C’è una foto che ritrae Oswald Spengler negli anni intorno al 1907. Il giovane professore, quasi a voler uscire dall’inquadratura, rifugge l’obiettivo che i suoi studenti amburghesi fissano spavaldi. Curvo, meditabondo, mani dietro la schiena, più vecchio degli anni che ha: pensieri forse troppo elevati, troppo profondi per quel ruolo che sente stretto. Gli allievi lo considerano un ottimo docente, ma lui tollera a fatica quella «squallida e misera esistenza da professorino». Il ricordo del primo incarico a Lüneburg è ancora vivo: il giro dell’istituto era finito con una terribile crisi nervosa. E anche quando arriverà la notorietà, il rigetto della vita pubblica e la solitudine costituiranno la cifra autentica del vissuto di Oswald Spengler.
Einsamkeit, solitudine, era il titolo al quale Spengler pensava, per un’autobiografia «puramente spirituale». Altamente significativo è l’altro titolo: Vita del ripudiato. L’opera non vedrà mai la luce, ma i frammenti superstiti conservano grande potere evocativo. Anzi è proprio la forma lacerata, attraversata dai segnali in codice che riemergono a intermittenza dagli abissi della solitudine spengleriana, ad amplificare il fascino di una delle più suggestive autobiografie del XX secolo. Con ogni probabilità Eis Heauton (il terzo titolo e definitivo) costituisce l’unica opera letteraria di livello di un autore che per anni aveva cullato il sogno di diventare letterato, poeta, drammaturgo. Uno Spengler misconosciuto, intento a coltivare quelle stesse arti che poi marchierà come totalmente inutili, nello spegnersi dell’Occidente, e i cui frammenti distruggerà quasi per intero.
Per quanto questi appunti autobiografici datino al periodo preparatorio del primo volume del Tramonto, la costante, anche dopo la fama, rimarrà la solitudine. Il non avere un amico è il grande cruccio di Spengler: «Se solo avessi avuto vicino a me anche soltanto una persona del mio stesso rango spirituale!». È qui che la solitudine spengleriana diviene la solitudine delle solitudini, travalica i confini dell’isolamento, si fa intellettuale, a tratti metafisica.
Il panorama culturale che lo circonda è avvilente, non trova negli ultimi quarant’anni un’opera degna di essere presa in considerazione, è accerchiato da esseri insignificanti che vanificano qualsiasi ricerca di un interlocutore alla propria altezza: «…non sono capace di frequentare individui dozzinali. Perciò sono costretto a vivere in questo terribile isolamento; non poter mai parlare delle mie cose, trovare solo uditori imbecilli, e nessuno che comprende…». Nietzsche ha avuto Wagner, lui nessuno – «Che cosa ne sarebbe stato di Nietzsche, se non avesse avuto Wagner!» –.
Uno come Spengler, che vive di visioni monumentali, intuizioni straordinarie, non vede intorno a sé alcuno che sia in grado di coglierne anche solo una parte. Egli dichiara più volte di essere nato per vedere. E chi vede più in là degli altri vorrebbe raccontare. Ma essere profeti in un mondo di sordi e di ciechi è la vera, ineluttabile condanna alla solitudine. Nemmeno la scrittura è una soluzione, anzi. Colpito dalla folgorazione colossale dell’iceberg della storia umana, sente di esserne riuscito a mettere per iscritto, con estrema fatica, solo la punta. Ha dato forma a piccole parti – delle quali è tutt’altro che soddisfatto – solo tra indicibili tormenti. Terminare il Tramonto è stato un sollievo. Per giorni non ha il coraggio di guardare gli appunti che accumula; li teme, «una nausea sconfinata» lo invade per intere settimane. L’impossibilità di non riuscire a mettere nessuno a parte della grandiosità di questa visione è la sua frustrazione, e finirà per sopraffarlo.
Gli appunti autobiografici di Spengler non vanno oltre il 1919, anno dopo il quale egli godette di una inaspettata e straordinaria notorietà. Diventerà presto un pensatore alla moda, ricercato e citato. Nella vita di tutti i giorni egli è tutt’altro che solo o isolato, ma l’essere circondato da sordi e ciechi acuisce il senso di atroce isolamento. Non vi sarà mai uno Spengler mondano, soltanto un Solitario di Schwabing; vivrà segregato gli ultimi anni della sua vita, sforzandosi di ordinare l’opera che avrebbe dovuto superare il Tramonto. Del resto il profeta del declino aveva già una profezia anche per sé stesso: «Morirò a causa della mia solitudine». Nell’ottobre del 1932, a pochi anni dalla morte, scrive di sentirsi «più solo che mai, non come se vivessi tra ciechi, ma come se vivessi tra gente che ha bendato i propri occhi per non assistere al crollo della casa». Corteggiato e poi forse liquidato – come lascia presupporre un’ambigua annotazione di Jünger – dal regime hitleriano, morirà in solitudine. Cosa è cambiato rispetto agli anni dell’abissale Einseimkeit?: «Gettare perle ai porci, nella vita quotidiana rappresenta l’occupazione a cui mi vedo condannato. Preferisco conversare, piuttosto, con il mio bastone da passeggio».
Immagine di copertina: Mark Rothko, opera No. 17, 1957