Search
Close this search box.

Ermete a Nag Hammadi

Il sorprendente intreccio tra testi gnostici e tradizioni ermetiche nei manoscritti del deserto egiziano

Nel dicembre del 1945 Muhammad ’Ali al-Sam-man, un fellah egiziano di Al-Qasr (nell’isola di Nag Hammadi, l’antica Chenoboskion) con i suoi fratelli era in cerca di terra per concimare i campi: scavando presso un grosso masso s’imbatté in una giara alta quasi un metro munita di coperchio, sigillato probabilmente con bitume; rotta la giara, si trovò davanti ben tredici codici vergati in copto e rilegati in pelle. Di lì a qualche giorno i fratelli colsero l’occasione propizia per vendicare l’omicidio del loro padre, con la classica legge del taglione. Un cristiano copto, che intendeva fermare il rituale, fu dissuaso con minacce e invitato piuttosto a seppellire i resti del malcapitato. Temendo che, perquisendo la loro casa, la polizia s’imbattesse nei manoscritti, i fratelli li divisero tra persone fidate. E fu così che un codice capitò in mano a un insegnante di storia, un certo Raghib Andarawus, il quale lo portò al Cairo e dopo alcune peripezie il codice fu acquistato dal curatore del Museo Copto, Togo Mina; si trattava del terzo Codice. Raghib fu, in seguito, la principale fonte d’informazione sulle vicende dei manoscritti dal loro ritrovamento fino al Cairo.

Un tesoro manoscritto
Nell’ottobre dell’anno seguente Togo Mina ricevette la visita di Jean Doresse (1917-2007) giunto in quei giorni dalla Francia per uno studio sui monasteri copti, estrasse da un cassetto il manoscritto e lo mise tra le mani del visitatore domandandogli se fosse capace d’identificarne il contenuto: i caratteri erano molto chiari, la disposizione elegante, Jean Doresse lesse, quasi incredulo: «Libro sacro degli Egiziani sul grande Spirito invisibile…»; scorse altre pagine e lesse: «Il libro segreto di Giovanni…»; proseguì imbattendosi in due testi quasi identici: la lettera di «Eugnosto, il beato…» e «Sophia Jesu Christi». Fu così il primo studioso a «scoprire» un manoscritto della biblioteca Nag Hammadi.

Eravamo appena agli inizi e gli antiquari ne sapevano assai di più degli studiosi. L’antiquario belga Albert Eid mostrò a Doresse alcuni fogli appena acquistati: dopo una prima lettura, lo studioso riconobbe la natura gnostica degli scritti; in seguito il Codice venne acquistato dal professor Gilles Quispel (1916-2006) per conto dell’Istituto C. G. Jung di Zurigo quale dono di compleanno per l’insigne psicologo svizzero. Dopo la morte di Jung, e in seguito ad aspre polemiche sulla sua presunta esportazione illegale, il Codice venne restituito alle autorità egiziane.

Ma la gran parte del corpus manoscritto di Nag Hammadi finì – s’ignora attraverso quali vie – nelle mani d’una collezionista italiana, Marika Dattari, abitante al Cairo. Dattari mise i codici a disposizione di Doresse col permesso di esaminarli, prendere note, trascrivere quanto trovava di più singolare, di compiere cioè una ricognizione per la loro identificazione e valorizzazione. Al giovane studioso bastò poco per rendersi conto che questa volta non si trattava di fogli isolati, ma di codici in originali rilegature in pelle, tutte uguali. Via via che leggeva passava dalla sorpresa allo stupore: emergeva, per la prima volta, una «completa biblioteca sacra» d’una cerchia gnostica. La letteratura faraonica non aveva mai trasmesso una così ricca e omogenea serie di libri.

Un tesoro del genere non poteva restare in mano a privati. Il canonico Étienne Drioton (1889-1961) nella  qualità di Direttore Generale del Servizio di Antichità autorizzò Jean Doresse e Togo Mina a intervenire: l’azione fu tanto più semplice e rapida in quanto, almeno ufficialmente, il possessore era Dattari, che nella primavera del 1949 non tardò a rimettere tutto al Conservatore del Museo Copto del Cairo. Ormai era ben noto che questi manoscritti costituivano una delle più sensazionali scoperte fatte in Egitto fino ai nostri giorni, il cui valore scientifico superava quelle spettacolari della tomba di Tuthankamen. I manoscritti consegnati da Dattari, e con essi l’inventario provvisorio steso da Doresse, di comune accordo, furono posti al sicuro in una valigia sigillata e affidati al Direttore delle Antichità.

Nell’ottobre del 1949 morì Togo Mina. Il suo successore Pahor Labib (1905-1994) fu eletto nel 1952; ma per un insieme di eventi, il Direttore del Museo non poté pensare ai manoscritti copti fino al 1956, anno in cui furono dichiarati proprietà di Stato e ne fu affidata la responsabilità al Museo Copto. Ma tutta una serie di eventi geopolitici  rallentarono in maniera significativa lo studio e la pubblicazione dei Codici di Nag Hammadi.

Nag Hammadi

Tra gnosticismo & ermetismo
I manoscritti di Nag Hammadi sono cinquantadue, quarantasei sono diversi l’uno dall’altro (ma ve ne sono di doppi e tripli), quaranta di questi erano sino ad allora completamente sconosciuti (a eccezione di qualche frammento di tre di loro); coprono un totale di milleduecentoquaranta pagine scritte, e sono contenuti in tredici Codici; molte pagine sono frammentarie e altre così in cattivo stato che si può leggere soltanto qualcosa qua e là. Si ritiene che il cattivo stato di alcuni di essi e d’un certo numero di pagine risalga non alla condizione dei Codici all’epoca del ritrovamento, ma alla loro lunga storia e alle vicende che seguirono la scoperta.

Lo straordinario numero di questi manoscritti invitò a tentare una classificazione. La gran parte di essi riguardava lo gnosticismo, un possente fenomeno misterico nel cui alveo affluirono le più svariate fascinazioni esoteriche provenienti dal mondo ellenistico e vicino-orientale. Il mito centrale dello gnosticismo narrava di un mondo perfetto e perduto, il plērōma, dalla cui frantumazione sorgeva il nostro universo, l’universo della scissione in cui nulla era «reale»: tutto era creato affinché l’uomo soffrisse in balìa di potenze a lui oscure. Il cosmo era creato secondo gli Gnostici da un Creatore inferiore, un Demiurgo maldestro e ignorante. Secondo la più famosa versione del mito gnostico insegnata da Valentino (II sec. d.C.), esisteva all’inizio un plērōma in cui dimoravano in perfetta quiete una serie di entità luminose dette eoni, in greco Aiōn. Questi eoni erano appaiati in coppie maschili-femminili; l’ultimo di essi, il cui nome era Sophia, «Sapienza», era colta da una passione irrefrenabile: conoscere il Padre del Tutto, il Primo Eone, il Dio sconosciuto. Ciò turbò in modo sostanziale l’equilibrio del plērōma e provocò l’estromissione di Sophia. Scagliata nel «vuoto», il kenōma gnostico, Sophia si dibattè in un’angoscia senza fine; dalla sua paura e dalle sue lacrime nacque la hylē, la «materia», il nostro mondo. Affine a questo sentire, tra i manoscritti di Nag Hammadi si potevano leggere versioni molto antiche e genuine dei testi ermetici, tra cui spiccava L’Ogdoade e l’Enneade, un trattato che esponeva un cammino beatifico attraverso le sfere celesti.

Hermetica
«Ermetismo» è un termine moderno per indicare una pletora di scritti di natura pseudepigrafa, vergati in epoca ellenistica e attribuiti a Ermete Trismegisto, il «Tre volte grande», un personaggio del sincretismo greco-egizio esito dell’incontro fra Hermes, il dio greco della scrittura, dell’interpretazione (e del furto), e l’egizio Thot, il dio della sapienza e della scrittura, cui si attribuiva una florida letteratura magica. Pochi hanno rilevato come Hermopolis, la città in cui nell’Egitto tolemaico si venerava il dio Thot, già sin dall’Antico Regno (2700 a.C.) era chiamata Ashmunein, in scrittura geroglifica Ḫmnw, «(città degli) otto». In modo analogo, nella lingua dei faraoni «ogdoade» si diceva Ḫmnyw, e trascriveva un geroglifico di cinque segni affine a quello usato per esprimere il toponimo. La più antica attestazione dell’Ogdoade primeva risale in ogni caso al cap. 76 dei Testi dei sarcofagi del Medio Regno (dal 1500 a.C.).

È consuetudine suddividere l’ermetismo in due correnti principali: l’ermetismo cosiddetto «filosofico» e quello più propriamente «popolare» e ritualistico. Nella prima categoria si collocano i testi del cosiddetto Corpus Hermeticum, inclini a rappresentare in una visione dialogica una condizione umana il cui fine ultimo è la palingenesia, cioè la rigenerazione dell’uomo in un contesto cosmico. Secondo gli insegnamenti ermetici – affini a certo esistenzialismo contemporaneo – l’uomo è una sorta di «dio mancato».  Tali presupposti dottrinali – possiamo dire ontologici – sono comuni anche alla disciplina ermetica più «popolare», anche se più marcatamente ritualizzati. Questa può inoltre essere scomposta in due ulteriori rami: ermetismo alchimico ed ermetismo a base astrologica/astromagica.

Nel caso dell’ermetismo alchimico abbiamo a che fare con una disciplina di perfezionamento dell’essere a partire da valori cosmologici. L’occasione è offerta dai metalli e dalla loro relazione con le tipologie emozionali dell’uomo. Inoltre l’elaborazione di specificità relative ai metalli trarrebbe origine dal ferro meteoritico, che per la sua provenienza celeste era ritenuto forse più prezioso dell’oro, oltre che più raro. Già il legame linguistico che in greco lega la parola sideros sia a «stella» che a «ferro» rappresenta una traccia importante. Infatti l’osservazione del comportamento dei metalli nelle loro manipolazioni è vista comparativamente con gli stati e le condizioni emozionali dell’uomo, in una relazione che parte dagli astri.

Nag Hammadi

La via delle stelle
Gli astri infatti hanno un ruolo attivo nell’opera di trasfigurazione dell’uomo. I testi alchimici greci parlano di «tinture» (baphē) la cui azione è specifica solo in alcuni momenti, in sincronia con determinate congiunzioni astrali. Tali operatività sarebbero state comunicate da creazioni angeliche, dispensatrici di conoscenza all’umanità.  Secondo la versione dell’alchimista Zosimo, in un lontano passato, prima del Diluvio, sarebbero esistiti procedimenti di «tintura naturale» attraverso i quali gli uomini avrebbero avuto accesso ai segreti delle trasformazioni metalliche. In seguito ad un complotto dei «demoni vigilanti», già sconfitti dalle Potenze celesti, tali arcani caddero nell’oblio: accuratamente nascoste, queste ricette vennero raccolte e crittografate in alcuni trattati metallurgici attribuiti all’antico Ermete. In sostituzione di queste «tinture naturali» i demoni avrebbero introdotto con l’inganno delle tinture, cosiddette «occasionali», operative solo durante certe congiunzioni astrali

 E gli astri sono i protagonisti de L’Ogdoade e l’Enneade di Nag Hammadi, che espone un cammino beatifico attraverso le sfere celesti e si chiude con la preghiera di Ermete al figlio di scolpirne i discorsi in caratteri geroglifici su pietre turchesi di forma tetragonale. Le lapidi andranno poi nascoste nel recinto del tempio seguendo un preciso rituale astromantico, cioè riponendole nel momento in cui il pianeta Mercurio (= Hermes) sarà nella propria dimora, esaltato nel segno della Vergine, corrispondente a quindici gradi di elevazione. Tale era la posizione di Mercurio, secondo Firmico Materno (Math. 3, 1), al momento delle origini del mondo. Questo e altri testi presentano uno schema costante: un Salvatore scrive i propri insegnamenti su delle stele, su una pietra o altro materiale e li nasconde nel deserto, su montagne inaccessibili oppure in caverne; giunge poi una figura di rilievo della storia religiosa, scopre lo scritto, lo decifra e lo fa conoscere ad altri iniziati, recando, con la conoscenza, la salvezza.

Contemplare il divino
L’Ogdoade e l’Enneade è il racconto di un’esperienza eccezionale, la rigenerazione interiore unita alla visione estatica del mondo divino. Ermete afferma d’aver generato una forza tramite la fonte divina fluente in lui, e riferisce l’atto che sta compiendo al modo in cui ha generato quei figli presenti invisibilmente all’iniziazione. La forza di cui si parla è la controparte spirituale del discepolo, il «gemello» visionario destinato a percepire le realtà divine. Il culmine del dialogo è l’illuminazione, concepita come discesa d’una forza di luce permeante l’iniziato: lo vivifica, trasformandolo interiormente e provocandone la theōria, cioè la visione del mondo divino, della sorgente stessa dell’essere. Il testo ermetico esprime quindi la possibilità recata all’iniziato di riunificarsi a quel plērōma, a quella «pienezza» che il mito gnostico narrava come perduta in illo tempore. Ecco quindi spiegata la presenza di manoscritti ermetici, accanto alla cospicua quantità di trattati gnostici, nella biblioteca copta di Nag Hammadi. Entrato a far parte della comunità dei fratelli, figli d’Ermete, l’iniziato vive una rinnovata condizione esistenziale: acquisisce definitivamente la condizione del riposo di chi ha cercato e trovato il divino attraverso la visione. Dall’Ebdomade, tempo della giustizia e della legge, riceve dall’alto il dono dell’Ogdoade, che a sua volta rivela l’Enneade; e tale dono coincide con la visione beatifica. Dirà l’Asclepio, uno dei più noti testi ermetici, la cui fama dilagò in tutto il Rinascimento: «… per tua grazia, abbiamo conseguito questa luce così grande della tua conoscenza».

categorie
menu