fa morir dal ridere; o non fa mai ridere, e invece fa paura. L’insegnante è una persona. Dipende tutto da che persona è, da come si muove, dalle cose in cui crede; se è allegro e ridanciano, o è smorto e malinconico, e anche un po’ noioso. L’insegnante è quel che è, nel bene e nel male. E si offre per quel che è ai suoi allievi: facendo lezione.
L’insegnante è uno che fa lezione, questo è l’importante.
E la lezione è una cosa molto particolare, una specie di miracolo che accade ogni giorno, in una classe, al chiuso, davanti a venti o trenta persone, uniche testimoni di quel miracolo, che avviene tutto per loro e basta. Un miracolo dedicato. Destinato, direi.
Allora, vediamo un po’, l’insegnante entra e ha in mente solo in modo vago quel che dirà. Cioè, ha in mente il pezzetto di programma che quel mattino vuole svolgere, ma non ha la minima idea di cosa dirà per svolgerlo, come parlerà, su che cosa si emozionerà e su che cosa invece si annoierà (perché anche un insegnante, spiegando, può annoiarsi anche a morte, a volte). Entra, e dipende. Dipende da quale luce entra quel mattino dalle finestre, da come sta seduto l’allievo del primo banco, da quanto lui ha mal di schiena, da quel che un collega gli ha appena spifferato salendo le scale. Dipende da un sacco di cose imprevedibili, la sua lezione. Lo decide al momento cosa dire, in quale ordine disporre gli argomenti, cosa saltare, su cosa dilungarsi, come parlare, con quali esempi, o metafore, se usare o no la lavagna, se fare digressioni.
Ecco, le digressioni! Un insegnante che fa lezione può trovarsi a un certo punto da un’altra parte, perché il discorso lo ha portato altrove e lui ha seguito i passi di quel discorso, ed ecco che fa una digressione: parla d’altro. È come un vento. Fare digressioni è lasciarsi portare dal vento come una foglia, una barca a vela, un angelo… È perdere tempo? Sì, può darsi. È parlare di cose che non c’entrano, non sono necessarie e non erano programmate. Cose che però, forse, sono le più importanti. Chi può dirlo? Sì, a volte può succedere che per l’allievo una digressione del suo professore sia meglio della lezione, che valga di più per lui perché ci trova roba più affine, più interessante; e magari gli si apre di più la mente proprio ad ascoltare quelle cose che non erano previste, che non erano in programma.
Vorrei arrivare a dire questo: la digressione è la vera lezione!
Quel che scappa dagli schemi, il fuoriprogramma, le frasi estemporanee, le uscite di lato, i tuffi di testa, le pause, i silenzi, le risate, il dribbling giocato all’ultimo.
Direi che una lezione è l’Imprevedibile. Una lezione è quel che succede ora e qui. È puro accadimento. È avventura, nel senso etimologico: ciò che ci viene incontro per la strada.
Di colpo un insegnante può scoppiare a ridere, per una cosa che ha appena detto, o letto sul libro, per una mosca che è entrata, per un’allieva che gioca con un peluche, per un canguro disegnato sulla felpa del ragazzo che sta interrogando. Lo sa solo lui perché ride, ma ride. E allora, quando un insegnante di colpo ride, nella classe si apre un varco, un panorama, un infinito… Arriva il vento, quando un insegnante fa lezione.
Secondo voi tutto questo può esserci, in una videolezione?
No, non può esserci. L’insegnante davanti allo schermo, su Skype o in altre diaboliche modalità digitali, è fermo. Fermo nel corpo e nella mente. Non può che fare la lezione preordinata, prefissata, sul pezzetto di programma che deve svolgere. Va avanti nel programma, sì. Può anche succedere che sia più efficace e utile, meno dispersivo e più centrato, più oggettivo, più fruttuoso, un insegnante che fa una videolezione. Ma sta fermo. Non passa tra i banchi, non vede dal vivo i suoi allievi, non sente cosa aleggia in classe, non dialoga veramente con loro. Non si fa portare da nessun vento.
È per questo che ho paura. Se penso che qualcuno, ora, potrebbe sfruttare questa emergenza per far trionfare finalmente la tecnologia digitale nella scuola; se penso che potrebbe pensare a una scuola per sempre fatta di videolezioni a distanza, e magari chiamerebbe tutto questo svecchiamento o modernizzazione, mi viene una paura incontrollabile e smodata.
Io non so se potremo tornare a scuola a settembre. Spero di sì. È ovvio. Spero che il virus se ne vada, o diventi buono. Spero che, se non se ne andrà, noi troveremo i vaccini e le cure giuste. Spero un sacco di cose, come tutti. Ma la verità è che non sappiamo niente. E non possiamo escludere niente, nemmeno escludere che ci sarà ancora pericolo. «Non possiamo saperlo», come diceva la mia amata Natalia Ginzburg.
E in questo nostro non sapere, dobbiamo però prepararci. Cominciare a pensare a un mondo nuovo. Rifondarlo da zero. Rifarlo, avere questo coraggio di azzerare tutto e ricominciare a inventare. Come se approdassimo per la prima volta, su questo nostro pianeta. E migliorarlo, se ci riesce. Almeno sfrondarlo dei difetti più grossi, eliminare gli sbagli più eclatanti.
Non credo sia una buona idea circondarci di plexiglas. Vivere chiusi in scatole trasparenti. Erigere muri. Costruire cellette, cabine, o addirittura scafandri. Vivere come dentro bolle di sapone giganti, che si scontrano le une con le altre.
Ma nemmeno negare il pericolo mi sembrerebbe una buona idea. Abbiamo visto che il pericolo esiste, ed è potente. Abbiamo a volte, ahimè, pagato con la vita dei nostri cari… Credo che ora non dobbiamo più metterci a rischio, bensì proteggerci. Non mi piace chi dice di accettare allegramente il contagio, pensando che tanto prima o poi dobbiamo morire. Non mi pare un’opzione possibile: amiamo troppo la vita per poterla abbandonare così, con tanta nonchalance.
Credo che non sarà facile trovare una soluzione, e che per un bel po’ procederemo a tentoni. Sperimenteremo, sbaglieremo, e a un certo punto troveremo la strada giusta.
L’importante secondo me è tenere ben salde in mente le cose che ci stanno a cuore, e non perderle, non svenderle. Non fingere che vada tutto bene. Non cedere a compromessi. Non pensare che basti tornare al mondo com’era, senza sforzi né sacrifici. Dobbiamo farci venire delle idee, ecco. Mai come oggi abbiamo bisogno di idee, di pensiero, di immaginazione.
Ecco, dobbiamo diventare visionari.
Illustrazione di copertina: Sara Bernardi – A Messy Studio