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La necessità dello scandalo. Instadrama di C. Palis è l’evento letterario di cui avevamo bisogno



Se per Aldo Busi è bastato, per lui come un anatema, ridursi a vivere per poter scrivere, oggi, nell’era dell’instagrammizzazione della letteratura, lo scenario è mutato: per scrivere, in un certo senso, bisogna ridursi a morire. Ne è consapevole C. Palis, nella sua transustanziazione nell’io-narrante protagonista della cronaca ‘antiletteraria’ di un rapimento che è Instadrama (Gog edizioni).

Bisogna morire – a scanso di equivoci – di una morte autoriale, ma non della morte autoriale barthesiana, il cui rito funebre, riservato all’Io autobiografico, sanciva lo scarto insondabile tra l’opera e la dimensione esistenziale dell’autore, quanto di una morte autoriale implosiva, cosmica, la morte autoriale netflixiana di cui parla il critico letterario Jorge Carrión nel saggio Lo viral, laddove il marketing del prodotto polverizza, attraverso lo slogan «Una serie Netflix», il nesso epistemologico autore-opera perché non c’è più opera ma solo, appunto, prodotto – commissionato, periziato, appiattito, edulcorato – e l’autore si declassifica a mera figura tecnica, a, nel caso della scrittura, tassidermista delle lettere, artigiano dell’alfabeto e del testo scritto.

Per scrivere, bisogna dunque annullarsi in quanto Autore, inventarsi un proverbiale chiodo letterario per appendervi definitivamente la penna e iniziare a delegare ChatGPT, rinunciare ad aspirazioni di caratura artistica, e dunque dissimulare le pretese sconfinate della letteratura, anzi rinnegarla, tenerla in sordina, oppure, nella sentenza di C. Palis, arrivare a «scrivere tremendamente male, come Fabio Volo» (p. 38) – che poi, basta con Volo: certi ‘big names’ strapremiati e stralodati scrivono pure peggio.  

Gli spazi della letteratura vanno incontro a un crescendo di obnubilazioni, editori col conto in rosso esigono fruibilità e spendibilità del testo – meglio se rimpolpato con qualche drammaturgica vittimizzazione engagé – e alla cancrena cognitiva dei lettori, il cui tasso d’attenzione ai tempi dell’invasività degli schermi e dell’infodemia ipertrofica è in caduta libera, non sembra esserci via d’uscita; insomma: in un tempo accelerato, in cui a scandire il ritmo della giornata sono sequele succhiatempo di frammenti di video insignificanti, pandemizzati in rete come uniche valvole di sfogo attraverso il tandem Instagram-TikTok (con menzione speciale per il cugino Facebook), non c’è più spazio per il piacere complesso e temporalmente dilatato della lettura.

È precisamente in questo contesto di apocalisse dell’universo del libro, inteso come tecnologia della (de)formazione del sé, come sterminato contenitore e veicolo di un’alchimia di saperi, introspezioni e idee votata alla trasfigurazione, che prende le mosse Instadrama. Si palesa infatti, nelle parole dell’alter ego dell’autore, come una ‘denuncia sociale’, una denuncia espressa però non in chiave lamentevole e autovittimistica, quanto piuttosto attraverso un’ironia antifrastica e disillusa, dove il libro si fa beffe di tutto, persino di sé stesso.

Instadrama è per certi versi, a ben vedere, un non-libro, un antiromanzo. E non lo è in senso strettamente avanguardistico, giacché non si ribella dalle maglie formali della tradizione come fecero per esempio i modernisti e i loro epigoni, bensì intende slegarsi dalle recinzioni extra-testuali (culturali, ideologiche, politiche, etc.) che asfissiano il libro in maniera olistica, cortocircuitando le sue variegate funzioni sociali e personali. Sarebbe pertanto riduttivo e persino scorretto parlarne come di una pubblicazione tra le altre, perché non si pone come libro tra gli altri, e nemmeno come un Libro (con la L maiuscola), non ne condivide missione e scopi (motivo per cui questa non è una recensione come le altre, non approfondisce ma sconfina, esonda, va oltre i contenuti del libro in sé); si colloca poi, per certi versi, in una posizione antitetica rispetto all’immagine confortevole e autocompiaciuta del libro che si è imposta negli ultimi anni. La sua denuncia non è un’operazione di guerriglia interna al mondo-libro, ma riflette un sentimento di sconforto più generale all’interno del quale la forma romanzo è stata risucchiata come vittima sacrificale. Per questo, il racconto di C. Palis viene a rappresentare un punto di rottura, una scossa nell’ottundimento della macchina editoriale e culturale italiana, salvaguardandosi tuttavia dallo scivolare nello sterile stilema della ‘critica dal di dentro’ (e nemmeno ‘dal di fuori’). «Se volete pubblicare merda» sfida C. Palis, «merda avrete». In tal modo, Instadrama tratteggia i contorni di uno spazio critico-narrativo inedito, laterale, senza vergognarsi di fare del lezzo la sua scorza, trasformando il disagio dell’albatros baudelairiano in pura, lucida e atarassica disperazione.

Instadrama è in questo senso un (anti)romanzo accelerazionista. Conscio dell’impossibilità di contrastare gli imperativi estetici imperanti – invero imperativi economico-ideologici – il modus adottato da C. Palis cerca invece di trainare questa tendenza verso la sua dissoluzione, brandendo l’afasia dell’insta-romanzetto come spada per disarticolare la grossolana impalcatura che si pone a fondamento di una certa maniera di scrivere – non con l’alto bensì attraverso una degenerazione del basso, facendo il verso a questa dicotomia (anche nei contenuti: si passa da Pasolini ad Antonella Elia nel giro di una frase). Di per sé, infatti, il libro non possiede alcuna velleità letteraria intrinseca: è consapevolmente e dichiaratamente superficiale per trama e intreccio, i ‘personaggi’, salvo lo scrittore-narratore-protagonista, il suo amico Mattia, e quella geniale reificazione del politicamente corretto che è la signora Zu, sono grossomodo versioni caricaturali di vip blasonati e influencer.

Instadrama

Se la critica – se così possiamo chiamarla (e lo faremo, ma ci siamo intesi) – di C. Palis è eminentemente incentrata sulla dimensione extra- e sovra-testuale, di cui il libro è solo un mero veicolo, così vale per i suoi meriti. La scelta di basare l’intera storia sul rapimento del figlio della coppia più celebre d’Italia – come extrema ratio in mancanza di concrete alternative per farsi strada nel mondo della letteratura contemporanea – non si esaurisce in propositi intrinsecamente diegetici. Piuttosto, essa acquista peso specifico alla luce del prismatico gioco di specchi e doppi che intavola, in cui la presa di coscienza che «in un tempo squallido è possibile diventare grandi solamente facendo cose meschine» (p. 152) agisce da cassa di risonanza di una castrazione reale, da riflesso di un cul-de-sac concreto ed esistenzialmente paralizzante come se fosse al di qua del romanzo, nella vita vera. La condizione precaria del protagonista, costretto a lavorare come cameriere, dà l’idea di funzionare come proiezione di un disagio tangibile. Parimenti per gli svariati tic nevrotici provocati da un DOC (Disturbo Ossessivo Compulsivo), ai quali, variando sul gioco del doppio a livello formale e stilistico, C. Palis ha saputo assegnare una funzione ironica e sui generis di libere associazioni di pensieri, somiglianze di famiglia, e significa(n)ti, che(Guevara) funziona grosso(Fabio) modo così.

Si è al contempo sospesi tra realtà e finzione nel narrato in prima persona dall’improvvisato rapitore – non si riesce a smettere di contrappuntare la narrazione con ciò che si cela nelle pieghe vissute delle pagine come se stessimo giocando a battaglia navale – e la cosa più terribile è che, alle volte, il carattere estremamente verosimile dell’intreccio rilascia scariche di depressiva e materiale impotenza. Il bieco gesto del rapimento del figlio del celeberrimo marchio esistenziale incarnato dalla coppia dei ‘Fedagni’ (un versione ribaltata di generi e ruoli dei Ferragnez), ad esempio, passa nel tritacarne della megamacchina mediatica proprio come si ha l’impressione che lo farebbe nel quotidiano in cui siamo immersi, in un vis-a-vis con lo spietato amoralismo notiziario dell’e ora passiamo… per cui si salta da una tragedia all’altra, traghettati dalla pubblicità di pannoloni e preservativi, senza soluzione di continuità. Perché tutto è ininfluente nel ricircolo schizoide delle informazioni, il reale si sdoppia nel suo racconto e nella sua bolla di falsificazioni marionettistiche, nel suo simulacro, fino a che non solo diventiamo incapaci di discernerlo, ma addirittura non ci tange nemmeno più, ontologicamente sospesi tra le gore di iper-realtà virtuali, assuefatti da un’anedonia socio-culturale perpetua che C. Palis ben racchiude nel monito si salvi chi può, quindi nessuno.

Al netto di ciò che è Instadrama nella sua veste di romanzo, dobbiamo dunque fare un passo indietro (o in avanti) per comprenderne le particelle elementari. In primo luogo, a mio avviso, la cifra dell’opera si ravvisa in un sapiente e sardonico camouflage: invece di confezionare – come è sistematico e oltremodo evidente per la maggioranza delle uscite degli ultimi anni – un’opera letteraria come un prodotto, C. Palis confeziona un prodotto come un’opera letteraria. In tal modo, oltre a svelare questa sottostante logica postmoderna di lyotardiana memoria per cui, in un contesto consumistico-capitalistico, tutto è prodotto, Instadrama, invece di celarsi dietro tale sottaciuto giuoco delle parti come se nulla fosse, si situa in una posizione che al contempo ne incentiva ed esautora i meccanismi interni. Dietro la consapevole banalità dell’intreccio, che procede nella sua linearità da pseudo reportage manu propria del ‘colpevole’, si cela infatti il grido strozzato della letteratura, il silenzio osceno e malinconico con cui ne si accetta la catabasi. Non vi sono pertanto tentativi eroici di proteggere la letteratura, non ci sono paternalistici rimproveri o j’accuse che si appellano a vaghi principi morali – la letteratura non va salvata; ancora una volta il tormento e il fine dell’autore non è idealistico né romantico, quanto nichilistico, pragmatico e cinico; senza fronzoli. C. Palis non chiede altro che del tempo, il tempo per dedicarsi, nella vita, all’unica cosa che desidera fare: scrivere (p. 38).

Instadrama

Riemerge così il problema cruciale dell’autore (dell’autore C. Palis ma, per sineddoche, dell’Autore che anela a definirsi tale oggi), il problema del come scrivere, di come ritagliarsi quel piccolo spazio per un gesto che Bret Easton Ellis non esita a descrivere come paradossalmente insignificante, e che Michel Houellebecq approssima alla pratica di coltivare parassiti nel proprio cervello – autori non citati arbitrariamente, ma esempio, tra gli altri, e al di fuori delle nicchie, di fortune editoriali passate che hanno consentito loro di non rimanere inceppati negli ingranaggi del dispositivo editoriale del nuovo millennio che pietrifica la radicale espressione di sé e della propria visione del mondo, in una parola: la letteratura (ve lo immaginate Meno di zero passato al vaglio dei sensitivity reader?). Come fare, si chiede C. Palis, in un ambiente proiettato verso l’indifferenza per la lettura, in cui il vuoto di significato del contenitore Cultura diventa sempre più una fucina d’omologazione in grado, invece di abbracciarle, di dissipare differenze e contrasti. A venir meno, oggi, non sono tuttavia le possibilità della scrittura, quanto gli spazi di un’espressività incorruttibile, e quindi le possibilità della letteratura. Lo scoramento è principalmente orientato verso la «mafia del sistema culturale italiano» – un «luogo fighissimo», ci tiene a sottolineare C. Palis in un’intervista atipica condotta da Davide Brullo – che, in quanto tale, esige e legittima certi discorsi e ne reprime di altri, ma che comunque presenta dei benefici (dei quali vorrebbe godere anche C. Palis stesso), come vivere di scrittura, a patto però di abbracciare a pieno la crociata censoria e ostracizzante, e dunque finendo con l’occupare quel posto al sole dal quale poter pontificare e catechizzare sulla dieta di cose buone e giuste che passa nel convento ateo dell’establishment cool-turale italico.

Ecco cosa fare: caricare il revolver e prepararsi allo schianto contro questo humus culturale stucchevole e saturato dal proprio autoerotismo dispotico compiaciuto – non ciò che è barbaro, dunque, ma ciò che è presumibilmente educato –, traghettato verso esiti sempre più tragicomici dalla scia del revisionismo più becero, all’indirizzo del quale la pallottola Instadrama viene sparata nel suo rivestimento picaresco, marcato da scanalature squilibrate e aliene. Ed è in questo senso che il libro-proiettile va pensato e accolto come un evento, a partire da come il manoscritto si è palesato nella redazione di Gog, ossia come plico di fogli sulla cui prima pagina viene riportato titolo e nome dell’autore, senza ulteriori recapiti.

Gog decide di pubblicare quell’ammasso anonimo di carta senza indugi, in barba alle potenziali recriminazioni contrattuali da parte del John Doe della narrativa italiana contemporanea. Al netto di ciò, Instadrama approda nel bacino letterario come un libro necessario e, in effetti, solo Gog (che gioca a fare il «cattivo dell’editoria», come ci tengono giustamente a precisare) poteva sobbarcarsi l’ingrato compito di pubblicare un romanzo che in sintesi, riverberando il Parente dissacrante de La trilogia dell’inumano, dice senza mezzi termini che «il mondo fa cagare» e che la letteratura è finita. Ma Gog procede oltre, provoca, e – per rimestare la metodologia del doppio di cui sopra – si serve di Instadrama per dirci una cosa che ci ripete con tutte le sue uscite e iniziative, e che con questa assume un velo di sincera e proustiana devozione: la letteratura è una cosa seria. Non lo è come una postura, come un vezzo da salotto o come discorso pedante e ingessato, ma lo è visceralmente, e l’opera di C. Palis sintetizza e intensifica l’audace setaccio, a opera della sua casa editrice, delle terre incolte per stanare chiunque abbia questa profonda e religiosa convinzione, e sia stanco del teatrino messo in piedi, parafrasando Nietzsche, dagli operai delle lettere, addetti ai lavori culturali zombificati, alla ricerca di quel ‘noi’ implicito a cui faccio riferimento nel titolo. Un noi disorganico e increato, per dirla con Moresco, in perenne attesa di un insorgere sovversivo e sperimentale, di un’impresa capace di spostare gli equilibri.

Instadrama, svolge la funzione di porsi come grado zero – come innesco, detonatore – per invocare una nuova Epifania. L’impossibilità dello scandalo: è questo il vero scandalo di cui si fa portavoce Instadrama; non la mancanza di un ostacolo (il significato letterale dell’etimo skàndalon), di un oltraggio, di un turbamento, ma la totale indifferenza nei confronti dello scandalo come evento propulsivo e im/mediato, come prolegomeno dell’anarchica e indisciplinata produzione artistica e come causa di agitazioni esistenziali. Non scandalo, dunque, ma rivelazione, apertura dello spioncino verso inattesi e innominabili dirupi. È iniziato il cammino verso l’ignoto per ripristinare la mania e l’impulso, regredire per trovare un nuovo inizio tra le macerie.

L’escatologia dell’evento-Instadrama, torno a ripeterlo, non riguarda la salvezza, ma ancora una volta si avvicina a una precisa dichiarazione di intenti, impastandosi con la rotta complessiva di Gog edizioni, impegnata in un movimento di de- e ri-territorializzazione della letteratura. Anche se tra qualche centinaio di anni questa forma d’arte non sarà nemmeno più un tangibile ricordo, se le tracce delle grandi opere non saranno altro che polvere d’atomi lasciata a piede libero nella vastità della galassia, ciò non deve ostacolare l’importanza attuale di queste «lettere agli amici», per dirla con Sloterdijk, che ci ostiniamo a scrivere. La nostra prole bionica non avrà più bisogno della letteratura come forma intima di comunicazione, come medium per sentirsi meno soli e scoprire gli abissi che ci legano, perdersi e destabilizzarsi, ma forse conserverà con sé un’impronta nel corredo genetico composto da bit e algoritmi di cosa ha significato per i loro antenati tutto questo, e allora quest’imperfezione dell’umano – a tratti sentimentalistica e a tratti sublime – di cui si avrà solo un’inconscia reminiscenza, verrà compresa nella sua assurda necessità.


Immagini nel corpo del testo: meme di @lacanyewest

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