Search
Close this search box.

Il mondo visto dalle canzoni di Sanremo



La classifica è la parte meno interessante del festival di Sanremo. Quello che va osservato con attenzione, per intercettarne le affinità con il presente, sono i testi delle canzoni, tutti quei micromovimenti lessicali che si celano dietro le melodie e gli arrangiamenti. Se osservassimo il paese dalle canzoni del Festivàl che ritratto ne uscirebbe? Se ci osservassimo dall’Ariston, quella musica cosa direbbe di noi? Siamo cambiati? È cambiato il nostro modo di parlare d’amore? Facciamo sesso sempre nello stesso modo o ognuno come gli va? Abbiamo capito come fare quando ci scappa la rabbia! Canzoni, ditecelo voi: cosa siamo diventati? Cosa ne sarà di noi?

Sanremo2023
Meme del profilo Instagram @sapore.di.male

Partendo dal presupposto che la qualità dei testi in gara è quest’anno oggettivamente mediocre, è possibile constatare con una certa chiarezza che anche la musica e le canzonette – che poi canzonette non sono mai, perché pesano come piombo e catalizzano l’attenzione di un intero Paese – stiano subendo sempre più spesso il fascino di quella cosa che in letteratura chiamiamo autofiction e che molti ancora snobbano. Oggi il mondo sembra imprendibile e inosservabile se non dalla propria minuscola e personalissima prospettiva. Molti tacciano il genere di ombelicalità e ipertrofia, ma è un giudizio spiccio e immeritato che non considera il potenziale narrativo della parola io, che altro non è che un frammento di mondo, un sottilissimo spiraglio da cui osservare l’altrove e il circostante. Non a caso, J.M. Coetzee, premio Nobel per la letteratura, ha scritto più volte che quella che chiamiamo autobiografia è anche un’autrebiografia, una biografia dell’altro da noi. Non che questa cosa valga per tutte le canzoni in gara a questo Sanremo, anzi. Però è interessante notare come ormai i confini tra generi testuali si facciano giustamente sempre più labili e scivolosi, nella forma romanzo come nella forma canzone. Quasi tutti i brani del festival sono infatti autobiografici, almeno parzialmente. E così anche quelli che passano in radio o al Premio Tenco, a Musicultura e nelle piazze. Al netto del filtro autobiografico, le canzoni di questo Sanremo 2023 girano intorno a pochi temi: l’amore, come sempre, perché alla fine, dài – per dirla à la Brunori –, di che altro vuoi parlare?; le fragilità della mente, la voglia di rinascere o, almeno, di muovere i fianchi. Pochi, pochissimi i tentativi di fare un salto in quel terreno spaventoso che è il sentimento collettivo. Invece, sì, di amore ce n’è tanto, tantissimo, ma è un amore sempre infelice, sull’orlo della fine e della malinconia, un amore che di fatto non esiste più, consumato e consunto, a volte già dimenticato o solo sbocconcellato e subito abbandonato. Vien da sé chiedersi se non ci sia più spazio per gli amori felici nei nostri racconti o se si tratta sempre della vecchia storia per cui quando siamo contenti e sazi usciamo mentre solo quando siamo disperati scriviamo. Come sempre, la politica mette becco sulle canzoni e si infiamma e si indigna, ma l’oggetto dell’indignazione negli anni cambi: oggi, almeno in apparenza, non ci si indigna più per gli amori saffici o per la parola puttana, che invece fino a quattro anni fa avrebbe tappato le vene al Moige e compagnia cantante. Ci si indigna ancora per la libertà sessuale, invece. Quella sì, quella ancora destabilizza e fa arrabbiare moralisti e benpensanti. Una bella conferma, l’ennesima, di come questo nostro Paese sia ancora molto ancorato al triumvirato Dio, patria e famiglia. Si diceva poco fa che i testi di quest’anno brillano per mediocrità e sciatteria, eppure trovo inspiegabile che siano generati da squadre di almeno sei, sette autori. Sei, sette autori per confezionare testi come questi, che un autore capace siglerebbe con una mano sola. 

Ma c’è una cosa che proprio è impossibile non notare e su cui forse dovremmo fermarci tutti a riflettere. La rincorsa al meme divertente ci sta un po’ rovinando, o almeno ci sta abituando al brutto e disabituando all’ascolto critico. La ricerca della boutade è di fatto più sexy delle canzoni, il meme è più attraente di qualsiasi storia, di qualsiasi voce. È proprio una questione epidermica, un fatto di pruriti e di istinti primitivi. Se c’è una cosa anomala, diversa, anche solo un po’ più complessa, più obliqua allora arriva prima il meme, e il meme su quella cosa, per quanto bella possa essere, mette le radici, si sedimenta e la copre, facendola cadere in un oblio oscuro e ingiusto. Il meme è tutto ciò che rimane, è il fossile, la maledizione. Basta un secondo a offuscare tutta una carriera, un’idea, un guizzo, un miracolo. Un famoso scrittore italiano, qualche giorno fa ha scritto su Twitter che l’ironia ha proprio rotto il c. Ecco. 

Ora siccome abbiamo parlato di canzoni, eccole una per una, per come le abbiamo viste, per come le abbiamo vissute, per come ne abbiamo letti i testi.

Anna Oxa, Sali (Canto dell’anima)
Oxa torna in gara ancora una volta nuova e rinnovata, completamente adesa a se stessa e al suo percorso. Come spesso negli ultimi anni, canta il risveglio dell’anima, invita a guardarci dentro e intorno per accendere lo spirito e vivere in modo consapevole. La sua Sali è un canto laico di resurrezione, il precipitato di un momento dell’essere, per dirlo con Woolf. Non si tratta della sua canzone più riuscita, ma è un bel brano, assolutamente antisanremese. Una canzone che rende il suono parola, sillaba e idioma del mondo. In un festival che, su tutto, predilige il racconto – spesso banale e mimetico – delle relazioni affettive, il testo di Oxa sposta lo sguardo verso lo psoas e lo zenit. E così lei vola, vola proprio in alto, libera di essere chi vuole, di slegare la sua voce da qualsiasi altro pensiero. Libera e consapevole di esistere, di esserci davvero, su un palcoscenico e nella vita, vicina a se stessa e agli altri. Libera di essere la donna e l’artista controversa che è. L’antipatica e la bella. La diva e la sciamana. 

Ariete, Mare di guai
Ariete canta un testo di Calcutta, che è proprio un testo di Calcutta. Ci sono i lividi di un amore appena terminato, i piatti da lavare e la gente per le strade, che vive anche se a noi ci sembra di morire. Ci sono le paure, gli orgasmi al mattino, i guai, la luna e i cuscini. Malaccio non è, ma sembra la canzone di un altro, la più bruttina tra le canzoni di un altro, il b-side, la traccia che salti, quella che dimentichi. Lei è tenerissima, un po’ Scaramacai e un po’ Gian Burrasca di Vamba, e quasi dispiacciono tutte le stecche e le note fuori fuoco. Gliele perdoniamo. Quello che non le perdoniamo è l’aver trasformato Centro di gravità permanente in una canzone da Balera dell’Ortica. Non lo è e non deve esserlo, non su quel palco almeno, non davanti a tutta quella gente. Suvvia. 

Articolo 31, Un bel viaggio
J Ax e DJ Jad firmano il loro memoir in musica e lo intitolano Un bel viaggio: che originale!
Ripercorrono tutta la loro storia, dai quartieri velenosi di Garbagnate ai dischi di platino, dall’eternit all’oro, e poi ancora dai fasti al dimenticatoio, dalla stima al suo contrario. Fino a ritrovarsi ancora, amici come prima direbbero Paola e Chiara, anche se a casa c’è la family che aspetta. Sì, dicono proprio così, family, e un po’ vengono i brividi a pensarci, ma non è l’emozione né la Sindrome di Stendhal. È proprio un po’ il senso dell’imbarazzo. Nonostante tutto, il brano passa e va (per fortuna). Sono cambiati i tempi, signora mia. Non esistono più le mezze stagioni, né le differenze tra Max Pezzali e gli Articolo 31.

Colapesce e Dimartino, Splash
Splash è la canzone più bella di questo festival. Ed è la più bella perché è una delle poche, pochissime, ad avere un’idea di partenza. È il brano che, se torniamo alle domande iniziali, più di tutti fotografa l’oggi e la sua umanità. Lavoriamo per non amare e lavoriamo tantissimo, in continuazione, nei giorni festivi e anche al mare, perché vogliamo fuggire da qualcosa: dalle aspettative e da noi stessi, dal casino dei sentimenti e dall’amore. Splash fa ben sperare per la musica che verrà, fa credere che, sì, è ancora possibile scrivere testi di senso compiuto accompagnati da arrangiamenti di senso compiuto. Insomma, qui c’è qualcosa di assolutamente contemporaneo eppure senza tempo, c’è un po’ di Enzo Carella e un po’ di Battisti, c’è Tenco che canta Mi sono innamorato di te perché non avevo niente da fare e Celentano che già nel ’71 cantava di quanto sia impossibile coniugare l’amore al lavoro, l’immaginazione al capitale. C’è anche un po’ di Piero Ciampi al decimo ascolto e perfino una citazione a Dino Campana: fabbricare fabbricare fabbricare/preferisco il rumore del mare. Ed è bello che Colapesce e Dimartino abbiano fatto un festival così cilestrino. Malinconico e bellissimo.
Nota a parte per la loro cover di Azzurro con Carla Bruni. Interpretazione emozionata ed elegante, con lei che compie una piccola magia all’inizio del brano sbagliando e trasformando un qua in qui. Bravi!

Colla Zio, Non mi va
Una domanda ronza per la testa ogni volta che Amadeus annuncia questi cantanti: perché? Perché questo nome, amici? E perché avete tutta questa voglia di farci divertire senza chiederci il permesso? A parte gli scherzi (ma poi chi scherza?), questi ragazzotti ci raccontano una bella relazione di sesso. Lui e lei si vedono solo per copulare e a entrambi va bene così. Ok, touché, è successo a tutti. Però perché cedere a versi come: Tu sei come tabacco/Io matto uno scacco oppure Mi piace la tua bocca e la Spada nella Roccia e poi Bimba, lo sai, la mia lingua è un mitra. Ma perché, amici? L’unico merito è quello di aver scelto un titolo così capace di riassumere la nostra propensione all’ascolto: Non mi va

Coma_Cose, L’addio
Una canzone così fa venire voglia di scrivere davvero a tutti gli ex fidanzati che non abbiamo bloccato su whatsapp. Ehy, come va? Lo sai, che l’addio non è una possibilità. La canzone si canta e si canta bene soprattutto in macchina, di ritorno dal lavoro con quel magone tutto sparso per il corpo. Malinconica è malinconica, sanremese è sanremese. E anche il testo, dopotutto, ha dei passaggi ben costruiti, tipo quando lei gli dice che magari è solo questa vita strana/con le valigie sempre mezze fatte/magari è solo che ci si allontana/ se si vuole ciò che si combatte oppure quando lui (stonando) gli risponde che ce ne andremo via come uno stormo. La canzone è caruccia e racconta la fine dell’amore per come l’abbiamo vissuta tutti, quella piccola tragedia privata fatta di fotografie e ringhiere davanti al cuore, di bagagli sparsi e di orgoglio disintegrato. Per il resto, invece, ho un’idiosincrasia per le cose furbe e gigione, per le performance un po’ posticce e artefatte, per le moine a favore di camera. 

Elodie, Due
La Se telefonando di Elodie: Il nostro amore è nato appena/ma è già finito male.
L’amore tra i due protagonisti della canzone è già finito ancor prima di decollare proprio come quello cantato da Mina nel 1966. Anche qui, insomma, una relazione disgraziata che ci spinge a cercare consolazione nel vino che ubriaca o a perderci in parolacce sotto casa. Una canzone perfetta per il percorso artistico di Elodie, un brano sincero, mai pretenzioso e dannatamente pop.

Gianluca Grignani, Quando ti manca il fiato
L’unico brivido di questo festival è arrivato da Grignani. A proposito di narrazioni autobiografiche e autofiction, qui lui non si risparmia affatto, è narratore interno e protagonista principale. Nel suo brano il patto autobiografico di Lejeune trova pieno compimento. Quando ti manca il fiato è al tempo stesso una biografia del padre e una lettera aperta al genitore. Il testo è bello, ruvido e amarissimo, ma soprattutto maturo, perché dà voce a un uomo che, a suo modo, si è risolto. Non giudica e non si giudica, ma racconta e cerca uno scampolo di amore nel disamore. Il brivido è arrivato sul verso che segue: Ciao, sono papà/Come va, Gianluca?/Ma no che non sto male/ma quando accadrà tu verrai o no al mio funerale? Il secondo brivido, invece, è arrivato durante il duetto con Arisa su Destinazione paradiso. Sregolato, incasinato e caotico, rock per davvero, nell’attitudine e nella voce. Fuori tempo, forse anche fuori luogo, ma al tempo stesso entrambi presenti, vivi nella musica. 

gIANMARIA, Mostro
Mostro è un’ammissione di colpa e una promessa di accettazione di sé, anche se siamo stati mostri e carogne, se ci siamo esposti alle recriminazioni e ai ricatti, ai rancori e alle accuse di negligenza. Ogni volta che si ascolta questa canzone torna in mente una frase di Michele Mari sul senso etimologico della parola mostro: «Io quando mia madre mi disse che “mostro” per gli antichi vuol dire prodigio, e perfino miracolo, mi sentii per un attimo placato, come vivessi in un mondo migliore». La presenza di gIANMARIA, poi, sembra aderire perfettamente al senso del brano. Lui si muove sul palco tutto scalcinato, si muove come un adolescente goffo e come un primate, come il mostro di Frankenstein appena uscito dal laboratorio. Eppure è elegantissimo. E canta guardando dritto davanti a sé, con quella faccia che è una piazza aperta del Nord Est. Sì, un mostro e un prodigio. 

Giorgia, Parole dette male
Certamente da Giorgia ci si aspettava un’altra cosa, ma da Giorgia ci si aspetta sempre un’altra cosa. Una con quella voce dovrebbe cantare Burt Bacharach e invece spesso ha cantato canzoni non all’altezza. Parole dette male racconta ancora una volta l’amore finito e la sua malinconia, e lo fa appoggiandosi a un testo strambo e dalla sintassi sdrucciola. Un testo bello denso di sinestesie e chiasmi, di figure retoriche a cui siamo piuttosto disabituati: le parole dette male diventano anche maledette; la pelle, quasi per magia, diventa un foglio bianco; il capello biondo è il legame tra il mondo e i nostri pensieri e i profumi cambiano addirittura colore. Poi Giorgia se ne sta lì sul palco con quelle braccia lunghe da danzatrice del balletto e quelle scapole abbassate come stesse sempre per fare un port de bras. Raffinata e irresistibile.

Cugini di campagna, Lettera 22
Brano dignitosissimo e retrò, perfettamente allineato alla personalità dei suoi interpreti. Un testo tenero e misurato, che racconta la ricerca di un lessico d’amore comune e condiviso, quella ventiduesima lettera dell’alfabeto che non esiste, ma che forse – se esistesse – potrebbe offrirci l’unità minima del discorso d’amore. A loro cosa vogliamo dire? Brillano un sacco, nei vestiti e nei sorrisi e mi sembrano dei marziani appena atterrati su questo pianeta grigio, delle creature mitologiche, a metà strada tra i Bee Gees e gli unicorni, venute qui per dirci che esiste un mondo diverso lassù nella volta celeste.

Lazza, Cenere
I giovanissimi direbbero che Lazza spacca. E hanno un bel po’ ragione. Lui è bravo e il suo testo è almeno credibile e vicino alla contemporaneità. Questo non significa che sia proprio un capolavoro, alcuni versi sono oggettivamente bruttarelli. La canzone però, che è prodotta molto bene, ha quella cosa per cui funziona, che non si sa bene cosa sia, però funziona. 

LDA, Se poi domani
Sanremo, 1964. Mike Bongiorno presenta il Festivàl che verrà vinto da Non ho l’età di Gigliola Cinquetti. In gara anche Fausto Cigliano e Gene Pitney con un brano bellissimo intitolato E se domani. La loro interpretazione passa inosservata, ma qualche tempo più tardi Mina rispolvera il brano e lo trasforma in un capolavoro. Ecco, questa è l’unica E se domani di cui vogliamo sentire parlare. Se poi domani, invece, cantata oggi da LDA – che no, non è un marchio di anfetamine – è una truffa. Il più giovane del Festival canta la canzone che più di tutte odora di naftalina. E non siamo neanche nel 1964.

Leo Gassman, Terzo cuore
Se Dino Buzzati avesse scritto un racconto con protagonista un uomo e i suoi tre cuori so che quel racconto probabilmente sarebbe il mio racconto preferito. Se Daniele Silvestri avesse scritto una canzone con protagonista un uomo e i suoi tre cuori so che quella canzone probabilmente sarebbe la mia canzone preferita. Ma qui non abbiamo a che fare né con Buzzati né con Silvestri e questo brano ridanciano e zuccherino non è affatto il mio brano preferito. 

Levante, Vivo
Un inno a riappropriarsi del proprio corpo e del proprio io. Un invito a godere di quello che si è e della magia della propria pelle. Levante torna con grinta e salta, salta come una gazzella, per raccontarci quanto sia bello rinascere dal buio, e quanto possa essere sediziosa la genitorialità. Vivo è un racconto autobiografico che diventa universale e abbraccia tutti coloro che hanno voglia di tornare a vedere la luce, accettando la vita come viene: il bene, il male, l’uomo, l’animale, il digitale. Vivo un sogno erotico, la gioia del mio corpo è un atto magico è già un mantra. Una canzone femmina e femminista, intima e politica. Bello il gancio con Vivere di Vasco Rossi, che Levante ha cantato nella serata delle cover.

Madame, Il bene nel male
Una puttana si innamora disperatamente di un suo cliente, se ne innamora di un amore sbavato e impossibile, com’è solo l’amore degli ultimi, di quelli che vivono la notte. Di Madame piace il fatto che in questo festival sia una piacevole anomalia, il fatto che sia tra le poche a raccontare una storia, a fotografare uno scorcio di mondo e di strada che non è il suo. Madame ha qualcosa da raccontare ed è straordinariamente evidente.

Mara Sattei, Duemila minuti
Duemila minuti equivalgono a trentatré ore circa. Duemila ore, invece, equivalgono su per giù a ottantatre giorni, senza considerare i decimali. Già il fatto che Mara Sattei ci costringa a fare i conti con le nostre lacune matematiche non me la fa stare particolarmente simpatica, in più il suo brano è quello che è. Per carità, il messaggio arriva forte e chiaro e noi lo condividiamo in toto: l’amore non è amore se è tossico e manipolatorio. Però qui non è tanto il cosa che non funziona, è il come

Marco Mengoni, Due vite
Il favorito alla vittoria porta al festival un brano d’amore che fa pensare che, sì, le canzoni a volte funzionano proprio perché ti sembra che ci sia qualcosa di nuovo da capire a ogni ascolto. Due vite parla di due persone che si incontrano e si allineano, ma poi si riallontanano e chissà se mai se si incontreranno di nuovo. Poi Mengoni, che bravo è bravo, nella serata delle cover canta Let it be dei Beatles e tu ti dici che se vivessimo in un Paese giusto, lui farebbe musica soul e, invece, spesso si ritrova a cantare brani non altrettanto forti. Questa canzone, però, è tra le sue migliori ed è costruita bene nel testo e nelle armonie. Mi ricorda tanto Weekend, il film di Andrew Haigh del 2011. C’è più Sanremo in questo brano che in Pippo Baudo e l’interpretazione vale più della canzone stessa.

Modà, Lasciami
Pare che la canzone parli di depressione, ma di depressione non è che se ne veda poi molta. Sarà che i Modà cantano sempre tutto allo stesso modo dal 2005. Sarà che usano le stesse parole per raccontare tutto ciò che succede: l’amore come il dolore, il desiderio come la depressione. È sempre tutto un bicchiere di veleno, un profumo un ricordo. Lo dico io, Kekko: lasciami, lasciaci. Ti prego.

Mr Rain, Supereroi
Anche in questo caso, la canzone dovrebbe parlare di disagi psichici e fragilità. Ha conquistato il cuore e le pelli di molti e moltissimi che useranno le frasi di questa canzone per i post di San Valentino: siamo angeli con un’ala soltanto e riusciremo a volare solo restando l’uno accanto all’altro. La più gettonata per la festa degli innamorati probabilmente sarà quella in cui lui dice che siamo invincibili vicini. Porta sul palco un gruppo di pargoli canterini e commossi, forse sono loro gli autor-criminali di questo testo puerile e sciatto, altrimenti non si spiega. Una cosa così brutta non si sentiva dai tempi di Povia e del suo piccione. 

Paola & Chiara, Furore
Nessuno come loro in Italia ha raccontato con il linguaggio del pop l’estasi e il prurito che ci trascina nel mondo, quel desiderio insaziabile di vita e di vitalità, di musica ed estate, di rinascita e unione che spesso è il motore propulsore delle mattine e delle vite intere. Paola & Chiara tornano alla musica in grande stile, fedeli a se stesse e al tempo in cui abitano, per dirci che c’è sempre un’ultima canzone, un ultimo ballo prima che la notte finisca. Per dirci che, sì, la fine arriverà perché arriva sempre, ma intanto è ancora possibile dirsi vivi. La loro canzone è un invito all’aggregazione orgasmica e stroboscopica, un incoraggiamento a camminare verso il varco di luce, verso il piacere. Da qualche parte lassù, lo vedo, c’è l’occhio grande di Raffaella che canta e balla e ride insieme a loro in questa notte di sole, di furore e rumore.

Rosa Chemical, Made in Italy
Un po’ Renato Carosone e un po’ Fred Buscaglione, un po’ Achille Lauro (ma meglio!) e un po’ Gianna Nannini, Rosa Chemical confeziona un brano electro-swing che ha fatto arrabbiare alcuni politici della nostra legislatura. Perché? Perché non c’è cosa che faccia più paura del sesso e qui si cantano i corpi liberati e i ménage a trois/a quatre/ a cinq, perché insomma più siamo meglio è. Si parla anche di fluidità di genere e di uomini che vanno in ufficio il lunedì con un filo di rossetto sulle labbra, di feticismi e di piedi, di perversioni e di vite un po’ spericolate, come Vasco e Celentano. Troviamo ancora oggi più spaventoso il sesso delle canzoni di Ultimo? Assurdo.

Tananai, Tango
Tananai abbandona il suo fare scanzonato e faceto per indossare (bene) una canzone romantica e nubilosa, che racconta un altro amore finito, questa volta tra le pieghe feroci della nostra Storia. Ispirata da una giovane coppia di innamorati ucraini separati dal conflitto, Tango pesta il cuore e risulta credibile e capace di parlare all’anima del nostro tempo. Parlare delle cose d’amore senza essere esageratamente enfatici, dopotutto è possibile. Tra l’altro, Tango è anche una splendida canzone di Lucio Dalla. Anche lì, c’è la guerra sullo sfondo, una guerra che toglie tutto, ma che non impedisce alle persone di amarsi e di ballare. Chissà se la citazione è voluta – probabilmente no – ma ci piace pensare che sia così.

Ultimo, Alba
Ultimo quando guarda l’alba pensa a quanto sia bella perché può essere solo sua. È questo l’assunto di partenza di questo brano loffio e ringhiante, orgogliosamente prostatico e ingrugnito, in cui chi canta e chi ascolta senza volersi tappare le orecchie cede a qualche sentimentalismo enfatico sempre cercando di non apparire troppo svirilizzato dalle sue dichiarazioni d’amore. Una cosa molto simile al concetto di inquinamento acustico, insomma. Una cosa che per sbaglio la senti e vuoi chiuderti un mese in una stanza isolata e ascoltare solo Ivano Fossati.

Will, Stupido; Sethu, Cause perse; Shari, Egoista; Olly, Polvere
Per amor di brevità e pietà nei confronti di chi è giunto fino alla fine di questo articolo, accorpiamo qui questi giovanissimi dai nomi al limite dell’impronunciabile con canzoni quasi sempre al limite dell’inascoltabile. Ognuna a modo suo, anonime nelle melodie e nei testi. A volte è l’amore egoista, altre volte quello fragile e inadatto. A volte, invece, sono i fallimenti e i dubbi. In ogni caso, qualsiasi cosa sia, è raccontata senza mai un guizzo sintattico e linguistico.



Photo credits
Copertina – Foto di 
Joshua Woroniecki su Unsplash

categorie
menu