Tempo fa, come lettrice di inediti, mi capitò tra le mani un romanzo che mi incuriosì per la natura, così lo presentava l’autore, “politicamente scorretta”. La lettura del manoscritto, purtroppo, confermò ciò che quella definizione tanto netta già lasciava presagire: l’intenzione programmatica di dire cose sconvenienti, imprudenti e inaccettabili alla morale condivisa aveva soffocato la storia stessa, ridotta a un susseguirsi di trovate oltraggiose. Il romanzo non raccontava, dimostrava. Il romanzo, insomma, annoiava.
Certo, a modo mio ero solidale con l’autore. Avverto anche io la voglia di letteratura più coraggiosa, libera dalle idee fisse della narrativa terapeutica fatta di storie esemplari e testimonianze edificanti scritte da guru laici, influencer e attivisti anziché scrittori. Di una letteratura anche immune dai nuovi burocrati, vedi i sensitivity reader anglosassoni, che trattano i lettori come infanti da proteggere ed educare. Eppure, domandarsi se la risposta al politicamente corretto debba essere il politicamente scorretto è un falso dilemma: la risposta è no.
Yasmina Reza, interrogata sul punto, non ha dubbi:
“La letteratura, che io associo all’arte e non all’ambito intellettuale come per esempio la filosofia, è uno spazio di pura libertà. Per quanto mi riguarda, il criterio etico che guida l’uso delle parole non è la correctness o l’incorrectness bensì il vero o il falso”.
Insomma, le categorie del politicamente corretto e scorretto non dovrebbero interessare a un autore. Sono categorie anti-letterarie poiché programmatiche e quindi anti-ambigue. La letteratura, nel suo tentativo di rappresentare la realtà attraverso il verosimile, deve necessariamente abbracciare l’ambiguità. Un romanzo dovrebbe essere libero e sfuggente come un ghepardo che corre. Il politicamente corretto o scorretto, invece, gli dà l’aria di una Tesla che avanza con il pilota automatico. L’ideologia in letteratura è una forma di ozio, di paralisi.
La sensazione provata leggendo quell’inedito mi ricordava quella suscitata dall’ultimo spettacolo di Ricky Gervais, Armageddon: un’insistita rivendicazione di scorrettezza che, paradossalmente, rendeva il tutto noioso e prevedibile come una predica buonista. Durante lo spettacolo, Gervais ha ricordato più volte di essere un tipo molto scorretto, o di stare per dire qualcosa di terribilmente anti-woke lasciandosi andare in una serie di battute che mai, però, sono riuscite a essere davvero oltraggiose. Ha preferito compiacere invece che sorprendere. Ricky Gervais non sembrava più pronto a metterci con le spalle al muro e ha dato – a noi, i più pigri spettatori mai esistiti sulla faccia della terra – quello che ci aspettavamo, trasformandosi in un cliché.
Non c’è niente di più terribile di coloro che spavaldamente annunciano “ora sto per dire qualcosa di sconveniente”, poiché quasi sempre ne seguirà una banalità o un boutade di pessimo gusto – volgare ma innocua. Non c’è niente di più terribile di una letteratura che anticipa sé stessa e che, soprattutto, non meraviglia. Il miglior scrittore è anarchico, non di parte. (Amo ricordare ossessivamente una citazione di Raffaele La Capria, forse perché afferma qualcosa di così lontano allo spirito della letteratura e del ruolo dello scrittore che oggi prevalgono: “Parise quando sentiva parlare di ideologia e di impegno rispondeva ‘Non me ne intendo’. E per me uno scrittore dovrebbe rispondere sempre così”.)
L’inedito, narrando la frustrazione di un uomo per la compagna vampira, sottrattrice di paternità grazie a una giustizia parziale, pensava di essere diverso dalla storia “potente” della donna oppressa dal patriarcato che, grazie a un risveglio, riacquista la libertà. Ma nella staticità programmatica e nella mancanza di sfumature ci assomigliava parecchio. Insomma, il libro che pretende di scioccare non è molto diverso da quello che pretende di insegnare. Difficile credere che autori come Houellebecq o Ellis, considerati i cattivi ragazzi della letteratura, si siano svegliati un giorno dicendo “voglio scrivere un romanzo politicamente scorretto”. Casomai hanno deciso di scrivere una storia senza piegarsi a nessuna isteria moralizzante, e sanno che per essere uno scrittore serio devi correre il rischio di essere offensivo, ma non devi per forza esserlo. «Se mai uno scrittore ha un obbligo verso l’umanità è quello di scrivere bene» ha scritto qualcuno di molto saggio, sebbene purtroppo non ricordi chi. Insomma, narrare belle storie è un compito arduo a sufficienza. In uno dei ritratti che Martin Amis fa di Saul Bellow, si legge: «Basta romanzi sull’adolescenza, problemi di lavoro, avventure sessuali, identità etniche ferite. Perché non occuparsi delle “misteriose circostanze dell’essere”, e dire cosa significa esistere in questo tempo, su questo pianeta?»[1].
In quest’epoca in cui la letteratura è ricca di impegno e buone intenzioni la risposta non è politicizzarla con il polo opposto. Ma semmai renderla libera dalle categorie, dalle idee fisse. Perché sia politically correct che incorrect rivelano solo una necessità: quella dello scrittore che vuole conformarsi e fare marketing.
[1] Martin Amis, La guerra ai cliché (Einaudi)
Illustrazione di copertina: Beppe Giacobbe