The imagination is not a state: it is the human existence itself.
William Blake
In poche settimane, come anello più debole di una filiera economica già fragile, il mondo della cultura è entrato in shock cognitivo. Prima di ogni altro settore, prima che le evidenti criticità di un sistema industriale nella sua ultima fase involutiva mandino inequivocabili segnali di collasso, la cultura sta subendo una gravissima inflessione economica dopo una fase già critica. Proprio come l’impatto devastante di Covid-19 non è il virus in sé ma le risposte, o meglio, le non-risposte mentali della gente, allo stesso modo il mondo della cultura è in stato di shock non solo, non tanto, per la perdita di fatturato, ma per la totale incapacità di reagire al cambiamento, di riorganizzarsi, di assumere un ruolo pilota in questa fase di transizione della civiltà. Di fronte a scuole, università, teatri, cinema e musei chiusi, di fronte all’annullamento di presentazioni, mostre, fiere del libro e festival culturali, la reazione è stata invariabilmente una: nessuna. Zero idee, zero tentativi, zero soluzioni. Un’analisi lucida della situazione non deve indugiare nell’invettiva, nel piagnisteo o nell’inutile ricerca del capro espiatorio. Un’analisi lucida deve cominciare a dare soluzioni concentrandosi sui fatti: fatti che possano accompagnare la gente, i professionisti del settore, i tecnici a superare la fase di negazione e ammettere che le cose sono cambiate per sempre, che non siamo in una fase passeggera e che bisogna reagire reinventandosi; fatti che possano suggerire dei modelli concreti per ripensare natura, funzione e ruolo della cultura nel dopo che ci attende. Il punto, infatti, non è salvare il salvabile o inventare trucchi temporanei per immettere altro elio nel pallone bucato, il punto è fare uno shift cognitivo radicale.
Si può spiegare così. Durante un’epidemia, prima o poi, si arriva sempre a un bivio esistenziale: o la gente tenta di salvarsi la vita pensando solo a sé stessa e ai propri cari, oppure comprende che in ballo non c’è solo la vita delle persone ma il senso stesso dell’essere umani. Arriva insomma il momento in cui qualcuno capisce che rinunciare a qualcosa di personale significa salvare un bene collettivo. Non è un passaggio mentale facile, ma è l’unica soluzione per far sopravvivere il principio stesso che ci fa essere animali sociali. Il mondo della cultura non può e non deve fare eccezione. Per quanto sia duro ammetterlo, il modello individualista, capitalista e neoliberista ha contaminato anche il microcosmo degli intellettuali, degli scrittori, degli artisti, degli operatori culturali. Un modello che ha funzionato in periodo di pace militare, sociale, climatica, virale, quando la crisi è stata ingannata trasferendo sistematicamente il danno economico sui lavoratori precari e sui fruitori della cultura, ma appena alla bolla “normale” subentra uno stato di eccezione ecco che il passaggio dal sistema della concorrenza al darwinismo sociale è breve. Sopravvivono solo i più forti, i più deboli soccombono.
Questa narrazione però è fallace perché, soprattutto nel mondo della cultura, esiste già una larvale coscienza di mutuo appoggio, ci sono già delle pratiche collettive che hanno permesso ai più deboli di resistere, almeno fino a oggi. Prendiamo il mondo del libro. Mentre l’editoria grande e piccola si svendeva alle logiche bocconiane, mentre gli autori si isolavano sperando di fare una corsa solitaria verso fette di torta sempre più piccole, mentre una folla di intermediari si inventava professioni fittizie e parassitarie, quello che si è perso davvero è l’idea antropologica della scrittura. Scrivere è allestire mondi immaginati che ci aiutino a vivere nel nostro, dandoci strumenti di lettura della realtà, offrendoci visioni larghe, riaccendendo la speranza, ma la letteratura contemporanea premiata oggi dalla tarda editoria e dal sistema-libro in declino verticale è stata quella dell’escapismo, dell’intrattenimento emotivo, delle ruote di pavone stilistiche. Ora che, come l’antiriflesso di un supermercato preso d’assalto, gli scaffali delle librerie restano pieni, ora che giacenze, invenduti, resi sono geografie previste e prevedibili, bisogna interrogarsi seriamente sul cambio di paradigma che ci serve.
In queste ore stanno girando in rete decine di pezzi su coronavirus e collasso delle strutture economico-culturali, ma questi articoli sono le solite descrizioni superintelligenti dello status quo. Il linguaggio, invece di toccare le coscienze, fa da diaframma, svolge una funzione fumosa e disorientante. Questi articoli, insomma, non servono a nulla. Non scalfiscono il denial. Sono solo un altro ritardo programmato della percezione dei tempi. Mancano completamente il bersaglio. Fanno semplice intrattenimento colto per una ventina di amici che si danno pacche sulle spalle. Non sanno dare una sola immagine che tocchi il cervello e che resti… Come prima cosa, dunque, c’è bisogno di una riflessione seria su come usare le parole verso un autentico cambio di passo (narrativo, poetico, visionario) e per non restare impantanati nella cronaca. Uscire dalla cronaca è indispensabile per concentrarci sul dopo. Anziché rimanere seduti ad assistere inebetiti al crollo del sistema-cultura aspettando che solo gli squali sopravvivano, occorre cercare da subito delle soluzioni antifragili, ispirandoci a valori che fino a tre settimane fa ci avrebbero fatto ridacchiare con cinismo: empatia, cooperazione, generosità, gentilezza, compassione. Ridere di simili parole in una società della concorrenza, della solitudine, dell’umanità monodose è però sintomo di ignoranza antropologica. Invece sono proprio questi comportamenti prosociali che hanno reso la specie umana una specie resiliente pur con un bassissimo numero di individui. E non sono “buoni sentimenti” o rigurgiti criptocristiani, sono tool cognitivi molto efficaci che hanno svolto per milioni di anni una precisa funzione adattativa, specialmente nei momenti di crisi. Quindi bisogna uscire immediatamente dall’inconscio senso di colpa di una cultura come bene di lusso e abbracciare la prospettiva antropologica: la cultura non è un surplus che possiamo permetterci di ignorare, trascurare, deridere, svendere o anche solo vendere per profitto. La cultura, non la legge, non l’autorità, è il tessuto connettivo stesso del vivere sociale, e se nei momenti di crisi non è in grado di reagire, di resistere, di creare soluzioni, di guidare, significa che è la prima ad aver smesso di credere in sé stessa. Lo scenario è semplice, e non è per forza negativo. Alcune idee sono lì da sempre.
Immaginiamo di essere una scrittrice, uno scrittore. A parte ascoltare lo Zeitgeist, sintonizzarsi col vero presente, cercare di capire di quali narrazioni ci sia bisogno adesso, intercettare le parole-chiave e le tematiche calde in un mondo entrato senza alcun dubbio nella fase più critica dell’Antropocene, rieducare riallenare rinforzare l’immaginazione, deantropizzare il proprio punto di vista per agganciarsi a una prospettiva larga, cosmografica, includere il mondo non-umano, cercare consiglio nelle culture indigene e non solo nelle biblioteche del Novecento; a parte queste cose, la scrittrice, lo scrittore, deve smetterla di illudersi di potercela fare da sola, da solo. I suoi alleati, in prima istanza, non sono l’agente, l’editore, l’ufficio stampa, il direttore del festival, l’insegnante di scrittura, il libraio, il critico, il blogger, l’influencer. I suoi alleati sono le altre scrittrici e gli altri scrittori. E a parte il pubblico noto delle presentazioni, dei gruppi di lettura, dei lettori di recensioni e dei compratori di libri, il suo pubblico potenziale sono in Italia 8 milioni di persone dai 3 ai 14 anni che vengono sistematicamente ignorate, tranne in qualche oasi faunistica, in ogni tipo di conversazione, discussione, previsione culturale.
Proviamo quindi a immaginare delle scrittrici e degli scrittori che con una precisa coscienza di classe direbbe qualcuno, con consapevolezza antropologica preferisco dire io, creano gruppi, collettivi, stringono alleanze, inventano modi collaborativi, si aiutano correggendosi, incoraggiandosi, condividendo idee, trame, voci. Immaginiamo questi gruppi concentrarsi su un pubblico tra i 3 e i 14 anni per la semplice ragione che i bambini e i ragazzi di oggi sono i destinatari naturali di un mondo che tra dieci o vent’anni sarà molto più duro e fosco del nostro. Immaginiamo i romanzi, i poemi, le novelle, i graphic novel che in questo contesto comincerebbero a prendersi cura di nuove urgenze, di nuove categorie di persone. Forse l’editoria e il mondo del libro potrebbero iniziare a fare un autoesame. Forse potrebbero mettere in discussione il loro ruolo di dispensatori di certificazioni elitarie. Forse potrebbero inventarsi delle cordate resistenti fondate sul mutuo appoggio e non sulla concorrenza. Forse potrebbero pensare che per sopravvivere non è più tempo di pensare a profitti comunque sempre più magri ma al ruolo pilota che potrebbero giocare nel traghettare la cultura di un Paese oltre il fosso che abbiamo davanti. O forse nessuna di queste cose è possibile e verrà fatta, e allora muoia Sansone con tutti i Filistei.
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