Se è vero che i mondi virtuali coesistono con quello fattuale e sono contesti esperienziali generati da computer che molti di noi visitano quotidianamente, è anche vero che lo frammentano e lo complicano, disarticolando anche il nostro giudizio relativo a chi siamo, come operiamo su noi stessi e instauriamo relazioni con gli altri.
Stefano Gualeni, filosofo e game designer, ordinario all’Institute of Digital Games dell’Università di Malta, dà conto del portato di questa virtualità, provando a ridefinire lo statuto di un genere considerato oramai come parte, a buon diritto, di quella produzione creativa volta all’intrattenimento; ma anche a convincerci che il giocare sia una pratica espressiva e fondante per la creazione, l’espressione e la trasformazione del sé.
Con poche eccezioni, tra cui Udo. Guida ai Videogiochi nell’Antropocene (Sido, 2023) di Matteo Lupetti, gran parte dell’offerta bibliografica in lingua italiana che parla di cultura digitale e di mondi videoludici tende ad avere un punto di vista polarizzato: entusiasta e ludo-ottimista oppure apocalittico. È possibile andare oltre questa dinamica? E soprattutto si può pensare filosoficamente attraverso i videogiochi? Il saggio Il videogioco del mondo. Istruzioni per l’uso, edito da Time0, (ci) risponde affermativamente e, ponendosi a cavallo tra la filosofia e i games studies, ibrida prospettive filosofiche (filosofia dei media, filosofia della tecnica, filosofia esistenzialista, filosofia del gioco) con il game design e lo studio accademico del gioco. Al netto dell’evidenza che la tecnologia corre più veloce delle stesse categorie apprese per fissarne i meccanismi, il libro di Gualeni rivela come la separazione tra soggetto virtuale e soggetto giocante sia flessibile e porosa, e concorre, in maniera riuscita, a farci scoprire come il gioco possa essere visto al pari di una pratica esistenziale nella formazione e l’esplorazione del sé.
Per Limina, ne abbiamo parlato con l’autore.

Se il videogioco è necessariamente virtuale, pensi che tutto il mondo virtuale possa essere – in potenza – un videogioco? E quali sono, se ce se sono, i confini tra i due?
Credo sia importante premettere che quando parlo di simulazioni digitali faccio riferimento a tecnologie in grado di generare e darci accesso all’esperienza multimodale e dinamica di spazi artificiali. All’interno di questi spazi, viene data agli utenti la possibilità di muoversi, agire, pianificare, costruire, distruggere… Possiamo in qualche modo abitarli, insomma, che significa porci in relazione ad essi in maniera duratura e significativa. I rapporti e le relazioni che stabiliamo con ambienti virtuali sono per certi versi simili a quelli che abbiamo con il mondo reale (quello che condividiamo come creature biologiche, per capirci). I mondi che incontriamo attraverso i computer sono certamente più semplici e ripetitivi rispetto a quello che ci circonda fattualmente, ma hanno comunque le caratteristiche di mondi: sono persistenti, interattivi, coerenti, e via discorrendo. Il fatto che ambienti virtuali possano essere esperiti come mondi è un’idea condivisa dalle prospettive accademiche che si occupano di simulazione e di gioco digitale. La posizione che sostengo in particolare – e che trovate espressa nel mio libro – è “agnostica” dal punto di vista tecnologico: per accedere a questi mondi non dobbiamo necessariamente indossare un caschetto di realtà virtuale. Lo possiamo fare su schermo, immaginandoci di abitarlo attraverso il corpo (vicario, virtuale) del nostro personaggio giocante. Alla domanda su quali siano, allora, le differenze tra un mondo virtuale e un mondo di gioco, risponderei: sono poche e da ricercare soprattutto nelle intenzioni sulla base dei quali questi sono stati realizzati. I mondi virtuali dei videogiochi sono tecnologie progettate per sostenere attività giocose legate all’immaginazione e al divertimento. Altri mondi virtuali hanno invece altri scopi, ad esempio la ricostruzione archeologica, l’addestramento di piloti d’aereo o di formula uno, la pratica per aspiranti chirurghi e via discorrendo. Certo, nulla vieta all’utente di porsi giocosamente nei confronti di un simulatore per l’addestramento o – specularmente – di trattare un videogioco con estrema serietà (pensate al caso dei giocatori professionisti o all’uso educativo di piattaforme come Minecraft). Insomma, possiamo giocare con tutti i mondi virtuali, ma solo alcuni di essi sono stati realizzati originariamente per essere trattati come videogiochi.
Nel tuo libro sostieni che la tecnologia abbia «reso obsoleti i modi che avevamo di comprendere e maneggiare idee come quelle di privacy, autenticità e di identità individuale». Proprio per sostenere l’inadeguatezza di schemi di pensiero obsoleti in rapporto al reale sollevi la questione della responsabilità morale, facendo riferimento alle tesi di Günther Anders a proposito dell’uso della bomba atomica, ma non troppo indirettamente anche a Hannah Arendt. Non ti sembra insidioso?
Secondo alcuni, tra cui gli esponenti dell’antropologia filosofica, la nostra è una specie che supplisce alle proprie mancanze creando artefatti e tecnologie. Paradossalmente, come creature con un atteggiamento innatamente tecnologico, tendiamo ad avere una visione piuttosto limitata sugli effetti delle nostre invenzioni. Certo, siamo in grado di prevedere e controllare la maggioranza degli effetti funzionali delle tecnologie di cui ci circondiamo, ma non il significato sociale che queste avranno sul lungo periodo, né come queste trasformeranno noi stessi, le relazioni con gli altri e il nostro modo di stare al mondo. Pensate solo a come è cambiato negli ultimi trent’anni il nostro modo di intendere concetti come quello di comunità o amicizia, o a come il nostro rapporto con i media abbia trasformato cosa si intenda con la parola “lavoro”. Una volta diffusi e radicati socialmente, i nostri artefatti tecnologici non si comportano quindi come strumenti “neutri”. Non sono, in altre parole, marchingegni quietamente asserviti a nostri fini utilitaristici. Che ci piaccia o meno, questi modificano il contesto socio-tecnico in cui sono inseriti in modo spesso sottile e difficile da anticipare. A lungo andare, ciò ha un effetto trasformativo sullo stare al mondo degli utenti – sia come individui che a livello sociale. Secondo Günther Anders la difficoltà nel comprendere gli effetti impliciti e a lungo termine dei nostri artefatti tecnologici cresce con il tempo e con il loro complicarsi. Dal proliferare e diventare progressivamente meno trasparente della tecnologia consegue che l’essere umano si trova ad essere sempre meno capace di predirne e controllarne effetti e significati sociali. Stando ad Anders, il progresso tecnologico – sebbene ci renda più abili, efficienti e capaci in una varietà di contesti – è anche la causa del nostro sentirci progressivamente e vergognosamente inetti e “obsolescenti”. Ne Il Videogioco del Mondo è possibile scorgere questo rapporto ambiguo con la tecnologia in almeno altri due punti: nel secondo capitolo, quando si parla della “scrittura” (una tecnologia “alfa”) come di un Pharmakon ovvero come di qualcosa che è al tempo stesso una cura e una minaccia, un veleno, e quando – nel primo capitolo – si prendono in prestito le parole di Marshall McLuhan nel riconoscere come ad ogni forma di “estensione tecnologica delle nostre capacità” corrisponda un intorpidirsi di altre nostre funzioni e sensibilità. Certo, ciò può costituire una potenziale minaccia alla nostra salute psico-fisica, alla tenuta delle nostre strutture sociali, ed alla nostra sopravvivenza come specie. Il nostro rapporto con la tecnologia non è tutto rose e fiori, ecco. Come filosofi della tecnica e studiosi dei media cerchiamo di tenere il passo, di sviluppare nuovi strumenti per capire e adattarci a contesti socio-tecnici nuovi, dinamici e certamente insidiosi. Non aspiriamo a far ciò da un punto di vista sterilmente concettuale o lessicale, ma anche – se non soprattutto – aiutando a sviluppare prospettive etiche e legislative che ci aiutino ad orientarci in un mondo sempre più difficile da navigare.

Il videogioco, come più in generale la virtualità, dà l’idea di declinare la dimensione corporea del soggetto. Vuoi descriverci in che misura il corpo giocante ha un peso e un volume, un’umanità?
Spero di non rovinare una domanda così buona con una brutta risposta… Brutta perché, in risposta, sono già stati scritti parecchi libri tra cui forse il più saliente è un recente testo di Brendan Keogh intitolato proprio A Play of Bodies (ovvero Un Gioco di Corpi / Un Gioco tra Corpi). Esistono poi altri testi che si occupano della relazione tra corpo giocante (fuori dal mondo di gioco) e corpo giocato (all’interno di mondi interattivi di finzione), e fanno leva su prospettive legate al femminismo e alla teoria queer, faccio riferimento, inter alia, al testo del 2015 di Adrienne Shaw Sexuality and Gender at the Edges of Game Culture. Consiglio ai lettori interessati a questi argomenti e che hanno familiarità con l’inglese, di affrettarsi a recuperare quei testi. Per quanto riguarda il mio di libro, più che a temi legati alla corporeità e all’immersione nei mondi virtuali (o meglio ancora all’‘incorporazione’ all’interno di essi, come direbbe Gordon Calleja), Il Videogioco del Mondo si concentra sull’idea di soggettività all’interno dei gameworlds, ovvero al fatto che grazie a queste tecnologie si possano sviluppare una varietà di soggettività all’interno di mondi di finzione interattivi. Il tema della frammentazione del sé e della moltiplicazione dei punti di vista non è affatto slegato alla corporeità e all’incorporazione, tutt’altro… Per motivi pratici (tra cui seguire una precisa traccia tematica, non sovraccaricare il testo, e tenere il volume di una dimensione compatibile agli altri della stessa collana), ho deciso di non concentrarmi sul come agiamo fisicamente sul gioco e su come le nostre azioni corporee si traducano in atti ludici. L’idea che possiamo abitare al tempo stesso due punti di vista esperienziali – una soggettività da giocatore e una da personaggio videoludico – credo sia già non banale per il largo pubblico. Per parlare degli aspetti trasformativi e degli usi filosofici di questo sdoppiamento parlo di questi due punti di vista come comunicanti, come divisi da una membrana porosa e flessibile. Chi siamo dentro e fuori dal gioco non sono soggettività separate da paratie a tenuta stagna, in altre parole. Il mio libro si concentra appunto su come una influenzi l’altra e viceversa, e questi sono – lo ripeto – fenomeni legati indissolubilmente all’idea che non smettiamo comunque mai di abitare un corpo fisico.
La letteratura di consumo e quella di intrattenimento sembrano aver sfondato il muro del canone, mentre i videogiochi continuano a restare confinati in una nicchia. Qual è secondo te la demarcazione tra un’opera di intrattenimento e un videogioco? Nel tuo libro parli di “alfabetizzazione” al gioco?
Esistono centri di ricerca, come quelli per cui lavoro, che trattano il gioco e il videogioco come forme culturali degne di attenzione accademica e oggetto di profondo studio umanistico da oltre vent’anni. Esistono anche opere videoludiche osannate dalla critica per il loro essere profonde e disturbanti. Giusto per citare un paio di esempi recenti, farei riferimento a This War of Mine, Norco, The Last of Us Part II, di cui ho già parlato altrove. Poiché in effetti vivo in una bolla d’interesse accademico verso il medium e di passione per titoli come quelli citati qui sopra (e alla loro relazione con il pubblico e con una rete economica che è ormai da molti anni la più grande ‘culture industry’ sul pianeta), mi devo essere convinto che fosse già cosa assodata che il gioco e il giocare fossero elementi centrali della cultura contemporanea e che il loro valore espressivo ed i loro effetti culturali fossero già evidenti per tutti quanti. La tua domanda mi riporta invece con i piedi per terra, mi ricorda che ci sono fasce della popolazione che hanno altre preferenze in termini di media o che sono rimaste legate ad una “screen culture” diversa dalla mia. Per provare a rispondere brevemente, inizio col dire che né io personalmente né il campo di ricerca accademica in cui opero riconosciamo grosse differenze tra forme espressive interattive e invece opere di intrattenimento classiche (salvo, appunto, aspetti formali legati all’interazione e alla scelta, che comunque caratterizzano anche certi usi di forme classiche di opere di finzione). Dal mio punto di vista si tratta in entrambi i casi di modi di fare cultura, di parlare del proprio tempo e di esprimere se stessi, il proprio disagio e le proprie aspirazioni. Come per il testo o i media audiovisivi, una parte sostanziosa dei videogiochi prodotti nella e dalla cultura occidentale sono votati all’intrattenimento. A lato di questi prodotti per lo svago esistono anche giochi didattici, giochi documentaristici, giochi educativi. Esistono persino giochi realizzati come forme di produzione di nuova conoscenza (come nel caso dei titoli filosofici brevi e gratuiti di cui parlo nel libro, come Zuppa o qualcosa come la Zuppa o Il Gioco delle Porte). Continuare a pensare al videogioco come appannaggio di una ristretta cerchia di bambini mai cresciuti è tra l’altro del tutto in linea con quello che sostengo nel libro. Mi spiego meglio: creare e giocare in mondi virtuali richiede capacità tecniche che sono comuni tra i miei coscritti, ma che non lo sono per le generazioni precedenti alla mia. È comprensibile che si guardi con sospetto a forme espressive con cui non si ha familiarità. Si tratta soprattutto di un problema generazionale: parte della popolazione non è cresciuta con i computer e non è alfabetizzata rispetto al linguaggio specifico del videogioco. È una forma di incomprensione e resistenza che si risolverà con il passare del tempo: c’è già chi sostiene che il ventunesimo sarà un secolo ludico.
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Riferimenti ludografici:
Minecraft (2011), sviluppato da Mojang Studios e pubblicato da Mojang Studios (multipiattaforma).
This War of Mine (2014), sviluppato da 11 bit Studios e pubblicato da 11 bit Studios (multipiattaforma).
Norco (2022), sviluppato da Geography of Roboys e pubblicato da Raw Fury (multipiattaforma).
The Last of Us Part II (2020), sviluppato da Naughty Dog e pubblicato da Sony Interactive Entertainment (PlayStation 4, PlayStation 5)
Something Something Soup Something (2017), sviluppato da Stefano Gualeni, Jonathon Harrington ed altri (giocabile online a: https://soup.gua-le-ni.com/)
Doors: the Game (2021), sviluppato da Stefano Gualeni, Nele Van de Mosselaer ed altri (giocabile online a: https://doors.gua-le-ni.com/)