Sull’eredità mediatica e spirituale di Silvio Berlusconi le riflessioni si sono sprecate, dalla satira di Luttazzi alla meditazione più intimista del Cavaliere di Servillo in Loro, ma il recente recupero dei fasti di Mediaset sotto le vesti del distacco pop, facilmente riscontrabile in tutta una serie di meme che spaziano dal citazionismo innocuo e immediato di un Trash Italiano o Sapore di male al kek più oscuro e multilayered del sottobosco dei chan, ha dato il via alla proliferazione di tutta una serie di contenuti, personaggi e linguaggi che culminano nella figura emblematica di M¥SS KETA. Volto mascherato, ironia tipicamente milanese e un bagaglio di riferimenti culturali e controculturali continuamente rimescolati in un sofisticato e irriverente pastiche postmoderno, M¥SS KETA si è imposta sulla scena come un’antitesi satirica dell’immaginario Mediaset degli anni Ottanta e Novanta. E se lo straniamento prodotto da colei che ha portato avanti l’eredità della Milano da bere nella Milano sushi e coca non dovesse essere sufficiente a squarciare il velo del reale, ci ha pensato Fedez, che in un episodio di Muschio selvaggio ha ben pensato di mettere M¥SS KETA e Massimo Boldi nella stessa stanza per godersi lo spettacolo.
Da una parte lo sguardo vigile e divertito di Fedez, avatar perfetto del capitalismo mediatico ed egoriferito del self-made man iniziato proprio da Berlusconi; dall’altra un confronto vis à vis tra la personificazione originaria dell’italiano medio negli anni Novanta, controparte ricca e ingenua dei furbeschi donnaioli incalliti interpretati da De Sica in una perfetta simmetria del sogno italiano, e la sua ripresa post-ironica, in M¥SS KETA. Il tutto porta all’inevitabile e rassegnata realizzazione che anche il linguaggio del berlusconismo si ripeta prima come tragedia e poi come farsa. Se non fosse che la caratteristica del ventennio che ha dato origine a questo codice è stata proprio la compresenza inscindibile dei due registri che si influenzavano reciprocamente, rovesciando il carnevalesco nel tragico e viceversa in quel tempo eternamente uguale a se stesso che Adorno e Debord avevano preconizzato nella società di massa, dove alla realtà si è sostituita la pubblicità. Un berlusconismo caratterizzato dalla «pubblicizzazione della sfera privata e dalla privatizzazione della sfera pubblica» rese possibili dalla moltiplicazione narcisistica di media e programmi incentrati sul desiderio di visibilità, come osservato da Ida Dominijanni ne Il trucco, a oggi l’analisi più lucida e puntuale del «carnevale berlusconiano».
Tra i due ospiti, metafore viventi delle transizioni economiche e sociali che hanno attraversato Milano negli ultimi trent’anni, c’era uno strano piano di incomunicabilità, come se tra la nostalgia delirante e autocompiaciuta di Boldi e quella ironica di M¥SS KETA ci fosse uno scarto, una frattura insanabile, e ogni sforzo ermeneutico fosse vano a prescindere dalle intenzioni. E lo stesso Fedez, per quanto divertito, si ritrovava a condividere con lo spettatore una sensazione di disorientamento davanti all’assurdo della scena che gli si prospettava, impossibilitato a fare da mediatore in una conversazione priva di un’autentica dimensione dialogica perché innestata sul vuoto dell’ironia fine a se stessa. Oltrepassata la soglia dell’assurdo si giunge a una consapevolezza incredibilmente malinconica, perché è stato proprio nell’esito imprevedibile di questo scambio improbabile che si è palesata l’insufficienza dell’ironia a uscire dagli schemi codificati dal ventennio Berlusconi, di quell’impasto di desideri e disastri cui noi ventenni e trentenni siamo figli nostro malgrado. E questo ripresentarsi ciclico in forme diverse della stessa grammatica, non più solo televisiva, non fa che confermare come quegli anni siano stati un esperimento più che riuscito in materia di industria culturale.
L’eredità degli eccessi mediali di Silvio e il vuoto culturale e politico che ha lasciato si stanno infatti ripresentando nella recente venerazione per il trash e per quella stessa scatologia catodica propinataci da decenni di esposizione a Mediaset, ora presentata di nuovo con divertito distacco per nasconderci la consapevolezza che in tutto questo tempo non siamo riusciti a creare un insieme di codici che potesse fungere da antidoto, quando non semplicemente da alternativa. Il riciclo del berlusconismo attraverso il prisma dell’ironia ne sconfessa il carattere di menzogna, ma questa riproposizione non fa che confermare la sua coincidenza perfetta con la situazione socioeconomica che ha reso possibile il berlusconismo in primo luogo, un capitalismo mediatico di matrice fortemente individualista che fonda il proprio potere sulla visibilità. Questo monopolio dell’apparire è la superficie patinata di un tempo consumabile e svalorizzato orientato al solo consumo, di un capitalismo eternamente uguale a se stesso, cristallizzatosi nella propria continua riproposizione attraverso un’aura ormai decaduta che fa del suo decadimento l’attrattiva di consumo più allettante. Si potrebbe obiettare che la perdita dell’aura ha in sé la possibilità sovversiva di esautorare l’oggetto sacro e il culto dell’individuo, eppure, in simili circostanze, l’ironia non è più sovversione ma parte del sistema, perché quest’aberrazione ironica viene investita della stessa connotazione feticistica dell’aberrazione originaria. Ed ecco allora M¥SS KETA che parla della Milano nostalgica con Boldi nello studio di Fedez, o Jerry Calà e Lorella Cuccarini nei videoclip del Pagante, una merce che, nelle parole di Debord, «contempla se stessa in un mondo da essa creato», a testimonianza di come in questi ultimi trenta o quarant’anni sia cambiato poco o nulla, se non siamo stati in grado di immaginare un’alternativa all’ironico nichilismo consumista del dopo-Mediaset.
Se già nell’arte contemporanea del Novecento la graduale fascinazione per l’abietto testimoniava la consacrazione di uno smarrimento sorto dal vuoto lasciato dal sacro in una società laicizzata (seppur con certe riserve, perlomeno nel caso italiano), una trasgressione disperata che cercava di scongiurare lo scarto tra simbolico e reale, in era berlusconiana e post-berlusconiana il culto della dissacrazione è stato rapidamente sussunto da un sistema che ricalca e glorifica gli eccessi del Cavaliere in salsa pop. Se tuttavia la fine di quell’epoca sanciva la necessità di riempire nuovamente, nelle parole di Žižek, «il vuoto sacro della Cosa» – dove qui il vuoto è politico –, la corsa al trash provocata dall’angoscia di questo vuoto sembra quasi testimoniare «l’ultimo disperato stratagemma di assicurare che il Luogo Sacro c’è ancora». Il sacro implica la trasgressione, e con più forza la trasgressione implica il sacro. Ma che tipo di Luogo Sacro è possibile, se la politica non è stata in grado di emanciparsi dagli stessi paradigmi che l’hanno squalificata? In assenza di alternative nell’arena concreta delle piazze e del Parlamento resta quella mediatica, nella stessa confusione tra pubblico e privato in cui questo spazio vacante ci ha lasciati. «Ciò che appare e buono e ciò che è buono appare», scriveva Debord, e la sempre più crescente estetizzazione delle merci e del linguaggio del berlusconismo, anche e soprattutto nella sua antitesi post-ironica, manda in cortocircuito la capacità di sublimare. Sempre più profetico appare quindi il «viva la merda» di René Ferretti, un protagonista che condivide col suo universo narrativo e con la nostra realtà di spettatori lo stesso triste destino: una voglia riottosa di cambiamento che col tempo si trasforma nel migliore dei casi in un meme, nel peggiore in rassegnata e connivente mediocrità, in un monopolio di arte e ironia che ha come scopo l’appiattimento dei conflitti – o anche solo del dialogo, ultimo grande rimosso della società dello spettacolo.
L’operazione di riappropriazione dell’estetica berlusconiana messa in atto da M¥SS KETA può apparire come emancipatoria, in una società dove la visibilità ha assunto il carattere di moneta di scambio. Vedere una ripresa autonoma e canzonatoria di quei canoni da parte di identità oggettificate e denigrate – quando non direttamente escluse – dall’apparato dei media, come donne e soggettività queer, può assumere i connotati di un détournement o di una satira ben riuscita, ma è una vittoria di Pirro che ripropone la stessa locura dall’altro lato della barricata. Estendere la possibilità di utilizzare il linguaggio del tiranno non ne vanifica l’efficacia, al contrario: sembra proprio confermare attraverso il sacrilego il vuoto rimpianto nella sacralità. Se infatti da un lato l’appropriazione e la riproduzione di quel codice segnico in chiave ironica può esautorarne la portata, dall’altro non fa che replicarne gli effetti e l’ascendente, perché è proprio quando la critica al sistema diventa glamour o macchiettistica che perde la sua capacità di scalfire il potere e immaginare alternative. È divertente, certo, ma non rivoluzionario, perché ripetizione non equivale necessariamente a trasgressione, tutt’altro. La trasgressione implicherebbe da un lato la totale scomodità, che la squalificherebbe dal regime di visibilità e rappresentazione, dall’altro una meditazione sui limiti dell’ironia nella società dello spettacolo – impensabile in un personaggio ormai assorbito dallo stesso star system che parodiava, a testimonianza che forse, a questo punto, non c’è davvero differenza tra i due. Il lusso, lo sfarzo, l’agio e il prestigio, il simulacro di un’icona elevata a feticcio, ma sotto la maschera il vuoto, ad Arcore come a Porta Venezia. E se Berlusconi incarnava, come notato da Dominijanni, il padre osceno in cui la legge della castrazione fa spazio alla legge del godimento e otteneva consenso «non nonostante ma in quanto» incarnasse proprio questa equivalenza, non è estendendo le soggettività incluse nella coazione a godere che sarà possibile liberarci di un fantasma così ingombrante. Il valore dei contenuti proposti dai media non è mai intrinseco alla loro sostanza, è il risultato di questi dispositivi che ne decretano il valore. Nell’epoca post-berlusconiana che stiamo attraversando, l’intrattenimento è più politico della politica proprio per il suo negarla costantemente, pubblicizzando l’eterno ritorno di uno status quo scisso tra volgarità e disincanto.
Come operare, quindi, una critica della cultura efficace nell’epoca del post-berlusconismo? Parafrasando la massima di Audre Lorde secondo cui gli strumenti del padrone non demoliranno mai la casa del padrone, potremmo dire che gli strumenti del Papi non demoliranno Villa Certosa, perché la complicità di chi crede di poter combattere il sistema dall’interno è un sistema chiuso che vede nel potere scopico, nella rappresentazione e nella visibilità l’unica possibilità di produrre un immaginario diverso, senza notare che è la stessa attinenza ai canoni del capitale che sceglie chi può essere rappresentato in primo luogo. Il ventennio Berlusconi ha dimostrato che i media hanno la capacità di produrre il reale attraverso un’aberrazione dell’immaginario, trasformando gli stessi tentativi di iconoclastia nei più gettonati dei fenomeni pop, ma non possiamo accontentarci di questa aporia. In uno dei suoi saggi sull’industria culturale, Adorno notava come la cultura di massa non dovesse essere criticata attraverso la contraddizione che la regge né per il suo carattere oggettivo o meno, bensì attraverso i tentativi di conciliazione che rendono impossibile uno svelamento autentico di tale contraddizione. Se il conflitto operava sul piano della superfluità e della rappresentazione mediatica, ora è quella stessa superfluità ad apparire come una sofisticazione o un’avanguardia post-ironica, e l’alienazione passa proprio per la risata, quando non direttamente per il nuovo gusto acquisito. A conferma di ciò, in chiusura a L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica Benjamin afferma che l’autoestraniazione dell’umanità «ha raggiunto un livello che le permette di vivere il proprio annientamento come un godimento estetico di prim’ordine». Adoro, nelle parole della M¥SS.
Ma c’è sempre una via d’uscita. In uno dei saggi contenuti in Prismi, Adorno deplorava la concezione feticistica del concetto di cultura come tale, una cultura idealistica e mitologizzata avulsa dalle strutture economiche e dall’inconscio politico che a essa soggiacciono. «La reificazione della vita stessa non riposa tanto su un eccesso», scriveva il filosofo, «bensì su un difetto di rischiaramento», e:
«Ogni volta che la critica della cultura si lagna del materialismo, non fa che favorire la credenza che il peccato è il desiderio degli uomini di beni di consumo e non il meccanismo globale che di quelli li defrauda: la sazietà e non la fame.»
La critica della cultura, allora, che per suo stesso presupposto poggia sul sistema economico, è intrinsecamente legata alle sorti della società e della politica. Una cultura consumistica e un umorismo che strizza l’occhio al suo stesso oggetto di critica non sono una sofisticazione né un’aberrazione, ma «il semplice prolungamento della produzione». E anche nella satira non si può cadere nell’errore di perpetuarsi fuori dalla resistenza all’ideologia, in un terreno dove la stessa critica è asservita a una cultura e a un berlusconismo che sono ancora «complemento dell’orrore» e dell’ordine delle cose. È necessaria «un’intransigenza di fronte a ogni reificazione», che svesta il fantasma di Berlusconi delle sue insegne, dei suoi paramenti e del culto delle sue reliquie. Dominijanni sembra suggerire che l’antidoto sia prima di tutto politico, e che vada ricercato da un lato nell’anamnesi degli effetti che il ventennio berlusconiano ha inscritto «sulla pelle del corpo sociale», su cui permangono tuttora le cicatrici – per quanto ironiche e patinate –, e dall’altro in una nuova azione immaginifica:
«”Il sogno degli italiani” è stato un brutto sogno, ma […] dei sogni si può forse essere responsabili, se ne può rispondere, trarne un senso e una ragione, avendo cura di ciò che ci danno da pensare; ci si può svegliare, e cambiare sogno.»
Crediti fotografici
Immagine di M¥SS KETA in copertina tratta da Inside Music
Copertina del podcast Muschio Selvaggio
Foto di M¥SS KETA tratta da Adnkronos