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Scuola e mancanza. Le voci dei ragazzi



Nell’ultimo anno e mezzo l’Italia ha fatto una grande scoperta: i giovani. Complici la crisi climatica, la crisi economica, la crisi globale della pandemia, ci siamo ricordati che esistono anche loro, che hanno una voce, un pensiero, delle idee. Improvvisamente gli adolescenti italiani, rimasti per decenni nell’ombra di un cantuccio della società, si trovano al centro dei riflettori. Tutti parlano di loro, spesso in termini cristologici: sono il nostro futuro, la nostra salvezza, le nostre vittime sacrificali. Vittime, prima delle nostre colpe di egocentrato disinteresse, ora di rigonfio altruismo e attenzione eccessiva. Un mondo più o meno adulto e pubblico – senza ignorare la forza della retorica melliflua che impregna anche le conversazioni più intime – si è arrogato il diritto di pensare per i giovani. Quella popolazione che degli under 25 se ne è sempre infischiata – quale interesse resiste in Italia di fronte a un essere in potenza, a una forza non ancora produttiva? – ora rimette a loro tutte le speranze e pretese. Lascio uno spiraglio all’alternativa del dubbio: se questa adolescenza-mania sia un illuminato svelamento o sia piuttosto l’ennesimo sgravo di coscienza di fronte a un presente che ci è sfuggito di mano e non sappiamo più governare.
Dove risiede lo sbaglio? – forse questo l’interrogativo adatto. La crepa sta più nell’origine che nell’intenzione. Si guarda ai giovani come ai nostri figli, siamo un’Italia adulta in preda alla sindrome da genitore apprensivo che si avvita intorno a se stessa problematizzando, verbalizzando ma mai prevenendo. Sono solo figli o sono cittadini? Il principio che potrebbe scalzare l’errore. Anche se ogni soluzione sembra oggi distante.

È da poco più di un mese che siamo tornati ormai quasi tutti tra le mura della scuola. Noi professori, non più costretti all’impensabilità di una classe silente, e loro, studenti, sempre più avvezzi ai cambi di passo. Ogni mattina ritrovo venti individui fatti di istinto, di voglia di dire. Sono coscienti di tutto il chiacchiericcio intorno a loro? Si sentiranno importanti? Spaventati? Fossi in loro cercherei nascondiglio sotto il banco scongiurando il mondo di smetterla di guardarmi. Ogni mattina ritrovo venti individui meno spaventati di noi, meno stagnanti di noi. Loro non hanno sproloquio retorico nel dire e mi insegnano a non avere terrore di sbagliare.

scuola

«Io ho avuto la fortuna di tornare a scuola a settembre» mi racconta Giacomo, che frequenta l’ultimo anno dell’Istituto Agraria di Codogno. «Per me è stato positivo tornare. Posso parlare, chiedere cosa non ho capito ai professori. Mi trovo meglio in classe che a casa». Giacomo frequenta un indirizzo con un’offerta formativa ricca di attività laboratoriali e per questo anche durante il primo lockdown è potuto andare a scuola per potare e vendemmiare, ma «molte materie pratiche sono state affrontate online, con un focus sui procedimenti a livello teorico ma tralasciando la parte pratica». Sara, studentessa all’ultimo anno del liceo scientifico, invece è stata quasi per un anno intero a casa: «Noi studenti siamo sempre in balia del vento: la decisione di tornare scuola o meno è sempre nebulosa e repentina. Quando siamo tornati sui banchi, riprendere il ritmo serrato non è stato semplice all’inizio. Ma questo è il piccolo prezzo che paghiamo per un ritorno che ci fa bene e ci fa vivere al meglio le ore passate sui banchi di scuola. Tornare in classe ci ha ridato quel briciolo di normalità che cerchiamo da più di un anno, riportandoci a quando l’ambiente della scuola era vissuto in un certo modo».

Mi colpiscono le parole di Ambra, al penultimo anno del liceo scientifico, esprimono la gioia per il ritorno ma insieme tradiscono una rottura, un mancato riconoscimento nel rapporto con i professori: «Il ritorno a scuola è stato bello, si sente la differenza. Però non essendo più abituati al ritmo normale, tornare in presenza è stato anche pesante. Molti professori vista la paura di una Dad imminente hanno usato e usano la presenza solo per riempirci di verifiche e metterci alla prova perché la loro fiducia nei nostri confronti se n’è andata totalmente durante questo anno. Non fidandosi delle nostre vere capacità, hanno dovuto misurarle dal vivo, caricandoci di lavoro e prove».
Come in ogni altra relazione umana la lontananza forzata e prolungata ha generato dubbi, che si sono fatte insidie, in alcuni casi fenditure. Ne è un esempio il caso di cronaca avvenuto in una scuola superiore di Verona che ha portato su tutte le pagine dei giornali l’immagine di una studentessa bendata durante un’interrogazione a distanza. Un’istantanea sgradevole che richiama un immaginario inquietante e che testimonia la grande difficoltà di mantenere saldo il rapporto interpersonale di fiducia reciproca tra alunno e professore. Cos’è andato storto? «Credo che i professori non abbiano capito e non capiscano fino in fondo quello che davvero noi stiamo vivendo: anni bruciati pervasi da un senso di solitudine», mi spiega Marta, che frequenta l’ultimo anno del liceo classico. «Apparentemente potremmo pensare che sono stati comprensivi: niente debiti, niente bocciature. Ma questo non è il punto. Il vero problema è quello sguardo che siamo costretti a subire che mette sempre in dubbio che la verifica fatta a distanza sia stata copiata; è quel sospetto che leggi negli occhi di chi si chiede se tu stia leggendo mentre sei interrogato; è quella freddezza nel dire in video davanti a tutti i voti; è quel nervosismo che li fa scattare se spegni un attimo la telecamera. Tutto questo ci fa capire che a loro non interessa minimamente come stiamo. Non ricordo una volta che ce lo abbiano chiesto. Leggo in loro solo la grande preoccupazione della valutazione – la parola magica – soprattutto dopo il primo quadrimestre; quest’ultimo, per esempio nella mia classe, si è concluso in modo positivo per quasi tutti, ma nel secondo quadrimestre invece siamo strapiombati nell’inferno! Il 7 gennaio, quando siamo tornati per poche settimane, i nostri professori sembravano impazziti: tutti a caccia di voti, e che voti? Improvvisamente non sapevamo più nulla? Io credo che bisognerebbe poterci valutare in modo diverso in questo periodo. O perlomeno valutare ma non giudicare.»

«Il disagio giovanile è inevitabile proprio perché la giovinezza esige l’aperto e non il chiuso», scrive Massimo Recalcati nell’intervento La nuova materia è la riscoperta dell’altro pubblicato su Robinson, riflettendo sull’ulteriore rinuncia alla socialità, alla scoperta dell’altro e del mondo imposta agli adolescenti dall’emergenza pandemica. Da queste perdite deriva una sofferenza che non sempre trova una guarigione, come testimonia il terribile dato che ha registrato nell’ultimo anno «un aumento dei tentati suicidi dal 30 al 50 per cento nei reparti di neuropsichiatria infantile italiani», come riporta Elena Testi nel suo intervento Non li proteggiamo, apparso sul numero di marzo dell’Espresso. Di queste perdite mi parla Diletta, con il tono paziente di chi sa cosa le è stato tolto: «In quest’anno mi è venuto a mancare maggiormente il contatto con le persone e stare in mezzo alla gente senza dover pensare a tutte le precauzioni che si hanno adesso. Ci manca la libertà, quella libertà che secondo me è fondamentale alla nostra età: la libertà di poter uscire quando si vuole, con chi si vuole». Per un adolescente interrompere la battaglia per l’indipendenza è come togliergli l’aria: soffoca e l’identità vacilla. Così anche Yoshio, studente dell’ultimo anno del liceo scientifico, che mi risponde con la sicurezza spavalda dei diciotto anni ancora intatta: «La cosa che mi è mancata di più è stata la vita sociale. Mi manca far festa, divertirmi con tutti i miei amici, senza preoccuparci di tenere la mascherina, di essere in troppi. Mi manca andare nei locali a divertirmi. Mi è mancato il judo, allenarmi. Tantissimo. Ho sentito di aver perso qualcosa e ho perso anche molti rapporti con alcuni amici non vedendoli più». Le rinunce sono state innumerevoli e sotto diversi fronti: «In questo anno mi è parso di perdere molto», continua Sara. «Questo molto lo identifico nel contatto umano con le altre persone. Stare davanti all’altro, avere un confronto diretto e guardarlo negli occhi sono elementi essenziali che fa la scuola. L’ho capito col tempo questo, ricordo che all’inizio del primo lockdown noi studenti eravamo quasi felici, ma già dopo il primo mese abbiamo capito che la scuola fa parte di noi, che la scuola è il nostro dovere ma anche il nostro volere: andare a scuola, fare la scuola, quella scuola che ormai vacilla da quasi più di un anno.»

La perdita ci lascia cocci in mano, e l’impossibilità il bisogno disperato e l’attesa del dopo. Sono i limiti del reale con i quali oggi, da più di un anno, siamo costretti a fare i conti per trovare nuove visioni che capovolgano lo stato delle cose sempre più insopportabile. Mi vengono di nuovo in soccorso le parole di Recalcati che mi ricorda uno dei principi rinnovatori del quotidiano, che «a volte l’esperienza del limite imposto non è solo una esperienza di repressione della libertà ma la sua massima espressione» e che «l’esperienza della distanza» può accentuare «quella della prossimità». L’alternanza di pieni e vuoti, di presenza e assenza, di sacrificio e conquista può cadenzare l’andamento positivo di ogni rapporto ed esperienza, e in qualche modo è stato il ritmo discontinuo della vita degli ultimi tempi. «Credo che questo periodo mi abbia cambiata», mi spiega Sara, dai suoi diciotto anni di estrema saggezza. «Nell’ottica di come io adesso guardo ciò che mi circonda e la scuola. Il mio sguardo sulla vita in generale. Credo sia successo a tutti questo, in particolar modo a chi è stato toccato più da vicino. Tutto ciò avrà delle conseguenze sul futuro, tante cose prima erano diventate automatiche. Ci manca la quotidianità di cui tanto ci lamentavamo perché tutto era diventato una corsa frenetica nell’inseguire la vita, ma poi quando ci è stata tolta, quando ci è stato imposto di stare fermi, ci siamo resi conto che volevamo proprio quello: correre, andare a scuola, andare a lavoro, vivere la vita appieno. Quella normalità ci manca. Mi manca.» Dello stesso parere è Yoshio che ha fatto un guadagno prezioso, ha imparato a «non stufarsi delle cose» e ad accettare – questa una delle più grandi conquiste – anche la sua tristezza: «Mi sento cambiato dall’inizio della situazione. Mi manca davvero fare quello che facevo prima senza problemi. È brutto da dire, ma ora sono sempre annoiato. Mi sento un po’ più triste».
Allora di fronte a un presente che innalza un muro sul domani, i ragazzi, per natura, sanno spingere lo sguardo un po’ più in là, verso «la fine dell’anno, l’orizzonte, perché la nostra vita possa riprendere con un po’ più di serenità».




Immagine copertina a cura di Francesca Galli

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