Persino oggi che ha 32 anni e lavora a Torino, i lineamenti del volto di Enaiatollah Akbari ci raccontano un’intima geografia dello sradicamento. Una lacerazione che inizia quando, ancora bambino, è stato costretto a fuggire dalle persecuzioni etniche in Afghanistan intraprendendo un lungo viaggio attraverso l’Europa, raggiungendo infine l’Italia. La sua vicenda umana è stata raccontata da Fabio Geda nei romanzi Nel mare ci sono i coccodrilli e Storia di un figlio, entrambi editi da Baldini+Castoldi, e oggi, nei giorni del ritorno dei talebani al potere, quella fuga e quel viaggio – attraverso il Pakistan, l’Iran, la Turchia attraversata rinchiuso nel doppio fondo di un camion e il pericoloso tratto di mare in Grecia – assume il senso di un ritorno ciclico e terribile della Storia. Raggiungo telefonicamente Enaiatollah Akbari mentre continuano a scorrermi davanti agli occhi le immagini dell’aeroporto di Kabul, dove le madri affidano i propri figli ai soldati nella speranza di un futuro migliore e dove dal 31 agosto nessun afghano potrà più lasciare il paese. Non è facile raccontare queste immagini, e la voce di Enaiatollah a più riprese si fa flebile, si smarrisce e si commuove al pensiero del destino di un popolo intero.
Cosa ti provoca leggere le notizie di ciò che sta accadendo in questi giorni in Afghanistan?
Oggi provo un grande senso di lacerazione. Da tempo ho scelto l’Italia, il luogo nel quale vivo, ma sempre pensando anche all’Afghanistan, sperando magari un giorno di poter tornare là, riempiendo le mie valige delle tante cose che ho imparato. Di fronte a queste notizie, oggi mi sento spaesato. Non solo io, ma tutta la mia generazione. Abbiamo vissuto i talebani quando eravamo piccoli, poi la situazione è cambiata, abbiamo sofferto e abbiamo lottato per rialzarci. Siamo stati bambini resilienti. Ci siamo aggrappati a un briciolo di speranza, nonostante le bombe che esplodevano di fronte alle scuole, e negli anni siamo riusciti ad avere accesso allo studio, con fatica, accerchiati dal terrore.
Ma oggi vediamo tutto quanto andato in fumo, una cosa difficile da accettare. Il nostro desiderio era poter guardare il futuro, non più il passato. Con le conoscenze accumulate e il nuovo stile di vita ci sentivamo più vicini al mondo, alla vita. Come dice Yuval Noah Harari, la società inizia quando si ha la capacità di sognarla, ma oggi è difficile sognare qualcosa.
Ci stanno arrivando notizie confuse, i giornalisti sono mal visti dai talebani. Sei in contatto con persone che stanno vivendo questo dramma? Quali sono i loro racconti?
Sto sentendo molte persone che raccolgono informazioni in questi luoghi, perché credono nel dialogo. Sto cercando di fare il mediatore tra questi due mondi, per salvare ciò che è salvabile. I talebani non sono persone buone, l’immagine che stanno dando di sé non è reale. Non puoi fare un selfie con loro, non è il loro vero volto. Girano nelle case, hanno liste di nomi, sparisce la gente e non si sa che fine faccia. Non solo chi ha lavorato con gli occidentali o nell’esercito, ma anche tanti professori che hanno ricevuto una busta paga dallo stato e oggi stanno pagando il prezzo. Ad esempio, l’altro giorno è stato assassinato in un villaggio il preside di una scuola femminile. Oppure la ragazza giovanissima che sognava di cantare e per questo è stata picchiata, così forte da non riuscire più a respirare. La situazione è drammatica.
Sto sentendo anche persone dal Pakistan, dove ci sono le città che sono il primo approdo dei migranti in fuga. Nelle case non ci sono più spazi, i civili stanno ospitando le persone nelle proprie abitazioni, nelle città confinanti con l’Afghanistan. I migranti non possono trovare la salvezza in aeroporto, e per questo stanno raggiungendo queste città. Le case sono colme di gente in fuga, ma manca tutto, manca il cibo, l’acqua, i beni essenziali per i bambini.
Credi sia stato un errore ritirarsi da quelle terre, sottovalutando il ritorno di queste forze?
Se mi calo nei panni di un osservatore occidentale mi chiedo: occidente, cosa hai fatto? Sei andato in questi territori per partorire un concetto di democrazia e, quando questo progetto non era ancora maggiorenne, l’hai abbandonato e te ne sei tornato a casa. Proprio come un figlio piccolo, fatto e abbandonato. È una cosa che non si fa. Da afghano invece mi rendo conto che l’economia è importante, vedo tanti giochi politici e strategici. La conclusione che ne posso trarre è che non è stato un errore andarsene via in questo momento dall’Afghanistan, ma piuttosto è stato un errore ciò che è accaduto già nel 2009, quando è stato appoggiato un governo che ha imbrogliato alle elezioni, le cooperazioni internazionali venivano minacciate dai talebani e il nuovo governo afghano corrompeva i talebani e dava loro soldi per non attaccare.
Dunque è un errore che viene da lontano. Soprattutto dal 2014 ad oggi, con il governo del Presidente Ghani, un uomo che aveva un pessimo curriculum per tutto ciò che aveva fatto nel passato. Questa mossa ci ha portato a essere il secondo paese più corrotto al mondo, ma l’occidente l’ha sempre sostenuto. Alle elezioni non ha ottenuto neppure un milione di voti. È stato eletto e riconosciuto anche se rappresentava pochissime persone in un territorio che aveva oltre 36 milioni di afghani. Com’è stato possibile? Il mondo è stato menefreghista, sotto i suoi occhi accadeva tutto ciò e nessuno ha voluto vedere nulla. E poi, anche quando si è capito cosa stava accadendo, nessuno è intervenuto, perché probabilmente gli andava bene così. Dunque non si può parlare di un errore di oggi, i talebani da tempo si stavano muovendo. Gli USA con il trattato di Doha hanno estromesso gli afghani, è stato un accordo totalmente bilaterale tra talebani e americani, e per legittimare l’accordo hanno liberato 10.000 talebani dalle prigioni afghane. Persone che sono andate subito a combattere, si sono organizzate in poco tempo. Hanno liberato persino Haqqani, membro dei talebani che ha avuto in mano l’organizzazione dei loro attacchi kamikaze, era l’uomo che legava le bombe ai bambini per far saltare in aria i civili. Come si fa a parlare di un errore? È molto di più.
Le nuove generazioni hanno potuto studiare e vivere in un modo libero e democratico. Qual è il loro impatto con i talebani?
Mi aggrappo a piccole speranze. La comunità internazionale deve avere consapevolezza che in questi venti anni, volontariamente o involontariamente, in mezzo a tanti problemi è cresciuta una cosa in Afganistan: la consapevolezza dei bambini, che oggi sono una generazione di giovani afghani. Hanno studiato, hanno creduto nella democrazia, nella formazione. Con lo studio, nonostante il sistema corrotto, ognuno di noi può dare il minimo contributo di costruzione del nostro paese. Una costruzione a lungo termine, che non può guardare a oggi ma piuttosto a ciò che accadrà tra cinquant’anni. Oggi, costretti a vivere sotto il regime, il nostro stile di vita non guarda più al futuro. Il nostro credo, i nostri sogni, si rivolgono solo al passato. Io oggi supplico l’occidente di non riconoscere il governo talebano in questa forma, un governo della sharia, nel quale c’è la sicurezza ma non esiste nessuna giustizia e nessuna uguaglianza. Se infrangi le regole ti tagliano il braccio, o ti impiccano. La giustizia nasce da una legge chiara, uguale per tutti, mentre la Sharia è fatta di interpretazioni, non è chiara e non è scritta: trenta milioni di persone non possono vivere in questo modo. Siamo una civiltà complessa e abbiamo bisogno di leggi chiare e democratiche. Per questo non basta che i talebani facciano un accordo solo con l’occidente, ma devono farlo anche con i Mujaheddin, quelli che combattevano uno di fronte all’altro nell’odio che proviene dal passato, e soprattutto devono parlare con noi, che siamo la nuova generazione dell’Afghanistan, diversi dai nostri genitori, con titoli di studio, consapevoli del funzionamento delle relazioni internazionali. Io ad esempio ho studiato scienze della cooperazione e sviluppo; ho iniziato a 16 anni, ma altri hanno speso tutta la loro vita in questi percorsi. I talebani ci devono ascoltare, perché siamo un terzo della società afghana, un dialogo va aperto su tutti i fronti. Non basta che loro dicano che le donne possono studiare. E poi? Finiranno dietro ai fornelli o potranno candidarsi in Parlamento, diventare Ministro? Ci sono tante domande che vorrei fare a queste persone.
Le stesse domande che forse vorrebbero fare le ragazze e i ragazzi che stanno coraggiosamente protestando per le strade di Jalalabad.
Ho guardato le immagini, lo trovo un gesto eroico, meraviglioso. Nel buio si è accesa improvvisamente una luce. Magari non sembra molto, ma in questi momenti è tantissimo. Quei pochi giovani hanno fatto da soli più di ciò che ha fatto tutto il resto del mondo. I giovani che manifestano a Jalalabad e a Kabul sanno benissimo che i talebani sono sempre gli stessi, sparano, ti vengono a cercare in casa: da un momento all’altro puoi sparire per sempre. Questi giovani hanno mostrato il vero volto dei talebani, che non sanno fare un vero confronto, sono intolleranti verso gli altri, la loro unica risposta sono i proiettili, citano i versi del Corano e combattono, non sanno confrontarsi con le minoranze etniche e religiose, con le donne, con i giovani che la pensano in modo diverso.
In quelle strade può crearsi una nuova classe politica, una nuova espressione di voto?
Lo spero, ma è difficile fare una previsione su ciò che accadrà nei prossimi mesi. Fino ad oggi i talebani sono stati forti e uniti, perché avevano un intruso da combattere, avevano individuato il loro nemico. Ma nel futuro potrebbe scoppiare una guerra tra i talebani stessi, perché al loro interno sono molto variegati, hanno posizioni diverse. Credo che scoppierà il caos, e la storia si ripeterà. In questo scenario, i giovani afghani si trovano in una situazione difficile. In un paese pieno di armi e violenza, sono totalmente disarmati, e riconoscono il grande valore della vita umana. Sanno quanto sia difficile sparare sul proprio nemico. Hanno consapevolezza democratica, e nessuna arma da fuoco. Se contro di loro si schierano carri armati e armi, come faranno a difendersi?
È forse la domanda che il mondo intero si sta ponendo. Anche se le risposte sono diverse. La Cina e la Turchia hanno avuto parole di rispetto per i talebani. L’America sta prendendo tempo, l’Europa tace. Come credi debba reagire la comunità internazionale in una simile situazione?
È come nel gioco del Risiko. Ogni giocatore fa la propria mossa, facendo accordi di vario tipo sull’Afghanistan. Ognuno ha i propri obiettivi, ma a nessuno frega davvero dell’Afghanistan. Spero di sbagliarmi, ma da un po’ di tempo la sensazione che ho è questa. Oggi tutti i leader mondiali dovrebbero ammettere di aver sbagliato in questo territorio. Hanno fatto scoppiare una diga piena d’acqua, e ne vediamo le conseguenze. Ma ora non basta guardare alle goccioline che bagneranno il mondo, che sono i flussi migratori che si stanno muovendo. Il caos va gestito.
Per prima cosa bisogna prevedere immediatamente dei corridoi umanitari per le persone in pericolo, non bisogna aspettare nemmeno un secondo. Poi bisogna cambiare le politiche sui flussi migratori, che non dovranno mai più essere affidati ai paesi confinanti, l’Iran e il Pakistan, perché quello dei migranti diventa un business spietato, che non guarda alla vita e alla sofferenza degli esseri umani. Tutto diventa un gioco economico nel quale tutti vogliono guadagnare soldi, e le vite umane passano in secondo piano. Infine bisogna pensare ai campi profughi, perché la carestia è uno scenario drammatico. Stiamo vedendo le immagini dei genitori che lanciano i propri figli nelle mani dei soldati, senza nemmeno sapere dove andranno a finire. L’unica salvezza è far partire i bambini, dar loro la possibilità di studiare e di avere una vita normale.
Venendo nello specifico all’Italia, accanto ai tanti messaggi di solidarietà stanno crescendo le paure rispetto ai flussi migratori. Credi che qualcuno stia pensando di sfruttare questa situazione a scopo elettorale?
Credo anzitutto che gli italiani non devono farsi fregare da chi li governa. In questi anni la classe politica era lì a decidere, l’occidente da venti anni è lì: hanno sempre finanziato ciò che accadeva, e oggi hanno una responsabilità enorme. Quando gli americani hanno deciso di andare in Afghanistan, anche gli italiani sono andati. Poi quando si sono ritirati anche l’Italia lo ha fatto. In questi anni abbiamo fatto compagnia agli USA? Serve una riflessione nell’opinione pubblica su ciò che è stato fatto. E bisogna riflettere su questi giovani afghani che vedono la propria vita lacerata, distrutta. Da noi ne arriverà uno su 10.000, li stiamo vedendo nelle terribili scene all’aeroporto di Kabul. Hanno studiato, hanno sognato, e ora cosa faranno? Verranno qui in Europa a fare i lavapiatti, dopo vent’anni di studio e progetti. Saranno costretti a una vita misera, di sopravvivenza, accettando qualunque lavoro e qualunque condizione pur di guadagnare qualche soldo.
Intanto ciò che ci arriva, tra immagini e testimonianze, è terribile. Le immagini delle persone aggrappate alle ali dell’aereo e precipitate nel cielo mi sembrano pericolosamente simili a quelle delle persone che si gettavano dalle twin towers in fiamme. In entrambe si percepisce una cieca disperazione, lo smarrimento di ogni speranza. Come per le immagini delle madri che affidano i propri figli ai soldati americani. Cosa provi di fronte a queste immagini, così vicine alla tua storia personale?
Mi viene da piangere. Il bambino lanciato dalla madre ai soldati mi fa ricordare me stesso quando mi è accaduta la stessa cosa. Provo ancora forte il senso dell’abbandono. Sono stato abbandonato da mia madre a nove anni in una città sconosciuta, in un luogo che non conoscevo in mezzo a persone che non conoscevo. Eppure quel gesto così doloroso è pieno di un amore indicibile… Quel bambino doveva essere allattato e protetto, ma quella povera madre sapeva che non c’era speranza per lui in quella terra. E l’unica cosa da fare è stato donare il proprio bambino a un uomo armato e sconosciuto. Non posso non pensare al mio passato. Madre mia, quanto hai dovuto sopportare fino al momento in cui hai deciso di donarmi a una nuova vita?
Accanto a quelli che partono o partiranno, ci sono quelli che rimarranno in quella terra martoriata. I talebani stanno dichiarando al mondo che rispetteranno l’istruzione e le donne. Dobbiamo credere a queste buone intenzioni?
Dall’occidente stiamo vedendo dei talebani istruiti, moderati. Ma non è così. L’Afghanistan non è solo Kabul, è piena di luoghi sperduti tra le montagne, il regno del più forte e del terrore. In questi luoghi non c’è giustizia per nessuno. I talebani non stanno raccontando ciò che sta veramente accadendo. Davanti alle telecamere, ad esempio, non hanno ancora detto che stanno applicando nuove norme di tassazione sui più poveri, costringendo le minoranze etniche a pagare tasse sulle capre, sui terreni, sugli alberi addirittura. Stanno togliendo tutto a gente che sopravvive a fatica. Come faranno a vivere?
Mi ha colpito nei giorni scorsi guardare le immagini di Crystal Bayat, la ragazza di 24 anni che è scesa in strada a manifestare a volto scoperto avvolta nella bandiera afghana.
È un gesto forte. Donne come lei possono fare qualcosa con la loro determinazione. Sono stati anni importanti per i movimenti di attivismo femminile, dentro e fuori il Parlamento. Negli ultimi anni si è formato un folto gruppo di donne che protestano contro i talebani, ma anche contro i signori delle terre, contro il traffico della droga e dell’oppio. Si stanno esponendo anche in questi giorni, con grande coraggio. Credo saranno perseguitate, spero non le facciano sparire. Il rischio per loro è altissimo.
La sensazione è che, dopo 20 anni di sguardo rivolto al domani, qualcosa si sia inceppato. Sei in grado, oggi, di vedere un futuro per il tuo paese?
Mi sto sforzando, ma in questo momento vedo solo un grande buio. Provo ad aggrapparmi alla speranza, e allora all’interno di questo buco nero provo a cercare un piccolissimo punto di chiarore, un raggio di luce. Forse non è reale ma solo immaginato, mentre cresce in me la consapevolezza che il caos è scoppiato e che il mio popolo sarà costretto a morire di fame. In questi anni sono cresciuto, ho studiato, ho lottato in tanti modi, eppure non ho avuto la possibilità di fare qualcosa per salvare il mio paese. Oggi non riesco più a sognare. La speranza viene dalla stampa, dal mondo dell’informazione: il mondo tende a dimenticare tutto quando le telecamere si spengono. È importante invece continuare a osservare ciò che sta accadendo, e allora vorrei chiedere all’occidente di tenere aperte le porte che ci collegano con il mondo delle idee. Solo così forse potremo fare qualcosa per cambiare le cose, creando un ponte di dialogo tra questi due mondi che amo profondamente.