Negli anni 2011-2013, Umberto Orsini ed io abbiamo condiviso una lunga tournée teatrale italiana ed estera, portando in giro un fortunato spettacolo brechtiano, La resistibile ascesa di Arturo Ui, di cui lui era protagonista nel ruolo del titolo (la grottesca maschera che l’autore sceglie come controfigura allegorica di Hitler), io ero in scena al suo fianco (Goebbels) e firmavo anche la complessa drammaturgia, che voleva ricostruire l’incompiuto di Brecht ritessendone trame sommerse e stratificati riferimenti musicali. Fra le oltre duecento recite dell’Arturo Ui, trovammo il tempo di dedicarci a una ricerca congiunta intorno a un vero e proprio personaggio “ossessione” di Umberto, Ivan Karamazov. Il risultato di essa è il progetto Le memorie di Ivan Karamazov, un copione a scritto a quattro mani e più volte rivisto nello scorso decennio, divenuto infine spettacolo teatrale con Orsini protagonista e me alla regia, che ha debuttato nell’ottobre 2022 al Piccolo Teatro di Milano, inaugurando la stagione, per poi proseguire in giro per l’Italia in tournée.
Un decennio di gestazione, dunque, per un testo piuttosto breve – del resto, destinato a un monologo che deve riassumere e ri-narrare di scorcio un’opera-mondo, – ma che raccoglie e rielabora spunti che vengono davvero da lontano, reca traccia di ampi ripensamenti, di altri lavori teatrali di Orsini e miei. Il cuore drammaturgico e registico di queste Memorie di Ivan Karamazov è infatti quello d’una sofferta e sibillina riflessione sull’identità.
Assumendo il romanzo come nucleo mitologico “a monte”, abbiamo isolato l’entità Ivan e ci siamo chiesti innanzi tutto chi sia, cosa sia. Un personaggio, d’accordo. Ma anche l’incarnazione romanzesca di un nodo ideologico cruciale e, quindi, un alter ego dell’autore… Ivan è una creatura narrativa che, nonostante le diffuse connotazioni che lo descrivono e le molte pagine che Dostoevskij gli dedica, sfuma nell’imprendibile: è la maschera e il pretesto di logiche segrete, negate. È un protagonista che si sottrae alla centralità, individuo che si rifrange in una pluralità di riflessi cangianti (il poeta, l’amante infelice, il malato di nervi, l’ateo che lotta con un Dio in cui non crede, il demistificatore, il totem del nichilismo…), è un’invenzione sospesa, quasi incompiuta. Identità plurime e osmotiche, cui nel nostro caso se ne affiancano anche altre, di natura, per dir così, “metanarrativa” o, più specificamente e compiutamente, “metateatrale”. Sì, perché il nostro Ivan è anche un personaggio-labirinto, che accompagna cinquant’anni di carriera di un mirabile “capitan Achab” della nostra scena nazionale, un attore che insegue la sua balena enorme e veloce, la arpiona e si lascia trascinare… dapprima in un celeberrimo sceneggiato che la RAI manda in onda nel 1969, poi in diverse incursioni sottotraccia che sfociano in uno spettacolo sul solo “Inquisitore” di un decennio fa (La leggenda del Grande Inquisitore di Babina-Capuano-Orsini), e ora in questo confronto a tu per tu con l’intera parabola romanzesca di Ivan, che è anche una personale ricapitolazione di luoghi e memorie in cui la biografia immaginaria del secondogenito dei Karamazov si confonde con quella teatrale dell’attore Orsini.
Si tratta di un’occasione unica di osservazione d’una convivenza tra interprete e personaggio, con pochi paragoni nella storia del teatro dei nostri tempi. Ma quale punto di osservazione eleggere per indagarne episodi affiorati e rimossi, delitti e castighi? Ho immaginato la sala di un tribunale… L’ultima volta che Doestoevskij ci mostra Ivan nel romanzo è durante il processo per il parricidio: mi è sembrato interessante ripartire da lì. Prigioniero di quell’aula, di un finale mai scritto, di una sentenza sbagliata, il nostro Ivan continua ad aggirarsi tra i frammenti della sua esistenza, osservati come prove materiali di fatti e memorie che riemergono a strappi, negli spazi di lucidità che gli concedono le febbri cerebrali di cui è descritto preda, nel circolare affastellarsi di teorie e ricordi. Non siamo più al processo per la morte di Fëdor Pavlovič, è chiaro: quest’aula consumata dal tempo, che resiste in un limbo che non è più romanzo e non sarà mai vita, è ora lo spazio per un’istruttoria in cui l’unico personaggio superstite, questo svanito e invecchiato Ivan, ha la parte del giudice e dell’imputato. È un processo a se stesso, alla sua colpevolezza morale mai riconosciuta né punita, è lo spazio per la condanna di quelle idee che – Dostoevskij glielo fa dire esplicitamente – armarono la mano dell’omicida Smerdjakov, mentre Ivan, che quelle idee aveva concepito, voltava la faccia altrove per non vederne le conseguenze.
Quel che avviene in palcoscenico non è certo una trasposizione del romanzo e nemmeno una sua riduzione. Oggi, diremmo, è uno spin-off. Seguiamo Ivan oltre il romanzo e – in parte – anche oltre Dostoevskij, negli atti finali di un’esistenza impossibile, irredenta, mentre non si dà pace per l’esito della sua storia e di quella dei Karamazov. Lungi dal voler dar vita ad un rovello “pirandelliano”, da personaggio smarrito in cerca d’un finale alternativo, questa visione è motivata dal fatto stesso che a incontrare di nuovo Ivan Karamazov sia proprio Umberto Orsini. Mi hanno chiamato a questo gioco di prolungamenti e di rievocazioni liminali, tra coscienza e incoscienza, l’illustre retorica dell’eterno ritorno ai modi e ai luoghi di una creatura fittizia di cui l’attore non riesce a disfarsi; l’immensa solitudine di un palcoscenico ormai spento, ospite d’una scenografia disabitata, a teatro chiuso, in cui i fantasmi resistono e riprendono corpo per l’interprete rimasto intrappolato in quello stesso teatro – come il vecchio Svetlovidov cechoviano nel Canto del cigno; una blasonata tradizione di “grandi Russi” alle prese con solitari deliri che, dentro e fuori dal teatro, hanno dato vita a una vera e propria mitologia, dove il nostro Ivan va ad aggiungere la sua sofferta allucinazione a quelle dello Hermann di Puškin, del Popriščin di Gogol’, o a quella dei suoi confratelli dostoevskijani, Goljadkin, Myškin, Raskol’nikov… La follia è, del resto, un altro potente coefficiente di alterazione della percezione dell’identità, che è ciò da cui siamo partiti.
Chi è Ivan Karamazov? Chi è Ivan per Ivan, e chi è per Orsini? E ancora: chi è Ivan nell’invenzione di Ivan, ossia il suo poema mai scritto, La laggenda del Grande Inquisitore? Evidentemente è l’Inquisitore stesso, come testimonia quel bacio finale che l’antico prelato si scambia col Cristo redivivo, e che Ivan riceve identico da suo fratello Aljoscia, assumendosi così sulle spalle il ruolo del luciferino Inquisitore e attribuendo al fratello quello del Salvatore. Dunque l’Inquisitore è lo stesso Ivan, e Ivan è l’Inquisitore, sono specchio l’uno dell’altro, come anche in scena viene suggerito… E che cosa inquisiscono? il senso letale del libero arbitrio e della libertà di pensiero, naturalmente. Il capitolo dell’Inquisitore, in questo spettacolo, è organico alla vicenda di Ivan Karamazov, non è osservato, per una volta, come una cellula separata, una riflessione filosofica a latere, bensì come un mattone strutturale del cammino di Ivan verso l’autoaccusa. Quel rogo a cui l’Inquisitore condanna il Cristo tornato in terra – e che non avrà luogo grazie al silenzioso bacio di cui sopra, in grado di convincere l’ecclesiastico a liberare il prigioniero a patto che scompaia per sempre – è come se fosse divampato comunque nel tribunale della coscienza di Ivan, carbonizzandone i ricordi e gli ideali, che vengono restituiti corrotti, a tratti irriconoscibili, e che egli tenta qui di ricomporre perché vadano a puntellare l’impianto accusatorio contro se stesso. Il più icastico processo a un altro signor K., con le sue alterazioni distopiche e i suoi incubi ad occhi aperti, in un inatteso cortocircuito spaziotemporale, non poteva non ispirare, a tratti, questo nostro crudo e satirico Dostoevskij, “tra Kafka e Daumier”.
Infine: chi è Ivan nell’invenzione di Orsini? Potremmo dire che è – o meglio, fu, all’inizio – quel ragazzo biondissimo che Enrico Maria Salerno gli offrì la chiave giusta per interpretare cinquant’anni fa, le cui battute Orsini imparava correggendo a suo modo la riduzione che Diego Fabbri aveva approntato per la tv, le cui espressioni l’attore sceglieva, subito dopo aver girato, raggiungendo Sandro Bolchi al montaggio. Costruendo Ivan Karamazov, Umberto Orsini ha codificato un metodo di lavoro che lo ha accompagnato lungo tutta la sua carriera, quello che definirei la tecnica del ritocco costante e della narrazione infinita. Il primo aspetto ha a che fare con la necessità michelangiolesca di entrare nel processo di plasmazione di un personaggio, senza mai accontentarsi di animarne una raffigurazione data a priori; il secondo pertiene invece al bisogno di appropriarsi di parti di sé e della propria invenzione attoriale, anche attraverso la minuziosa e mitografica riedificazione degli stessi episodi e degli stessi personaggi, in un racconto che poco a poco, con fine lavorio, corregge e scava, riforma e rinnova l’intuizione primigenia, senza mai smarrirne il nocciolo.
È quel che avviene anche in questo spettacolo: senza bisogno di forzature o di espedienti che rendano inutilmente espliciti i già palesi approdi anche metateatrali di questa avventura, Ivan e Umberto, il personaggio e l’attore che lo incarna, osservano la loro storia, esplorano i loro ricordi, riascoltano le loro testimonianze a più voci (che sono poi sempre una sola, quella di Orsini, che risponde oggi alla sua voce di cinquant’anni fa… incredibile occasione!), celebrando un accorato e solitario processo di sincronizzazione interiore.
C’è un apparecchio brevettato da Léon Gaumont nel 1902, che prese il nome di cronofono, e che serviva, nel cinema delle origini, per sincronizzare le immagini e il suono. Fu un rudimentale e precoce tentativo di sonoro al cinema, quando ancora era muto. Nel nostro tribunale, a uno strumento ad esso ispirato – una sorta di reinventato e anacronistico fonografo – è affidato il compito di diffondere le voci del passato o quelle interiori, mentre l’Ivan del presente cerca di sincronizzarle con le immagini mute della sua memoria intermittente. Immagini che sono sì quelle di un romanzo capitale della letteratura di tutti i tempi, ma che sono anche, nei ricordi latenti di Orsini e di noi tutti, quelle in bianco e nero di un Umberto trentacinquenne alle prese, per la prima volta, con spettri che il tempo gli ha reso sempre più familiari, con volti e ricordi di un’unica preziosa memoria.
La regia si è posta come compito quello di creare le condizioni propizie perché questo potesse darsi, eleggendo uno spazio significante a cui agganciare l’evocazione dei diversi sistemi di realtà in gioco, facendosi carico di trovare insieme all’attore la credibilità e il respiro d’un personaggio che è uscito dalla penna di Dostoevskij ma che di fatto assume qui i connotati in tutto nuovi di una reinvenzione, di un testimone parziale, disperso in un tribunale fantasma. Avevo bisogno del clima austero e del marcescente umidore della Russia provinciale del tardo Ottocento, come tratto distintivo e àmnios elettivo per l’esistenza stessa di questa storia. Senza quella Russia non ci sarebbe stato neanche Dostoevskij. Eppure, fra le tavole dirotte di uno scricchiolante spazio pubblico, parzialmente squassato dal meteorite del tempo trascorso, tra le rovine d’intere vite ammonticchiate e le scartoffie processuali d’istruttorie ormai metafische, dovevamo riconoscere i nuclei privati di una meschina e lugubre vicenda domestica. Le assi e gli anfratti degli antichi seggi si spaccano, dunque, e da essi filtra la luce livida dei ricordi personali, non ci sono più né giudici né uscieri, siamo di fronte ad un pezzo di mondo residuo, svuotato della sua originaria funzione, adibito ora soltanto al bivacco di un’anima in pena, che perdura in un girotondo giudiziario pauroso e grottesco, sempre meno reale, che inesorabilmente scivola nell’ultraterreno.
** Il testo qui pubblicato, con parziali modifiche, è incluso nel volume: Umberto Orsini – Luca Micheletti, Le memorie di Ivan Karamazov, CuePress, Imola, 2022, pp. 30-34.
Foto: Fabrizio Sansoni