IRA di Iosonouncane è sicuramente uno dei dischi di cui si è parlato di più negli ultimi tempi. Jacopo Incani (Buggerru, 1983) ha esordito nel 2010 come solista con un disco, La Macarena su Roma, che prestava il fianco all’equivoco di scambiarlo per un cantautore indie, uno dei vari cantautori con l’elettronica al posto della chitarra acustica che giravano per il nostro Paese in quegli anni. Un equivoco che il suo autore ha cercato di scrollarsi di dosso il più possibile con un secondo album (DIE, 2015) in cui le parole erano poche, ripetute, funzionali alle immagini che evocavano e in cui se di ispirazione cantautorale vogliamo parlare, sicuramente era rivolta agli autori più “musicali” della nostra tradizione, come Battiato e Battisti, che non a quelli celebrati soprattutto per la poesia dei loro testi. Un disco in cui erano soprattutto le idee musicali a farla da padrone, e che ha molto impressionato critica e pubblico.
Quest’anno, dopo un forzato spostamento in calendario causa Covid, è uscito IRA, che sin dalle sue premesse è un lavoro in cui la distanza con quell’equivoco di cui dicevamo è ancora più marcata: quasi due ore di musica, pezzi lunghi e dilatati, spesso scuri, a volte minimali e a volte violenti, cantati in una lingua “mista” fatta di parole in italiano, inglese, arabo, francese, spagnolo e tedesco, e di comprensione non immediata.
La critica ha gridato al miracolo in termini abbastanza unanimi, e noi ne abbiamo parlato con il suo autore, il concerto il 30 giugno al festival Ferrara Sotto le Stelle.
Anzitutto, come stai?
Bene, grazie. Abbiamo chiuso le prove ieri sera dopo parecchie settimane e adesso sono sulla riviera romagnola a prendere un po’ di iodio pre-tour.
Volevo partire dal fatto che i tuoi tre dischi sono molto diversi tra loro: tanto tempo, tanti cambiamenti. Mi interessava capire ogni volta che tipo di musica volevi fare, che tipo di artista volevi essere.
All’epoca del primo, i concerti che facevo rispecchiavano maggiormente l’idea di musica che avevo e sulla quale lavoravo rispetto al disco. La Macarena su Roma essendo il primo album che mi ritrovavo a fare in studio risente di certe immaturità, di certe ingenuità anche banalmente operative, e il risultato è un disco sbilanciato verso la componente testuale. Questa cosa mi pare avesse allora creato un fraintendimento divulgando un’immagine di me come di un cantautore, che semplicemente non si accompagnava con la chitarra ma più con i campionatori. In realtà io avevo un’idea molto differente, che emergeva durante i concerti e meno sul disco. Quel periodo era frutto di contingenze, dell’essermi ritrovato a suonare da solo dopo tantissimi anni con una band. Era un periodo molto all’arrembaggio, giocoforza. E il disco, ma anche i concerti di allora, risentono di questa situazione.
È stata una fase di attività live densissima, centinaia di concerti, con il disco scritto e registrato mentre andavo in tour. DIE invece è nato da presupposti opposti, da una fase di stop, di ritiro, di allontanamento. Avevo deciso che non avrei mai più fatto concerti in vita mia. Gli anni della Macarena erano stati davvero sfibranti e DIE aveva questo presupposto: volevo fare un disco a prescindere dalla sua eseguibilità dal vivo, semplicemente mettendoci le idee musicali che in quel momento sentivo di avere. Veramente una roba opposta a quella che aveva generato la Macarena su Roma.
Già lì c’era un forte cambiamento dal punto di vista testuale, il testo era quasi al servizio del suono.
Sì, esatto. In realtà sarebbe dovuto esserlo già prima, anche nella Macarena i testi andavano di pari passo con la ricerca dei suoni, con la presenza di tante voci campionate che interagivano con la voce principale… Io ho sempre avuto l’idea di parole calate in un contesto musicale, non al di sopra di un contesto musicale. Questa cosa è diventata evidente in DIE: quando ci lavoravo ho voluto spingere sull’acceleratore, calcare la mano rispetto a quello che avevo già fatto. Mi rendevo conto che stavo facendo qualcosa di ben diverso, che si muoveva in una direzione opposta. Abbandonavo dei testi verbosi, molto lunghi, narrativi, prosaici, a favore di una scrittura che si muoveva per immagini. Pochissime parole reiterate a costruire e modellare delle immagini. Probabilmente la spinta a fare un lavoro di questo tipo arrivava, anche al di là delle ragioni artistiche e poetiche, dalla volontà di riaffermare una verità sulla mia natura di musicista.
Poi con IRA c’è stato un salto ulteriore.
Ho iniziato a lavorarci subito dopo il tour di DIE, parecchie date con la band.
Anche se era un disco che pensavi che non avresti portato in giro.
È buffo, esatto. Tutto il tour della Macarena su Roma, 250 o 300 concerti, l’ho fatto spostandomi da solo in treno, sempre. Per buona parte del tour lavorando anche parallelamente in un call center. Sono stati anni di esasperazione, e non volevo più fare concerti, solo dischi. Questa cosa poi mi ha presentato il conto. Non mi bastava. E poi l’economia non era sostenibile: è sostenibile solo se dai dischi tiri fuori soldi a sufficienza per poterti dedicare a fare solo dischi, e quello ovviamente non era il mio caso. Dopo essere stato un anno in Sardegna ho deciso di tornare a Bologna, e quando è uscito DIE ho messo come condizione con le persone con cui ho sempre lavorato e tuttora lavoro «ok, facciamo il tour però io non voglio più spostarmi in treno e da solo; la condizione che pongo è che ci spostiamo in macchina o come volete ma con un fonico che mi segua e che lavori sui suoni insieme a me». Ho messo delle condizioni che avevano a che fare con la qualità della mia vita, innanzitutto. Fortunatamente il tour di DIE è partito in sordina ma poi è cresciuto abbastanza rapidamente, e questo ha permesso di girare con una band. Perché le persone giustamente bisogna pagarle, puoi permetterti di girare in cinque su un palco con tutti i tecnici necessari al seguito quando l’economia del progetto lo consente. Banalmente è cambiato questo, si sono create le condizioni per fare un tour che non fosse spartano come quello della Macarena.
E dicevamo che IRA nasce dopo quei live, e già con l’idea di un disco da portare dal vivo.
Nella nascita di IRA ha giocato molto il fatto che in tour con la band mi sia ritrovato a fare i live divertendomi tanto. Dopo anni di autarchia forzata e solitudine, ritrovarmi a girare con altre sette o otto persone con le quali mi trovo benissimo artisticamente e umanamente è stato entusiasmante: non viene meno la componente di fatica inevitabile di un tour, ma è come se fosse una grande gita scolastica costante, se hai la fortuna di trovare persone con le quali stai bene. Quello mi ha riappacificato con l’aspetto dei live, e mi ha fatto voler continuare a lavorare con quei musicisti. Da lì poi l’idea di allargare la band per ampliare tutta la parte corale del canto, integrando la voce di Serena (Locci, nda) con quella di altre due musiciste, l’idea di far cantare anche tutti gli altri musicisti, quindi di cantare in sette. Quest’idea strutturale crea poi degli spazi di fantasia che ti permettono di tirar fuori idee musicali che fino a quel momento non avevi esplorato.
Mi interessa molto il lavoro fatto sul linguaggio, l’abbandono dell’italiano in favore di una lingua mista. Tutte le parole hanno un significato preciso o sono al servizio del loro suono?
Le parole hanno tutte un significato blindato, non c’è nulla che non sia dove debba essere per dire determinate cose. Allo stesso tempo però il processo del canto determina delle crasi, delle storpiature, e alcune parole finiscono per sembrare unicamente suono. Nel mio modo di scrivere non esiste che la melodia venga deturpata a favore del significato delle parole, quindi è un lavoro lungo quello di far convivere le due cose. Io scrivo le melodie a monte, con esse inizio subito ad appuntare delle idee sui testi, sul suono della voce, sul suono delle parole. Scrivere i testi poi significa fare un lavoro preciso per ricomporre quel puzzle di suoni e significati sulla base della struttura delle melodie. Non sacrifico nulla dell’aspetto musicale ma non sacrifico nulla del significato. Quindi è un lavoro impegnativo.
Rischia però di venir meno l’immediatezza per l’ascoltatore, rispetto a un testo in italiano. Ma probabilmente non è un problema che ti poni.
Non credo nell’immediatezza. Quando è uscito DIE c’era la fila di persone che mi hanno rotto i coglioni dicendomi che le parole non si capivano perché la voce era bassa. In realtà è stato sufficiente che il lavoro decantasse per far sì che affermasse quello che aveva da dire. Nel caso specifico di IRA la rinuncia a quel tipo di immediatezza, «una cosa viene detta e io la capisco», è voluta, ed è il contenuto stesso del disco. O meglio uno dei contenuti, una delle chiavi di lettura. Anche perché non è un testo scritto e basta, non è Finnegans Wake: lo leggi, non capisci, e fine. Qui le parole stanno in una musica, che porta dei significati, delle suggestioni emotive che secondo me comunque sono molto chiare, non sono brani fraintendibili nella loro suggestione di massima. A nessuno verrebbe mai in mente che si tratta di un disco che parla di relazioni amorose adolescenziali ambientate sulla riviera romagnola. Questo è fondamentale: le parole non sono da sole, sono calate in un contesto timbrico e sonoro, musicale, ritmico, che di per sé porta una suggestione. La sensazione di «sto ascoltando un interlocutore che sta cercando di dirmi qualcosa, si sta sforzando per farlo utilizzando i mezzi e il lessico di cui dispone, ma io sto facendo veramente fatica a capire tutto quello che mi sta dicendo per quanto io conosca quelle due parole di spagnolo o quelle due parole di inglese che mi permettono di costruire un quadro di massima» è la lettura più corretta di questo disco. La mia volontà era proprio quella di creare un lavoro che fosse stratificato, la lettura dell’incomprensione quasi totale è filologicamente compiutissima. Poi c’è quella successiva, che è andare a cercarsi i testi e provare a tradurli, e in tanti lo stanno facendo, e quello è un ulteriore livello di comprensione. Riuscire a tradurli completamente è l’ultimo livello di comprensione: a quello stadio di immersione nel lavoro si capisce che ogni parola è dove deve essere e ogni passaggio del disco dice una cosa ben precisa.
Detto tutto ciò non credo nell’immediatezza come valore. L’immediatezza è un valore commerciale, non è un valore artistico, dobbiamo probabilmente iniziare a renderci conto che andiamo molto spesso incontro a questo fraintendimento. Il valore dell’immediatezza, dell’immediata fruibilità, comprensibilità, riproducibilità dell’opera è un valore di mercato, non un valore artistico. A me i valori di mercato non interessano nel momento in cui sto facendo un disco.
Hai citato Finnegans Wake. Era un riferimento quel tipo di lavoro sul linguaggio quando hai pensato di usare parole di lingue diverse, strutture di linguaggi misti?
No, nel senso che quella è un’opera totale, chirurgica, scientifica, tutte caratteristiche che il mio lavoro non ha. Siamo veramente in due galassie molto diverse, non mi azzardo a dire una cosa del genere. Quello che posso dire è che quando approccio il lavoro a un disco lo faccio per tanti anni, quindi il risultato è la sintesi di un processo di ricerca e di studio, una ricerca di fonti che mi siano familiari in quel momento, in cui riesca a ritrovare i testi che sto definendo, è una cosa che ho sempre fatto. Quando scrivevo la Macarena leggevo tantissima narrativa distopica, Ballard, Saramago. Poggiavo sulle spalle dei giganti. Quando ho scritto DIE mi ritrovavo a scrivere in una maniera lontanissima rispetto a quello che avevo scritto precedentemente, per cui mi sono ritrovato a sentirmi un po’ in alto mare, senza riferimenti. Non ero neanche a tratti capace di capire se fosse il caso di scrivere in quel modo lì, se una scrittura così essenziale potesse reggere la durata di un disco. Cercando fra coloro che avevano scritto ben prima di me e ben meglio mi sono imbattuto in una serie di testi che mi hanno consolato e fornito delle chiavi di lettura su quello che stavo facendo. Su tutti direi La terra e la morte di Pavese.
Nel caso di IRA, quando ho iniziato a lavorare ai testi, a prendere appunti, avevo l’idea di questo multilinguismo, di questo utilizzo molto grezzo e molto essenziale, contingente, di tante lingue e di un lessico sradicato. Sono andato alla ricerca di lavori che fossero esattamente così, ma non ne ho trovati. Sicuramente ci saranno, sono io che non li ho trovati. I testi più vicini per quanto riguarda la forma e la suggestione sono stati Finnegans Wake e The Waste Land di Eliot. The Waste Land l’ho letto dieci volte, forse anche quindici. Sottolineando, prendendo appunti, e ci sono tutta una serie di passaggi spaventosamente suggestivi che mi restituivano delle sensazioni che io avevo nel momento in cui lavoravo ai testi. Finnegans Wake è stata più un’ammirazione da lontanissimo, perché è un’opera enorme, non ho neanche gli strumenti intellettuali per comprenderla davvero, chi si occupa di studiare Finnegans Wake di solito gli dedica tutta la vita, quindi parlarne come di un’influenza sarebbe ridicolo. È un’opera di cui ho letto e riletto alcune parti, neanche tutto, perché è sfiancante, arrivi alla fine della prima pagina e ti sembra di avere attraversato una folla… È stata una lettura consolante ma anche disarmante.
Quali sono invece le ispirazioni dal punto di vista musicale dell’album? Ho visto che in molti hanno ritrovato alcune cose della Italian occult psychedelia e mi chiedevo se fosse un movimento che avevi seguito.
L’Italian occult psychedelia è un movimento che in realtà non conosco bene, non ho mai approfondito, ma ci sono dei progetti che ne hanno fatto parte che mi piacciono. I Father Murphy credo fossero inclusi e sono stati per me un gruppo straordinario, tra i più grandi gruppi italiani.
Probabilmente questa associazione tra IRA e quella scena è sensata perché le radici e le influenze possono essere le stesse: io sono un fanatico della psichedelia anni Sessanta e in particolar modo di quella più scura, quella texana, i Red Crayola su tutti. Probabilmente quel tipo di psichedelia è un’influenza per tutti quelli che fanno qualcosa di scuro, di dilatato, di ipnotico.
Per il resto IRA è una sintesi contingente dei miei ascolti che sono molto vari, e ora che ho quarant’anni sono iper stratificati, e vanno da Wyatt fino alla techno, passando per gli Swans, per il jazz, per i Liars, per la psichedelia… Negli ultimi anni ho ascoltato tantissima musica del Maghreb. Una cosa che mi ha fatto sorridere è che leggendo le recensioni o commenti o dibattiti le persone trovano tante influenze, disparate, anche alcune che in realtà non conosco: ho visto citato tante volte Scott Walker e io non ho mai ascoltato un suo disco. O i Dead Can Dance e io ti giuro ho ascoltato, entusiasmandomi, per la prima volta nella mia vita i Dead Can Dance tre mesi fa. Questa cosa è molto divertente. A volte ci si arriva lateralmente, ascoltando persone che magari a loro volta erano state influenzate da questi. Io per esempio adoro i Liars, e secondo me i Liars qualche ora ai Dead Can Dance gliel’hanno dedicata nella loro vita.
Come anche ai This Heat.
Che sono un’altra band che io adoro, e che ascolto da dieci anni. Quindi è possibile che i Dead Can Dance mi siano arrivati setacciati e filtrati dai Liars o da qualche altra parte. È una cosa bella della musica questa.
Una curiosità che avevo già da tempo è se quello che poi è uscito è lo stesso disco che doveva uscire prima della pandemia e che poi è stato rimandato, o se nel frattempo ci hai rimesso mano.
No, è lo stesso disco. Non ci ho rimesso mano. Ho avuto l’estate scorsa l’idea di completare un brano che era rimasto aperto dalle sessioni di IRA per inserirlo in corsa, esattamente un anno fa. Però il disco l’avevo già chiuso e mi son reso conto immediatamente che non avevo più proprio la trance agonistica per rimettere mano a un pezzo. Anche perché la maniera in cui ho fatto questo disco implica tanto lavoro: aggiungere un pezzo significava strutturarlo, arrangiarlo, fare un provino con tutte le parti di ogni musicista, inoltrare a ogni musicista le parti, convocare tutti e sette i musicisti in studio per registrare, mixare, scrivere il testo, registrare le voci… Non avevo davvero più la spinta necessaria, quindi ho detto basta, IRA è questo. Però è rimasto fuori del materiale, in alcuni casi anche a uno stadio molto avanzato.
Il disco è uscito da un po’ di tempo ormai, e hai avuto modo di vedere anche come è stato accolto. Che effetto ti ha fatto? Ho visto dalla critica lodi sperticate.
So che bisogna prendere sempre con le pinze sia i complimenti che le critiche, detto ciò non sono uno che si guarda allo specchio e dice «wow come sei grande». Mi fa ovviamente molto piacere, però in realtà io sto già pensando a quello che voglio fare dopo. Quello che mi ha fatto molto piacere è vedere che il disco ha generato tutta una serie di dibattiti prettamente musicali, che è molto raro riscontrare soprattutto nella barbara dinamica dei social, questa cosa mi ha fatto molto piacere. Però sono cose su cui non mi piace soffermarmi, sia per indole caratteriale ma soprattutto perché credo che non sia neanche sano farlo.
Hai voglia di ritornare sul palco, portando questo disco pensato per il live? Peraltro ci saranno due tipi di live diversi, giusto?
Sì: quello che era previsto un anno fa, l’esecuzione integrale del disco con la band al completo, lo faremo l’anno prossimo. Quello di quest’estate sarà un set differente in cui ci saranno alcuni brani di IRA e alcuni brani precedenti, ma anche materiale nuovo. Sul palco saremo in tre: tre postazioni elettroniche, che però non significa Ableton e una periferica. Ognuno di noi ha parecchi synth, parecchie macchine, organo, drum machine, campionatori… Ed è un live molto potente, abbiamo chiuso le prove ieri sera e sono davvero entusiasta.