Prosegue la collaborazione editoriale tra Limina e UNIMONT – Università della Montagna, polo d’Eccellenza dell’Università degli Studi di Milano a Edolo, nel cuore delle Alpi, specializzato nella promozione dello sviluppo delle montagne attraverso attività di formazione, ricerca e terza missione specifici per questi territori. A UNIMONT sono attivi il corso di laurea in “Valorizzazione e tutela dell’ambiente e del territorio montano” volto a formare specialisti del sistema montano e il Centro di Ricerca Coordinata per la Gestione Sostenibile della Montagna (Ge.S.Di.Mont.), in cui lavorano attivamente numerosi giovani ricercatori per innovare e rendere competitivi i territori montani. Dal 2017, negli spazi di Unimont va inoltre in scena “RacCONTA LA MONTAGNA”, una rassegna letteraria dedicata alla saggistica e alla narrativa di montagna che vuole metterne in risalto il “potere” culturale ed evocativo.
Con l’obiettivo condiviso di raccontare la montagna, l’ambiente, la natura, le mutazioni del paesaggio e della società, i modelli economici sostenibili, i nuovi stili di vita e la crescente sensibilità green, la redazione di Limina e Unimont percorreranno insieme il lungo sentiero del racconto di un cambiamento nel quale è giunto il momento di essere protagonisti, interrogando le voci di studiosi, scrittori, docenti, pensatori e studenti riuniti nella consapevolezza che non sono più rinviabili un dibattito e una riflessione, letteraria, critica e formativa, sul futuro del pianeta e di chi lo abita.
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Come passare dalla teoria alla praxis quotidiana, quando il mondo intero ha iniziato a mettere in testa all’agenda la sostenibilità ambientale, il dialogo con la montagna e il suo eco-sistema, l’economia green e una rinnovata attenzione verso la salute del pianeta e il futuro stesso della vita umana? Un’intera generazione – negli anni della nuova consapevolezza, delle battaglie pubbliche e del richiamo, lento e ricco di echi antichi, della terra e dei suoi frutti – ha abbandonato i comodi tracciati che la società le aveva predisposto per ricostruire insieme, in una nuova pratica collettiva e diffusa, un nuovo concetto di abitabilità, tanto del territorio montano quanto del pianeta stesso.
Questo processo di ritrovato dialogo tra le nuove generazioni e la montagna passa attraverso la passione per la natura spesso tramandata dai genitori e dai nonni, ma anche tra i banchi delle aule scolastiche e universitarie, dove un retaggio culturale si modella e diventa mestiere e professionalità capace di dialogare con le sfide del nostro tempo attraverso nuove forme di imprenditoria e di azienda nel settore agro-alimentare: l’amore per l’ambiente si tramuta in missione di vita, in una piccola e significativa filosofia quotidiana che si fonda sui concetti di lentezza, di ascolto, di cura.
Così è per Alice e Jonathan, che nel dicembre del 2020 hanno fondato l’azienda agricola Il Larice a Malonno, paese di poco più di tremila abitanti in alta Valle Camonica, in provincia di Brescia. «Io sono nata in questo territorio, mentre mio marito viene da Varese» ci racconta Alice. «Ci siamo conosciuti nel 2014 sui banchi dell’Università della Montagna Unimont di Edolo, eravamo entrambi studenti, accomunati da una grande passione per gli animali e la natura. In estate ci capitava di salire in una malga sopra Sonico, e lentamene ci siamo appassionati alla zona di Malonno: quando abbiamo avuto l’occasione di aprire la nostra azienda ci siamo detti che era giunto il momento di provare a metterci in gioco. Abbiamo dovuto fare della gavetta perché nelle nostre famiglie non c’era questo tipo di tradizione, e la vera sfida è stata avviare l’impresa cominciando da zero, con le nostre forze».
La giovane coppia si è rimboccata le maniche, affrontando i sacrifici che richiede il lavoro in montagna. «La nostra è una realtà di piccole dimensioni, siamo solo io e Jonathan. Lui ha anche un altro lavoro perché è ancora difficile vivere solo di questo: ci vorrà ancora qualche anno ma il nostro obiettivo è riuscire a farcela con questa azienda. È ancora presto, ma sentiamo di essere sulla buona strada. Abbiamo tante vacche da latte per la produzione di formaggi; Jonathan ha fatto un corso di arte casearia, e grazie a questo studio oggi possiamo produrre formaggi, burro e yogurt trasformando il latte delle nostre vacche. Abbiamo anche un piccolo allevamento di maiali grazie al quale produciamo una piccola quantità di salumi. In inverno stiamo in azienda, mentre in estate saliamo alla malga Premassone, in Val Malga, dove le mucche possono mangiare un’erba migliore e il latte di conseguenza diventa di qualità maggiore, ricco di carotenoidi. Lo si vede anche dal burro, che in inverno è molto chiaro, mentre in estate si colora su tonalità di giallo. Così, verso metà giugno partiamo verso il rifugio a 1650 metri d’altitudine con tutto il nostro bestiame, una ventina di vacche grandi e piccole, un momento speciale».
L’attività è un intreccio fra tradizione e innovazione, una consapevolezza che poggia saldamente i piedi nelle origini ma che guarda anche alle nuove competenze richieste dal mondo contemporaneo. «Studiare è stato fondamentale, perché ci ha aperto la mente. Vediamo molti giovani che danno continuità alle imprese famigliari sottovalutando lo studio, ci dicono che lavorano in quel modo perché così facevano i loro nonni. È una cosa molto bella perché la tradizione è qualcosa che si tramanda, ma allo stesso tempo oggi è importante introdurre un po’ di innovazione, un po’ di sapere aggiuntivo. Una volta per fare la ricotta si guardava alle fasi lunari, al tempo… e nessuno sapeva che invece la chiave è l’acidità. È bello studiare a capire questi processi, si comprende la lavorazione e si apre la mente. Noi ad esempio facciamo lo yogurt, un’innovazione in questo territorio perché non fa parte della tradizione di qui: i gusti della gente cambiano in continuazione, e per questo abbiamo introdotto anche le robioline, le formaggelle morbide e tante altre innovazioni».
Il percorso di questa coppia è fatto di caparbietà, anche quando il sentiero non è facile e bisogna essere determinati. «Molta gente è stupìta nel vederci fare questo mestiere, ci mettono in guardia soprattutto per proteggerci, sanno che con gli animali si lavora sempre, non c’è vacanza. Però tutti riconoscono il valore della nostra scelta, magari inizialmente sono scettici ma dopo aver assaggiato i nostri formaggi capiscono che seguiamo tutti i passaggi, dalla mungitura alla stagionatura, fino al confezionamento. Tutto il processo è nelle nostre mani. Vedendo il mondo di oggi, mi ritengo fortunata per la vita che sto facendo, anche se è fatta di tanti sacrifici, perché non ci sono sabati o domeniche. Bisogna ritagliarsi qualche momento di svago, ma devi esserci ogni giorno e puoi farlo solo se hai una grande passione. Posso dire che questo è un lavoro che crea dipendenza: quando siamo lontani dai nostri animali subito ci mancano, sentiamo un legame stretto».
Legame. È questa la parola che risuona quando si sceglie di lavorare in montagna, allontanandosi dai grossi centri urbani per riscoprire una nuova cifra esistenziale e professionale, inseguendo un sogno che diventa una nuova possibilità di vivere il rapporto con l’ambiente. È così che arriviamo in alta Val Trompia a Ludizzo, frazione di Bovegno che oggi conta trentuno abitanti, all’azienda agricola Cosa tiene accese le stelle, tra il lago d’Iseo e il lago di Garda. Qui ci accolgono Stefania e Simone, marito e moglie, lui originario dell’Appennino piacentino, lei bresciana; dopo aver scandagliato un po’ di zone, dal Piemonte al Trentino, hanno trovato in questo posto una cascina circondata da quasi due ettari di terreno tutto accorpato, una rarità in montagna: una buona base per sviluppare un’idea. «Io e Simone ci siamo conosciuti mentre studiavamo in Unimont, era il 2009» spiega Stefania. «Tre anni dopo ci siamo laureati, e abbiamo deciso di unire i nostri sogni. Volevamo trovare un’occupazione in montagna, e così è nato un progetto di lavoro che è subito diventato anche un progetto di vita. Nel 2012 abbiamo aperto la nostra partita iva, e con l’aiuto delle nostre famiglie abbiamo acquistato la cascina e il terreno. Da lì tutto ha avuto inizio».
A colpirci è subito il nome dell’azienda, che ha il sapore di un desiderio condiviso, di un sentimento che precede l’idea imprenditoriale. «Cosa tiene accese le stelle è il titolo di un libro del giornalista Mario Calabresi. Ci è stato regalato dai miei genitori quando eravamo in università, racconta le storie di persone che in vari campi sono riusciti a raggiungere il proprio sogno nonostante le avversità e gli ostacoli. Quello era il periodo in cui io e Simone stavamo iniziando a parlare del nostro progetto, ma spesso ci dicevamo che sarebbe stata una decisione folle, che non ci saremmo riusciti perché partivamo da zero, non avevamo una storia imprenditoriale alle spalle. Ancora oggi credo che molti lo credano un progetto folle. Ad ogni modo, ci è sembrato di buon auspicio dare questo nome alla nostra azienda perché rappresenta bene il nostro percorso. Quando due anni fa un incendio ha distrutto una buona parte della nostra attività e abbiamo dovuto ricostruire tutto dall’inizio, abbiamo capito appieno il senso di questo titolo, e oggi ha un significato ancora più profondo per noi. In quel momento di difficoltà abbiamo sentito intorno a noi tanta solidarietà che ci ha salvato psicologicamente. A distanza di due anni, conserviamo più ricordi positivi che negativi di quei giorni, abbiamo imparato molto».
Il percorso di Stefania e Simone è fatto di anni di studio, preparazione, pazienza e progettazione, sul filo dell’amore per la montagna. «Spesso i giovani scappano dalla montagna, noi invece siamo tornati. Recuperiamo pezzi di terreno che da anni non era coltivato, un lavoro di recupero della montagna che la fa rinascere. Molti si stupiscono quando diciamo che abbiamo studiato per fare questo lavoro: studiare ha dato un valore aggiunto al nostro modo di impostare l’azienda e di lavorare. L’università ci ha permesso di aprire il cervello, ampliare le nostre vedute, avere la predisposizione a valutare cose nuove, anche mai fatte, che sono più valide di quelle che c’erano prima. Spesso, mentre abbiamo iniziato a coltivare, davanti ai problemi siamo tornati ad aprire le dispense e i libri universitari per cercare di capire e valutare. Abbiamo sempre cercato di cavarcela da soli, facendo riferimento al nostro bagaglio di studi, anche con un confronto con i nostri docenti dell’università. Il lavoro lo devi imparare sul campo, giorno dopo giorno, ma Unimont ci ha aperto la testa. Ci ha insegnato ad esempio come diversificare il prodotto: ricordo che avevamo un corso che ha sempre insistito sulla diversificazione, sull’obiettivo di costruire un’attività multifunzionale per renderla appetibile sul mercato. Durante i corsi abbiamo anche conosciuto altri ragazzi provenienti da altre regioni: si creano legami con altre persone che fanno il nostro lavoro, uno scambio e un confronto che dura ancora oggi. Ci sentiamo e ci aiutiamo».
Oltre lo studio c’è la prova del nove, quella della terra, del sudore, della soddisfazione della coltivazione di prodotti di qualità. «Inizialmente abbiamo entrambi trovato un’occupazione esterna alla montagna, e quei due lavori ci hanno permesso di aprire un mutuo per iniziare a ristrutturare la cascina. Abbiamo poi iniziato a lavorare il terreno, creando nove terrazzamenti per avere una superficie piana e permetterci di iniziare a coltivare l’orto, i fiori e le piante aromatiche. Oggi coltiviamo principalmente piccoli frutti, frutti di bosco come mirtilli, lamponi, uva spina e ribes. Poi abbiamo le piante ad alto fusto che danno frutti come mele, pere, pesche e albicocche: sono tutte varietà antiche, meno produttive in termini di numeri ma più resistenti alle malattie. Nel 2014 abbiamo anche inaugurato l’apicoltura, abbiamo iniziato con poche famiglie e oggi siamo a venti, ventidue. Nel frattempo abbiamo ristrutturato la casa e il laboratorio di trasformazione, che abbiamo avviato nell’ottobre del 2016. Poi abbiamo aggiunto anche gli ortaggi, i legumi, i fiori commestibili come il nasturzio, il fiordaliso e la calendula, che essicchiamo e proponiamo in mix per piatti elaborati, tartine e biscotti, oltre alle erbe aromatiche officinali. Facciamo anche gli sciroppi con erbe e frutti, frullati, composte, tisane e sughi. L’anno scorso abbiamo chiuso il cerchio creando anche una piccola linea di cosmetici che contiene le nostre materie prime, i lamponi, la zucca, il miele, la cera d’api e tanto altro. È stata una cosa graduale, passo per passo, cercando di fare tutto al meglio, un lavoro durato diversi anni. Le attività sono davvero molte, e dal primo ottobre dello scorso anno io e Simone lavoriamo a tempo pieno in questo sogno che è diventato una realtà».
Accanto alla crescita dell’azienda, c’è una strada che Stefania e Simone affrontano insieme, una strada personale nella quale il rispetto per la natura, con le sue gioie e le sue asprezze, si fonde con una nuova idea di rispetto per il pianeta. «Vita e lavoro sono mischiati e si toccano. Lavorare con la natura ti insegna ad abituarti al suo ritmo, capisci presto che certe cose non puoi modificarle, puoi solo accettarle. Il nostro lavoro dipende da lei, dal meteo, alcune volte dal caso. Magari arriva una grandinata o un periodo di siccità e vedi mesi di lavoro sfumare. Devi trovare il modo per ovviare al problema, accettando a volte che quell’anno andrà tutto male e dovrai rimboccarti le maniche il successivo. Ci sono tempi molto lunghi, per noi è una scuola di pazienza, di resilienza: devi accettare che alcune cose nella vita devi accoglierle per quello che sono».
Riportare alla vita lembi di montagna, sapendone rispettare i capricci e gli improvvisi squarci di meraviglia, esonda dalle competenze dell’attività economica creando prodotti in modo consapevole e sostenibile, in una nuova idea di comunità fondata sulla prossimità e sull’ascolto, soprattutto sulla comprensione dell’esistenza e, forse, persino delle segrete leggi che definiscono il senso del nostro stare insieme. «Dentro i nostri prodotti ci siamo noi, che li seguiamo dal seme fino all’invasettamento finale. Per noi ha un significato morale, un valore aggiunto di cura della persona, oltre alla qualità in sé. Lavoriamo e lottiamo su un terreno che sarebbe altrimenti destinato all’abbandono, lo rendiamo rigoglioso. Dietro ad ogni prodotto c’è una storia, una storia nostra ma anche di un territorio. Storie che sono piene di sogni e anche di fallimenti, dai quali bisogna sempre trarre una lezione. Questo lavoro ci insegna che dobbiamo imparare a contemplare il fallimento, che a volte fa parte del lavoro ma anche della vita, rialzandosi e ripartendo. Stiamo vivendo un tempo nuovo. Siamo cresciuti col mito dell’infallibilità, in passato ci hanno detto che potevamo ottenere tutto ciò che desideravamo… non è vero. Ogni giorno ci accade qualcosa, in montagna così come nella nostra esistenza, e bisogna trovare insieme il modo di uscirne. Si trova sempre».