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Le cose che non sappiamo. Scienza e ignoranza da Quammen alla vita dei funghi

Ogni grande evento traumatico genera una serie infinita di discussioni che ha per oggetto lo stato della conoscenza. Se l’evento è un attentato terroristico, ci si interroga su quanto ne sappiamo dei terroristi; se l’evento è una pandemia, ci si interroga sul lavoro degli scienziati e sullo stato delle ricerche nel campo della microbiologia; e così via. Di tutti gli interrogativi posti in momenti del genere – quando la ferita brucia ancora e la sete di risposte è tanta – la maggioranza ne sottintende un altro: «Era prevedibile un simile disastro?».
Alcuni mesi dopo l’11 settembre, il ministro della difesa americana Donald Rumsfeld parlò ad alcuni giornalisti durante una conferenza stampa al Pentagono, esponendo la sua teoria della conoscenza. Disse che esistono “noti noti”, cose che sappiamo esistere e che conosciamo bene; che ci sono poi gli “ignoti noti”, cose cioè che sappiamo esistono ma che non conosciamo; e infine gli “ignoti ignoti”, categoria che raggruppa tutto ciò che non sappiamo di non sapere.

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Le parole di Rumsfeld sono citate in una nota del libro di Mark Honigsbaum, Pandemie. Dalla Spagnola al Covid-19, un secolo di terrore e ignoranza (Ponte alle Grazie). Lo storico della medicina e giornalista inglese sottolinea che alle tre categorie elencate da Rumsfeld, tutt’altro che stupide e criptiche, ne andrebbe aggiunta una quarta: il “noto ignoto”. Si tratta di una sottigliezza, ma è di notevole importanza. In questa categoria rientra tutto ciò che pensiamo di conoscere a fondo ma in realtà conosciamo poco e in modo superficiale. Si tratta di una situazione pericolosa, in cui la nostra tracotanza ci acceca e ci tranquillizza, consentendoci di volgere lo sguardo altrove.
Il libro di Honigsbaum e le pandemie degli ultimi cento anni ci permettono di utilizzare le categorie spiegate da Rumsfeld per fare alcuni esempi. La pandemia di AIDS, causata dal virus dell’HIV, è un classico esempio di “ignoto ignoto”. Ha fatto milioni di morti in tutto il mondo, ma prima degli anni ’80 non si era mai visto, o immaginato, nulla del genere. Il virus Zika, invece, è un vero e proprio “noto ignoto”. Scoperto nelle foreste dell’Uganda alla fine degli anni ’40, era un virus noto alla scienza, ma la febbre che causa non pareva destare preoccupazione. Oggi sappiamo che le complicanze di un’infezione possono risultare molto gravi, specialmente per le donne in gravidanza. Nel 2015-2016 il virus Zika ha causato un evento pandemico che ha colpito il Sud America, il Brasile in particolare.

Combattere l’illusione di conoscere a fondo un fenomeno o una specie virale (ma gli esempi sarebbero molti) è una sfida continua ed estenuante. Viviamo in un mondo stupefacente, in cui la ricerca scientifica e tecnologica fa passi da gigante ogni anno, per cui è facile credere che la nostra conoscenza e i nostri mezzi siano in grado sia di prevenire eventuali disastri sia di rimediare a danno già avvenuto. L’attuale pandemia di Covid-19 – evento complesso che di sicuro sarà analizzato da numerose prospettive nei prossimi anni – ha messo in crisi entrambe queste credenze, dimostrando sia la difficoltà di agire in anticipo, tramite la prevenzione, sia di arginare il problema in tempi rapidi (un vaccino, ormai lo abbiamo imparato tutti, non si sviluppa e produce da un giorno all’altro).
Ma la situazione che stiamo vivendo in questi mesi ha dimostrato anche un’altra cosa, risaputa dagli esperti e ora nota anche a una larga fetta del “grande pubblico”. Un evento pandemico riguarda certamente la scienza e la virologia, la medicina e i suoi mezzi, ma è soprattutto un evento politico, economico e sociale. La gestione di una pandemia è politica, così come la sua prevenzione. La decisione di imporre un nuovo lockdown è una decisione politica ed economica, che guarda più al PIL di un Paese che al lavoro degli epidemiologi. Anche le categorie elencate da Rumsfeld riflettono scelte di natura politica: sempre più conoscenze potranno essere etichettate come “noti noti” se c’è la volontà politica di investire nella ricerca, di finanziare università e istruzione e di lavorare affinché la fetta di cose che non conosciamo si riduca progressivamente, e con essa le nostre illusioni e la nostra tracotanza.

Non è un lavoro facile. Il mondo scientifico è legato in modo inestricabile alle società in cui agisce e si muove, per cui risente non solo delle scelte di natura politica ma anche della situazione economica e sociale di una comunità. Chi rovista nel buio alla ricerca di nuove informazioni e conoscenze spesso è costretto a scegliere un campo al posto di un altro in base allo stato dei finanziamenti che riceve o alle prospettive di carriera che offre.
Tornando ai patogeni, è noto che diverse specie virali in grado di causare eventi pandemici sono tenute (abbastanza) sotto controllo ma non è stato mai possibile convogliare i fondi necessari affinché venisse sviluppato un vaccino per attenuarne in modo considerevole la minaccia. La febbre di Lassa, l’Ebola, l’infezione da Nipah virus, la SARS e altre malattie cosiddette emergenti sono “noti ignoti” e costituiscono una seria preoccupazione per gli scienziati. Tuttavia, non essendo mai stati in grado di scatenare pandemie in grado di attirare l’attenzione di tutto il mondo (politici in primis), non riescono a smuovere i soldi necessari, nonostante l’incessante lavoro di alcune fondazioni e delle organizzazioni internazionali che si occupano di sanità e prevenzione.

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Un quadro assai dettagliato di questa situazione è illustrato nel nuovo saggio di David Quammen, L’albero intricato (Adelphi). Il giornalista americano racconta con grande abilità narrativa le tappe che hanno portato gli scienziati alla comprensione che l’albero della vita fosse ben più intricato e fitto di quanto si pensasse prima, in cui tanto le ramificazioni quanto le relazioni stesse fra i rami sono assai complesse. Un rovo pieno di antri bui, dove la ricerca non si è ancora addentrata, un viluppo che ricercatori del calibro di Carl Woese e Lynn Margulis hanno contribuito a descrivere, mettendo in evidenza la sua natura complessa, ben lontana dall’essere totalmente chiara. È lì, in quegli anfratti ancora poco illuminati, che si celano ancora i grandi pericoli (o le grandi conquiste, beninteso) delle scienze della vita di domani. Ma come abbiamo detto poco fa, lo sforzo necessario per raggiungerle e studiarle non può essere compiuto senza che ci siano a disposizione interesse e lungimiranza politica, accompagnate da un solido flusso di finanziamenti. In fondo, anche le storie che Quammen racconta evidenziano questi aspetti così poco scientifici del fare scientifico: carriere e progetti personali, rivalità accademiche e aspirazioni professionali. Una realtà che chiunque abbia avuto a che fare col mondo della ricerca conosce assai bene e, di solito, rammenta buttando gli occhi al cielo.

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La stessa sensazione la si avverte leggendo L’ordine nascosto. La vita segreta dei funghi di Merlin Sheldrake (Marsilio). Il micologo inglese porta il lettore là dove la scienza sta effettuando scoperte sorprendenti, descrivendo un mondo, il sottosuolo, in cui innumerevoli specie di funghi, licheni e lieviti costituiscono meravigliose vie di comunicazione, connettendo fra loro altre specie e permettendo ai microrganismi, i batteri in particolare, di muoversi come se si trovassero su una rete autostradale in miniatura. Nonostante il libro di Sheldrake sia un viaggio appassionante, si avverte più di una volta la frustrazione che diversi esperti e ricercatori condividono: nonostante la gran quantità di cose che ancora non sappiamo di quel mondo, i dipartimenti di micologia non godono di grande prestigio accademico, al punto che spesso la continuità della ricerca poggia sulla volontà del singolo o sulle comunità di scienziati e appassionati che si ritrovano lontano dalle università per condividere idee, progetti, scoperte.

Diverse righe fa riportavo l’interrogativo che più di ogni altro risuona nel dibattito pubblico a disastro avvenuto: «Era prevedibile?». Sulla capacità della scienza di prevedere gli eventi sono stati spesi fiumi di inchiostro. Per quanto ci interessa qui la domanda è mal posta. Ci si dovrebbe infatti chiedere: «Conoscevamo abbastanza questo argomento per poter prevedere uno sviluppo così catastrofico?». Gli scienziati lavorano per ipotesi, non hanno la sfera di cristallo. Quindi il succo della questione non riguarda la previsione bensì la conoscenza. Gli “ignoti ignoti” avranno sempre il potere di colpirci, ma quando a causare un problema è un “noto ignoto”, la tendenza a rammaricarsi a disastro avvenuto è molto alta. Sarebbe bene allora che chi è arrivato fin qui ricordasse almeno due cose: 1) la scienza non è infallibile, 2) il progredire del sapere dipende anche da fattori esterni alla disciplina, fattori politici, economici e sociali. Per ridurre la quantità di cose che non sappiamo è necessario sbloccare un finanziamento, migliorare l’istruzione pubblica e garantire una posizione stabile a chi decide di fare carriera dedicando la propria vita alla ricerca.
In più, servirebbe un costante allenamento a una pratica troppo spesso dimenticata: l’immaginazione. Ma questa è un’altra storia.

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