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Jazz is dead, in viaggio verso la musica in mutazione



Può succedere che una persona decida di prendere parte a un festival musicale pieno di artisti interessanti per via di un nome in particolare, il nome di un’artista che ascolta da tempo e che non ha mai visto dal vivo. E può capitare – è capitato – che quel festival si chiami Jazz is dead e che quell’artista prenda il nome di Kali Malone. Dato che il festival si svolge a Torino e che la persona presa come esempio abita nel ponente ligure, ecco che nel mezzo c’è un viaggio, un viaggio in treno. Anzi di più, un viaggio a bordo di un regionale veloce: buffa creatura di latta e simil pelle, con le porte che si aprono un po’ come se un vecchio guardaroba diventasse pretenzioso e si munisse di un tasto adibito all’apertura delle proprie ante, ma comunque restando fedele all’idea dell’apertura a soffietto, che per chiunque abbia mai partecipato in vita sua a una sagra di paese, non può che essere un chiaro rimando alla fisarmonica.
Kali Malone però, non ha molto a che spartire con le sagre di paese e le fisarmoniche. Si tratta di una compositrice statunitense e di un’organista: la cui musica, algida e maestosa, si sviluppa grazie a note trattenute a lungo in posizione, quasi fossero modelle in posa durante una sessione di disegno dal vivo, e che proprio grazie alla loro apparente immobilità, una immobilità densa e vibrante, sono capaci di imprimere una particolare sensazione di piacere quando decidono di mutare. È una musica, la sua, che potrebbe ricordare certi paesaggi al tempo stesso ampi e feriti, come le cave di marmo o le miniere di gesso. Si sviluppa giustapponendo pressioni sonore insistite, in modo analogo con le manipolazioni che caratterizzano le tecniche di massaggio del sud est asiatico, in cui le parti del corpo contratte e problematiche vengono premute a lungo, con le dita o con la punta dei gomiti, affinché la loro improvvisa “liberazione” faccia rifluire il sangue in modo improvviso, incaricando il corpo di curare e rilassare se stesso.
La musica di Kali Malone però, più che a una restaurazione, più che a una cura, fa pensare a un rituale in cui qualcuno o qualcosa sta per essere sacrificato, o forse è stato appena sacrificato. Il titolo di un suo bellissimo disco, Sacrificial code, vale come conferma.

Ed è per l’appunto un sacrificio il viaggio compiuto con il regionale veloce verso la fine di un maggio torrido: il vagone scricchiola e fatica, contiene orde di bimbetti di ritorno dal mare che giustamente giocano a carte e giocando si minacciano e si percuotono spesso, per poi riderne appassionatamente e sfruttare la passione per tornare a percuotersi ancora e così via. E può capitare che il treno, una volta raggiunta Savona, si incagli, sfiancato come una bestia da soma troppo carica, e che si rifiuti di tenere il passo. A quel punto il ritardo, questo amante insaziabile del grande animale morente chiamato Trenitalia, ha gioco facile a prendersi la scena: i binari infatti, esattamente come le note di Kali Malone, spingono verso un’algida idea di ordine – il più violento dei luoghi – mentre gli altri treni, stanche bestie da soma pure loro, appena lasciati liberi di esprimersi vanno in tutt’altra direzione, singhiozzano, tamburellano, si dedicano a false partenze e soste inaspettate, quasi volessero spiare gli abitanti dei palazzi che circondano la loro corsa abituale. E dunque, la persona diretta verso il festival con l’obiettivo principale di godersi il concerto di Kali Malone, essendo una persona pratica di treni regionali veloci, inizia a capire come il treno abbia deciso diversamente. Più lui spera e controlla l’ora e calcola le proprie possibilità di arrivare in tempo, e più il treno s’ingolfa, balbetta, più prende tempo accanto a porzioni di campagne remote che, di norma, non vengono scrutate tanto a lungo nemmeno dai topi in cerca di riparo.
In questo genere di situazioni, la persona diretta al concerto tanto agognato giunge a Ceva ormai stanco perfino di bestemmiare. Sfiancato dal caldo e dalla lentezza decide di fingersi incurante del mondo e si affida alla musica in cuffia per ignorare la tentazione di controllare l’ora e riprendere con i propri meschini appuntamenti personali: la persona in questione è sconfitta e sudata come un lottatore di sumo alle prime armi, e dunque assume la posizione tipica di chi è pronto ad affidarsi interamente alla sconfitta: la fronte contro il vetro, gli occhi chiusi, le mani abbandonate sulle ginocchia come uno studente che abbia imparato a mantenere una certa dignità anche quando costretto alla scena muta.

Naturalmente, la persona in ritardo non può che raggiungere il luogo in cui si svolge il festival, chiamato Bunker, quando il concerto di Kali Malone sta ormai terminando. Anzi di più, lui è in fila per farsi dare la tessera Arci, quando Kali Malone, accompagnata per l’occasione da Stephen O’ Malley e da Lucy Railton, sta tenendo in equilibrio un ultimo suono, che si spegne non appena la persona in ritardo ha superato la fila.
In questi casi bisogna farsene una ragione: una musica basata su rituali sacrificali esige una vittima, e in un certo senso è giusto, corretto, che la vittima sia prescelta tra coloro che hanno dimostrato un attaccamento eccessivo alla faccenda. E poi la serata non è finita, tutt’altro, è appena iniziata: lo spazio centrale del Bunker è all’aperto, e risulta già carico di una umanità buffa e interessante. Trattandosi di un festival di musica gratuito, al cui interno gravitano artisti sperimentali ma anche DJ e produttori più ballabili, i festanti sembrano essersi fatti carico di rappresentare uno spettro umano tanto ampio quanto quello sonoro: ci sono i veri appassionati di musica sperimentale, simili tra loro in tutto il mondo, generalmente più attempati, sfoggiano occhiali dalle montature sottili, visi amichevoli, camicie e gilet di lino grezzo, scarpe che possiedono l’ambizione di farsi ciabatta; e poi ci sono le nuove generazioni, che invece sono più energiche e possiedono movimenti più elastici, non ondeggiano, loro, ma procedono a scatti, spesso alzando una mano aperta verso il cielo, o il soffitto, come per aprire un cofano che continua a richiudersi; gli appassionati di musica invece dimostrano più sangue freddo, sembrano intenti a osservare dettagli nati per sfuggire a chiunque altro, e se procedono a coppie o gruppetti spesso riescono a dirsi qualcosa all’orecchio, un qualcosa che inevitabilmente causa una risata improvvisa e breve, un tipo di punteggiatura, un appunto mentale più che una frase davvero divertente.

Il bello di un festival come Jazz is dead, oltre che dalla qualità notevole degli artisti, è dato dalla sua natura gratuita. Perché proprio il fatto di non avere un biglietto d’ingresso – soltanto donazioni non obbligatorie – permette al suo pubblico di essere troppo eterogeneo per lasciarsi inquadrare mai del tutto. C’è il gigante dall’aspetto nordico appassionato di musica noise, il trapper mingherlino, quello capitato per caso, la ragazza magrissima e pallida che riesce a restare indifferente nel mezzo di una bolgia sovrumana, e poi quelli che arrivano tardi, magari solo per ballare, ma anche quelli che invece arrivano prima degli organizzatori e studiano ogni esibizione come se ne andasse della sicurezza nazionale, e poi ci sono gli annoiati e ci sono quelli in cerca di qualcuno da baciare, quelli che fumano con fare voluttuoso e quelli che camminano in giro senza sosta.
In un contesto del genere la musica improvvisata è forse la più aderente al contesto. Non la più amata, non la più accessibile e partecipata, ma quella che in qualche modo assomiglia di più a un approccio così aperto. Charlemagne Palestine è uno degli sperimentatori più longevi e rispettati nel mondo della musica sperimentale improvvisata. A Torino si fa accompagnare sul palco da Daniel O’Sullivan che per via di una spiccata malinconia un po’ rassegnata assomiglia a un chirurgo di guerra, e da Alexander Tucker, che invece sembra appena sbucato fuori da un racconto di William T. Vollmann e dunque non avrebbe sfigurato affatto nella lista dei sospettati di essere Unabomber. Charlemagne Palestine è il più vecchio dei tre, e quello che sul palco ha una posizione più defilata: il volto bonario è parzialmente celato dal cappellino, lo sguardo è spesso rivolto ai tasti del pianoforte e ancora più spesso nascosto dentro le palpebre. La loro musica procede per ripetizioni apparenti. Dico apparenti perché in realtà le movenze, le sonorità reiterate servono a rendere l’ascoltatore meno pronto a percepire i cambiamenti in atto: come gli incantatori di serpenti attirano l’attenzione dei rettili focalizzando la loro attenzione sul movimento della mano più esposta e evidente, per poi afferrarli con l’altra, allo stesso modo Charlemagne Palestine e i suoi sodali costruiscono stratificazioni sonore ipnotiche e apparentemente stabili, per poi squarciarle improvvisamente, aumentando d’intensità e aggiungendo parti vocali aliene, vocalizzi simili ai versi che le megattere si scambiano nelle profondità marina.

O almeno questa è l’impressione che può venire a un tizio che abbia trascorso almeno cinque ore a bordo di un treno regionale veloce in compagnia di svariate scolaresche festanti. Tizio che, a causa dell’umidità (altri la chiamerebbero pigrizia, altri ancora, infami, età) si è perso il set di Not Waving ma non quello che l’ha preceduto: in cui Alessia Li Causi, in arte Luce Clandestina, ha costruito uno spazio sonico lavorando materiali a prima vista poco compatibili tra loro, donando al pubblico quella stessa piacevole e bambinesca soddisfazione che si prova a osservare gli artigiani al lavoro: quando producono azioni e gesti, in questo caso suoni, lavorati in modo apparentemente indipendente, ma che non appena vengono accostati gli uni agli altri svelano meccanismi e saldature perfette. In questo modo la pista da ballo e la musica elettronica hanno pagato un inaspettato tributo alle falegnamerie e alle botteghe dove i coltellinai affilano le loro lame. Se la vita, tra le altre cose, è anche un luogo insensato e pericoloso in cui si impara a gestire lo stupore e il piacere, allora la danza, la danza provocata da questo tipo di musica, è un alleato formidabile. 

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