Dopo aver girato in lungo e in largo l’Italia, Skianto arriva finalmente al Teatro Franco Parenti di Milano (in scena fino al 2 febbraio) per poi concludere la tournée alle Fonderie Limone di Torino. Il funambolesco spettacolo, scritto e interpretato da Filippo Timi, torna nel luogo che, nel 2014, ne ha realizzato la produzione grazie alla collaborazione tra il Teatro Franco Parenti e il Teatro Stabile dell’Umbria.
Skianto è un viaggio divertente e strampalato nel mondo emotivo del piccolo – e poi grande – Filippo: un bambino handicappato dai capelli tagliati a caschetto che, come ha capito presto, non può comunicare con gli altri per via della «scatola cranica sigillata»: il corpo non obbedisce alla sua volontà e talvolta le gambe lo portano in giro per casa, di notte, a osservare un mondo che dorme; altre volte sono le mani a muoversi in modo inconsulto, e per fortuna che ci sono sempre i genitori vicini. Perfino quando canta a pieni polmoni La vie en rose, la sua canzone del cuore, non trapela il minimo sentimento tanto che la mamma, nel vedere il volto di Filippo contratto in smorfia emettere lamenti, lo trasporta rapida in bagno per sfogare il dolore intestinale.
Filippo sa di essere handicappato, ma quello che il performer Filippo Timi inscena è il meraviglioso e creativo Io di Filippo (confidenzialmente Filo), la parte intima e buffa che balla e canta come una rockstar, che gironzola sui pattini, che libra nell’aria come un acrobata circense e ragiona attentamente sui meccanismi narrativi di Candy Candy; come tutti, Filo ha dei sogni, tra cui convolare a nozze con il mitico pattinatore artistico dalla chioma bionda, e delle rimostranze, in primis ricordare alla fatina di Pinocchio che le favole esistono davvero.
Non ponendosi limiti di sorta, si muove nel suo spazio interiore con un dinamismo vorace e spazientito, narrando tutte le avventure e disavventure che la televisione e i video di youtube gli insegnano. Quello è il suo mondo, e nella prigionia del corpo Filo si diverte da matti.
Ma per quanto le due realtà, quella dell’handicap fisico e della spensieratezza interiore, tendano a percorsi paralleli, arriva il momento della travagliata concordanza degli elementi, e di fronte all’impossibilità di sintesi, l’Io si mostra funesto e rosso d’ira.
Sul palco non più il simpatico bambino dal pigiama a pois, ma un furente minotauro in calore, un mezzo uomo e mezzo bestia che sbava dalla voglia di soddisfare i propri appetiti ed esprime la rabbiosa frustrazione che pesante lo spinge al suolo: dove sono le donne, dove sono gli altri, dov’è l’amore?
A questo punto Skianto – con la sua k molto pop – sospende la risata grassa, che comunque non ci lasciava seduti sereni al posto, per farci assistere senza censure allo schiantarsi del cuore di Filo, alla lacerazione di un Io talmente teso che può solo spaccarsi.
E infatti si spacca, quella testa tutt’altro che sterile. Si spacca a seguito di una caduta a terra e inizia la corsa all’ospedale, vissuta dall’Io come la catarsi, il momento salvifico che sempre aveva sognato. Finalmente Filippo esce e può vedere con i suoi occhi le bellezze che popolano il mondo, quello collettivo, quello vero: persone in fila per farsi visitare, forbici infilzate nelle cosce, malesseri diversi che – chissà come potevano essere accaduti – nemmeno la sua fervida immaginazione sapeva motivare. Ma la favola non è destinata a durare nell’età della plastica e l’ultimo disincanto arriva quando l’elettrocardiogramma e l’elettroencefalogramma, per Filippo lettori di sentimenti e pensieri, riproducono solo scarabocchi, linee senza senso che nulla restituiscono della sua caotica vivacità.
Attraverso una serie di espedienti, Skianto dà voce alla fanfara di sentimenti che animano e affliggono Filippo e nel mentre informa l’atroce condanna che pervade anche le scene più comiche: il disabile è solo.
Prima di tutto la lingua, anzi le lingue con cui conosciamo la sua emotività: c’è il dialetto umbro, per il parlare quotidiano; i testi di David Bowie, i Queen e Britney Spears che divertono ed emozionano; infine la canzone napoletana cantata con struggente passione da una strana figura mascherata, una sorta di “omino del cervello”, che assiste tutto il tempo al monologo dell’Io guardandolo e soffrendo insieme a lui. A volte succede che proprio mentre questi dà avvio a una malinconica lirica amorosa, sulla scena compaiano video non sense o umoristici che scatenano l’ilarità sfrenata dello spettatore; noi ridiamo e ridiamo di quello che vediamo, ma chi soffre ancora per il canto triste che inascoltato aleggia?
E poi la costellazione di oggetti e costumi nei quali l’Io reifica tutta la sua eclettica personalità; in uno sfondo di colori acidi, ad alto livello di trash, conosciamo i molteplici trasformismi di Filo: ora è un semplice bambino con un pigiamino Disney, ora indossa abiti sgargianti a frange che ricordano il mitico Elvis o un venditore di sogni americano, poi payettes, strass, tacchi a spillo, tuta circense… un vasto assortimento di fronzoli atti a colmare una solitudine esistenziale che presto sconvolgerà ogni apparente equilibrio.
In un’intervista al programma Le invasioni barbariche Timi commentava:
I propri handicap sono come figli un po’ handicappati, se li nascondi e mandi avanti i belli è facile. Se dai amore a un bambino che zoppica comunque non camminerà, ma a forza di dargli amore imparerà a fare i salti mortali.
E l’attore – pittore, sceneggiatore, regista, autore – lo dimostra nel quotidiano: con problemi di vista fa l’acrobata, con le sue balbuzie recita a teatro e al cinema, scrive e interpreta per la radio. Ma nulla di strano se pensiamo che quando era piccolo chiedeva alla Madonna di Santa Maria degli Angeli di alzarlo in volo e poi farlo sfracellare; nella vita voleva qualcosa di speciale. Nella nostra società esclusiva parole come handicap e solitudine vanno sempre a braccetto, si stringono la mano e, anche quando sono lontane, si fanno l’occhiolino. Loro si intendono sempre.
Perché l’handicap è una fragilità, un difettuccio da nascondere che si pone come ostacolo tra noi e la piena realizzazione della nostra identità. Di solito lo sotterriamo con il peso delle nostre quattro virtù o, alcuni, imparano a conviverci. Ma chi sviluppa un handicap? Suona come ostentare una deformità, alimentare una malattia dimostrandosi poco umili. Meglio velare il problema o spingerlo in profondità. E Filippo rimane a casa.
Foto di ©Noemi Ardesi