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Come il Covid sta cambiando l’Africa? Diario di un’espatriata a Nairobi

Nairobi è diventata da qualche anno la mia seconda casa. Nonostante un rapporto teso, difficile, spigoloso con la città, sono riuscita a ritagliarmi uno spazio di vita personale sereno e gioioso. Una vita comoda, agiata, fatta di weekend bagnati dalle calde acque dell’oceano indiano, affaticati da lunghe camminate sull’orlo di crateri vulcanici o riscaldati dal calore della macchina sobbalzata da strade sterrate nella savana. Dall’Italia, spesso, le persone mi fanno i complimenti per la mia decisione “coraggiosa” di trasferirmi in Africa – monolitico concetto di arretratezza e sottosviluppo – e talvolta fatico a convincerle che la vita a Nairobi, per me, musungu (persona bianca) è più semplice che in Europa, e decisamente più tecnologica, vivace e flessibile di quella di tante città italiane. La verità è che, però, questa mia vita allegra e spensierata si dipana all’interno di una bolla di espatriati come me. Il mondo fuori, pertanto, mi rimane per lo più alieno.

La capitale del Kenya è un agglomerato urbano in continua espansione, una fusione di baraccopoli e ville suntuose, dove la visione di bambini di strada che sniffano colla agli angoli delle strade del centro si alterna a raffinate scuole internazionali, dove autisti sottopagati accompagnano a scuola i figli delle famiglie più abbienti. Nairobi è una città dalle mille contraddizioni e dai forti contrasti, in cui io mi sento sempre e solo osservatrice. In questo spazio di mondo poco sotto l’Equatore, il 13 marzo è stato registrato il primo caso di coronavirus.  Nel giro di pochi giorni si è creato un via vai generale e molti espatriati hanno deciso di rientrare nei propri Paesi d’origine, consci del precario sistema sanitario e del rischio che Nairobi, hub tecnologico per eccellenza del Corno d’Africa, si trasformi in una bomba a orologeria a causa del repentino peggioramento delle condizioni socio-economiche del Paese. Io – come molti altri – ho deciso, invece, di rimanere. Non perché incosciente dei rischi, ma perché non sapevo dove altro andare. Rientrare in un’Italia martoriata dal virus, mettendo a rischio i miei familiari? In Olanda, dove stavo facendo un secondo master e dove ho lasciato una camera che è stata velocemente riaffittata? Per me, la scelta più semplice è stata quella di restare.

Nairobi

Dopo pochi giorni dal primo caso accertato, il governo keniano ha deciso di imporre severe misure restrittive, come il coprifuoco giornaliero dalle 19 alle 5, chiusura di bar, ristoranti e aeroporti e obbligo dell’uso di mascherina e distanziamento sociale – sebbene sia impensabile per il 40% della popolazione di Nairobi che vive gomito a gomito nelle baraccopoli della capitale. Anche se i casi accertati sono al momento poco meno di 2000, se il virus si dovesse diffondere tanto quanto si è diffuso altrove, il sistema sanitario non sarebbe in grado di rispondere alla crisi e molte persone, soprattutto tra le fasce più vulnerabili della popolazione, non sarebbero in grado di affrontare le spese mediche. C’è un altro fatto da tenere in considerazione: mentre io conduco una vita protetta tra dolci mura domestiche scandita regolarmente da orari di lavoro, corsi universitari – che grazie alla pandemia sono diventati online – e qualche visita di amici più stretti per un bicchiere di vino in compagnia, altre migliaia di persone hanno perso il lavoro, come in molti altri paesi. Qui la differenza è che, però, molta gente vive alla giornata e perdere il lavoro significa perdere la possibilità di sfamare la propria famiglia. Pertanto, anche se il coronavirus fa paura, poiché è diventato chiaro che tutti siamo potenzialmente vittime e non si tratta di una malattia dei musungu, come si vociferava inizialmente, il più delle persone continua a camminare per le strade.

Nairobi

Cammina la signora di mezz’età, che sembra avere ancora trent’anni, per raggiungere il suo chiosco ai bordi delle strade, cammina il muratore fino al suo nuovo cantiere, cammina il giardiniere, in ritardo per sistemare il rigoglioso giardino di una bella villa, cammina il cuoco, il macellaio, il fruttivendolo, la commessa, la sarta. Le poche volte che faccio capolino dal mio appartamento e mi affaccio sul mondo esterno, mi sorprende vedere che la città,  sebbene viaggi a un ritmo leggermente meno frenetico, rimanga comunque gremita di gente che continua indisturbata a seguire i propri affari. Gli assembramenti di persone sono dunque inevitabili. Ai bordi delle strade i boda boda, moto-taxi, attendono in compagnia il nuovo cliente e, ancora sulle strade, abbondano le persone che cercano di vendere piante dalle foglie verdi e la terra rossa, mobili in legno posizionati perpendicolari alla strada, suppellettili, borse fatte di paglie intrecciate e tanto altro ancora.

Nairobi

Le strade rimangono dunque affollate, ma ci sono delle differenze rispetto a prima. Le persone indossano mascherine, spesso create con i materiali più disparati e, a volte, fatte con pezzi di kitenge, tipica stoffa africana dai colori sgargianti. Le mascherine monouso sono più rare. Quando corro intorno al mio quartiere, vedo molte persone che camminano con la mascherina posizionata sotto la bocca, lasciando naso e bocca scoperti, per poter respirare meglio – d’altronde non li posso biasimare, è davvero fastidiosa. Agli ingressi dei centri commerciali, dove vado per fare la spesa, le misure sembrano essere state prese più sul serio: insieme ai controlli di sicurezza più o meno meticolosi all’ingresso, c’è ora il punto disinfettante e il controllo della temperatura – sopra i 37.5 non ti lasciano entrare. Una volta entrati, di nuovo, prima del supermercato ti invitano a disinfettarti nuovamente le mani o forniscono guanti mono-uso, sotto gli occhi di personale intento a disinfettare i carrelli. Poi però, a volte, il personale dietro al bancone dei formaggi, bene di lusso per apoteosi, chiacchiera amabilmente senza mascherina e senza guanti.

Nairobi

Quando esco dal supermercato, mi piace fermarmi da Peter, il ragazzo dei fiori. Il Kenya è uno dei maggiori produttori di fiori, in particolare di rose, per il mercato europeo. La produzione al momento è stata messa in ginocchio dal coronavirus e molti produttori sono stati costretti a distruggere le rose che non potevano partire verso l’Europa e moltissimi braccianti (soprattutto donne) sono stati licenziati, senza sussidi né assistenza. Nel piccolo del mio quotidiano, ho deciso di comprare almeno una volta a settimana un mazzo di rose per sostenere Peter e illudermi di poter far qualcosa per il mercato florovivaistico del Kenya. Ogni volta che arrivo con la macchina sembra che non ci sia nessuno al baracchino di fiori, ma poi Peter arriva: è un ragazzo giovane dal sorriso sdentato. «Ehi Peter» lo saluto «prendo le solite»; lui me le sceglie, me le fa vedere e me le allunga dopo essersi coperto il viso con la mascherina. Pago sempre con M-Pesa, il sistema di pagamento elettronico che permette di trasferire denaro da un numero all’altro di cellulare, senza dover toccare banconote o monete. È nato nel 2007 e ha trasformato la vita delle persone; da quando è scoppiato il coronavirus il governo ne ha incoraggiato l’uso per evitare lo scambio di denaro. Quello che mi stupisce di Peter, però, è che non controlla mai di aver ricevuto i soldi, si fida del mio pagamento e con un svogliato cenno di saluto mi dà le spalle e se ne va.

La fortuna di vivere a Nairobi è che si può passare dal frastuono della città alla savana nell’arco di venti minuti. Nairobi è infatti l’unica città al mondo ad avere un parco nazionale al suo interno. Un parco a pochi chilometri dal cuore pulsante della capitale keniana: immense distese d’erba, interrotte ogni tanto da tonde chiome di alberi di acacia. In questa savana cittadina, si nascondono i grandi predatori, come leoni e ghepardi, e si cibano indisturbate giraffe dal lungo collo sullo sfondo dei grattacieli della metropoli. Anche qui, all’entrata del parco, da quando il coronavirus ha invaso di paura i cuori della specie umana, ranger armati di tutto punto chiedono ai pochi visitatori di fermarsi e scendere dalla macchina per poter fare il controllo della temperatura. Una volta che si entra nel parco, la vita, per un attimo, sembra essere tornata quella di prima: la tensione sale e si cerca di acuire la vista per poter avvistare animali che indisturbati conducono la loro pigra e assopita vita. Talvolta, si gira per ore senza vedere poi un granché, distese d’erba, uccellini, alberi, all’orizzonte nulla di nuovo. Poi d’un tratto s’intravede qualcosa: un gruppo di macchine a motori spenti, ci si avvicina e con stupore si scopre che sono tutti ad ammirare loro, i re della savana, che sonnecchiano sotto le fronde. Una leonessa alza lo sguardo, apre un occhio, si è accorta del nostro arrivo, richiude l’occhio e si ridistende a sonnecchiare. Chissà cosa pensa, chissà se si è accorta del coronavirus, forse sì, forse si è accorta che questi pazzi esseri viventi temono qualcosa, che non vengono più tanto spesso a disturbare la loro esistenza. Forse il regno animale non capisce esattamente, ma si rallegra di non vedere più enormi sciami di macchine rumorose, sfrecciare tra la macchia, e disturbare così il loro naturale corso di vita.



Photo credits: Koen Joosten

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