Il piano era chiaro: pestare i piedi alla musica italiana, quella delle radio commerciali, del carrozzone di Sanremo, dei nostalgici degli anni ‘70, di De Andrè e della PFM, per poi dare il benservito agli anni Novanta, ai gruppi bot di Battiato, ai testi ermetici e incomprensibili, prendere come riferimento i Sonic Youth, i Blonde Redhead, i My Bloody Valentine, Slint, Tortoise, Mogwai. Musica e feedback per le nostre orecchie. Ecco, questo è il progetto.
È un tardo pomeriggio a Scandellara, vicino al centro di Bologna, e un gruppo di ragazzi tra i venti e i trent’anni parlotta in modo concitato di musica, prospettive e idee. Tra loro oltre ai ragazzi di Homesleep ci sono i Giardini di Mirò, il mio gruppo, che all’epoca dei fatti è una band esordiente con pochi EP all’attivo e qualche promettente recensione.
Con Homesleep, condividiamo l’idea che la musica non sia qualcosa di territoriale, italiano, emiliano o bolognese ma sia musica e basta, aperta, europea, globale. Quel giorno a Scandellara siamo convinti del progetto, abbiamo dalla nostra un mondo che accelera, che apre le frontiere, crea una moneta unica, in più c’è il web per restare in contatto con i musicisti di un mondo allargato abbastanza per dare spazio anche a noi, che quel giorno a Scandellara scaldiamo i motori per il viaggio più lungo della nostra vita, durato ad oggi più dei Daft Punk, più del tempo di capire che la strada è insidiosa e piena di ostacoli. Se devo esser sincero, fatico a ricordare cosa ci siamo detti esattamente quel giorno ma poco conta, si sono poste le premesse che hanno portato il gruppo nell’estate del 2000 a passare due settimane a Scandicci, vicino a Firenze, per registrare nello studio di Giacomo Fiorenza, l’Alpha Earthbase, il disco Rise and Fall of Academic Drifting.
A Scandicci registriamo gli strumenti nell’ordine, batteria, basso, chitarre e tastiere, chi non suona aspetta fuori dallo studio il suo turno, ogni strumento corrisponde ad una traccia. Registriamo in analogico su un 24 canali a nastro, non ci sono molte sovraincisioni e non esiste copia-incolla: il brano va suonato dall’inizio alla fine, senza particolari errori. La sera, esausti, a casa di Giacomo, dopo aver visto in televisione le partite degli europei persi in finale con la Francia al golden-goal, dormiamo chi per terra, chi sul divano. Ogni tanto qualcuno resta sveglio a parlare di musica davanti alla collezione di dischi di Giacomo: Ride, Slowdive, Swervedriver, The Jesus and Mary Chain. Nel mentre sono obiettore di coscienza nella biblioteca comunale di Cavriago, vicino a Reggio Emilia e faccio la spola tra la biblioteca e Firenze usando le licenze a mia disposizione.
Nel frattempo passano i mesi e con la piena del Po dell’ottobre del 2000 finisco il servizio civile e mi trasferisco a Bologna a casa di Daniele Rumori in via Saragozza, un po’ fuori dalla porta, dove passa sempre della gente che parla di musica, Daniele cucina, io lavo i piatti, ci sono amici da ogni parte del mondo, quasi tutti fan dei Pavement, e da lì a poco mi fidanzo. Se penso che finito il liceo mi sono trovato un trentotto stiracchiato stampato su un foglio sotto al mio nome, vergine e con una chitarra da metallaro infilata in una custodia sotto al letto, ecco, le cose stavano girando meglio.
Nel mentre procedono le registrazioni del disco. Abbiamo mixato la voce di Pet life Saver, che grazie al lavoro di Matteo e Gabbo degli Yuppie Flu, è “il manifesto Scandellara” con quel suono onirico e surreale. Dopo aver registrato nuovamente il finale di Pearl Harbor, unica extra session del disco, si può dire che il lavoro sia finito, se non per l’ultimo tassello: la voce di Little Victories. Daniele ci propone di contattare Paul Anderson, leader di una band londinese, i Tram, che nessuno di noi ha mai incontrato di persona. Ci pensiamo un po’, poi accettiamo e, grazie alla mediazione di Daniele, Paul si mette al lavoro. Si mette al lavoro? In realtà ci mette una vita a finire il pezzo. Il disco deve andare in stampa e non arriva nulla in via Saragozza, dove, con sempre più ansia, aspettiamo quelle tracce. «Ma se poi ci fa cagare, come la risolviamo?», chiedo a Daniele che mi risponde: «Se fa cagare, ce lo teniamo così». Alla fine il pezzo arriva sul filo di lana e sorprendentemente è perfetto al primo colpo, nessun ritocco, nessun cambio: disco finito. Vi capita mai di arrivare all’ultimo e scoprire che è andato tutto bene? Sono presagi che vanno colti e tenuti in considerazione.
Non penso esattamente lo stesso quando leggo la prima recensione del disco, quella di Rumore, scritta da Arturo C., un nostro compagno di viaggio della Bologna dei concerti, ecco, non proprio entusiasmante. Riletta oggi, con il giusto distacco, non è neanche brutta, anzi quasi generosa, ma in quei giorni vogliamo tutto e ciò che ci si avvicina non basta. Non so se Daniele abbia anche pensato di menare Arturo, non credo ma forse sì, poco conta, le nostre aspettative restano altissime e quella recensione serve a farci capire cosa ci aspetta: anni intensi fatti di “piccole vittorie”, qualche pareggio e occasionali sconfitte.
Una delle vittorie avviene nei primi mesi del 2002, quando MTV ci invita a partecipare a Supersonic, un programma dal vivo, in prima serata, condotto da Enrico Silvestrin. Quella sera si esibiscono, oltre ai Giardini di Mirò, Neffa e Jovanotti. Mia madre si raccomanda – Non farci fare brutte figure – forte di un paio di esperienze in cui, in coppia con mio padre, ha assistito a un roboante concerto del gruppo. Leggo i suoi pensieri – Ma perché proprio i Giardini di Mirò in televisione? -.
Per non fare sfigurare nessuno, chiedo in prestito ad Alessandro Raina, un amico di Giacomo Spazio e di lì a poco voce di Punk…not diet!, la sua elegante telecaster nera, che fa pendant col maglione girocollo, jeans neri e All Star rosse. Silvestrin chiede se vogliamo suonare un pezzo in più o fare l’intervista, noi optiamo per suonare ma poi sforiamo a tal punto da finire sui titoli di coda con un casino raramente visto da quelle parti. Sul finale, nel “frastuono più atroce” ho pure acceso il wha-wha della chitarra con un suono acido e inconsapevole perché in quel momento, in barba a tutte le raccomandazioni genitoriali, non mi rendo più conto di cosa sto facendo.
Nei giorni e settimane successive, grazie anche a diverse repliche della puntata, si crea interesse per quel gruppo approdato a MTV nel momento in cui gli astri si allineano. Non ricordo quanta gente mi abbia poi detto di aver conosciuto la band quella sera, e che magari (e di questo mi scuso) ha pure iniziato a suonare sulla spinta dell’entusiasmo. Senza fatica, vendiamo un bel po’ di dischi, suoniamo in lungo e in largo, con buona pace di chi spera che mi laurei alla svelta.
Da quel giorno a Scandellara le cose hanno preso una piega diversa, il disco è stato stampato in vinile da un’etichetta di Amburgo che all’epoca si chiama Fiction.friction per diventare poi 2nd Rec. Ci invitano ad Atene a suonare, abbiamo fatto il nostro primo tour in Germania supportati da Roberto Trinci e dalla BMG, poi Belgio e molto altro. Escono un paio di video, uno con Emidio Clementi di Pet Life Saver e uno in animazione di Trompø is OK, che si guadagnano spazio su MTV, entrambi girati da Sirio Zuelli, un mio compagno di liceo, che da nerd si è trasformato in regista di videoclip. Per vederli bisogna stare svegli la notte e aspettare Brand:New condotto da Massimo Coppola. Se il video passa è un’emozione da vivere in intimità, niente storie Instagram o post sui social, un po’ di batticuore e poi a letto convinti di aver fatto qualcosa di buono. Qualche tempo dopo siamo ospiti del programma, Coppola non c’è più, Alex Infascelli ha preso il suo posto e, in quella occasione, lasciamo una delle firme più importanti per un musicista indie, quella sul divano della trasmissione.
Torniamo a qualche anno prima, fine secolo. Estate del 1999. Una sera suoniamo insieme a una delle nostre band preferite, i Godspeed You Black Emperor all’Angi Pub di Trento. Sì, avete letto bene, un pub. Per rendere più surreale la situazione i canadesi hanno appena preso la copertina di New Musical Express e dividono con noi un palco talmente piccolo da contenere a malapena la batteria e gli amplificatori, così che tra noi e loro occupiamo tre quarti dell’intera platea.
Avessimo mai preso noi la copertina di un giornale così e ci fossimo trovati in quella situazione non avremmo avuto l’aplomb del gruppo canadese. Facciamo un salto in avanti, ci invitano per la prima volta fuori Italia a suonare, ad Atene. Il nostro batterista Lorenzo non riesce a venire, noi decidiamo di andare ugualmente, e non avendo molto tempo per fare i provini decidiamo di affidarci al “Flobas”, un amico che aveva già suonato in qualche band. La sera prima di partire, visibilmente agitato, guarda Luca, il tastierista dei Giardini, strimpellare a cazzo la batteria e dice – Sei davvero bravo, ma perchè domani non suoni tu al posto mio? -. Ma veniamo al nostro primo tour in Germania. Non vi sto neanche a dire che io, Jukka, Giacomo Fiorenza e gli altri dormiamo in condizioni assurde ma non invano perché alla fine “we take Berlin” come nel pezzo di Leonard Cohen, come nel progetto di Scandellara, e per festeggiare balliamo in pista con delle t-shirt S da donna color rosa.
Ce ne sarebbero tante di cose da dire, saltellando qui e là tra i ricordi e gli aneddoti, cose buffe e divertenti, romantiche, crudeli, che possono sembrare marginali nella narrazione di un gruppo, ma fondamentali nella vita di una band che su questi momenti costruisce la propria memoria collettiva.
Qualche anno fa per Crac Edizioni è uscito Different Times. La storia dei Giardini di Mirò, il libro scritto da Marco Braggion che racconta il nostro percorso. A Rise and Fall of Academic Drifting è dedicato un intero capitolo, incrociando diverse testimonianze, dalle nostre a quelle dei principali collaboratori, manager, agenti e discografici del gruppo. Alla fine del testo, senza troppi giri di parole, Marco commenta che il nostro progetto “europeista” condiviso con alcune band come Yuppie Flu e One Dimensional Man, dopo un primo periodo di incoraggianti risultati, è sostanzialmente fallito, i gruppi venuti dopo sono tornati non solo alla lingua italiana ma pure, gradualmente, a quel sistema radiofonico, canzonettaro e sanremese che avremmo voluto mandare in pensione. Allora cosa vi ho raccontato, la storia di un fallimento? Possibile. Ma non tutto è perduto.
Il 2001 è un anno difficile, non ce la caviamo solo con la mucca pazza o la scomparsa di George Harrison. A luglio c’è il G8 di Genova, la Diaz e Carlo Giuliani. A settembre le Torri Gemelle e successivamente la Guerra in Afghanistan per un nuovo conflitto in mondovisione. Il nuovo secolo, già in ansia da prestazione, si rimangia quelle speranze con cui si era presentato. La nostra “accademia della deriva” ha costruito le sue fondamenta in quel contesto, mossa dal bisogno di portare le nostre ambizioni fuori da Cavriago, verso un mondo che già iniziava a manifestare i segni di un inquietante futuro. La storia della musica è un pendolo, oscilla tra accademia e rottura, ciò che agita il pendolo è misterioso e incomprensibile, alle volte mosso dalla speranza, spesso dalla paura. Anche oggi, esperienze come Any Other, Birthh, Giungla, Hån, Donato Dozzy, Caterina Barbieri, Lorenzo Senni, Indian Wells, l’esperienza tutta di Italia Music Export, dimostrano come sia ancora vivo il bisogno di portare la musica italiana oltre i confini territoriali.
Altro discorso è far sì che un disco possa resistere vent’anni come nel caso di Rise and Fall of Academic Drifting, un’impresa complessa, tipo fare una maratona su un piede solo. Oltre a una buona dose di culo, serve aver lasciato un segno e per farlo bisogna avere un progetto. Questo disco, partito quel tardo pomeriggio da Scandellara, alla fine dei conti, in maniera un po’ strampalata, con protagonisti un po’ tutti da ridere o da piangere, ce l’ha. Un po’ l’ha centrato, un po’ l’ha pisciato ma fortunate le generazioni che riescono a toccare l’utopia, sono piene di creatività e libertà. E, soprattutto, non si annoiano mai.