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Chi vive? Se Amleto in scena si affaccia sul Novecento

A teatro il classico di Shakespeare riletto da Davide Sacco

Non si conoscono le motivazioni che hanno spinto la direzione artistica dell’Estate Teatrale Veronese, diretta al suo quinto anno da Carlo Mangolini, a scegliere come spettacolo inaugurale dell’edizione di quest’anno l’adattamento quanto mai libero e al medesimo tempo fedele dell’Amleto di William Shakespeare, che nella migliore tradizione contemporanea è diventato “da”. Se non ribadire la centralità nel programma pluridisciplinare della rassegna e nel trancio assegnato al teatro a Shakespeare e al festival, nella rassegna a lui dedicata con titoli e adattamenti delle opere maggiori. Peraltro con titoli accattivanti: Welfare Lear; Prato Inglese dittico con Romeo e Giulietta e After Juliet; Molto Rumore per nulla; per tacere dei protagonisti: Filippo Dini, Lodo Guenzi, Veronica Cruciani.
Ma vi è anche un “sottofestival” che proprio giù non è; d’altronde come definire gli otto spettacoli internazionali e in prima italiana che vanno a comporre il cartellone del Verona Shakespeare Fringe Festival al Teatro Camploy? Pertanto, diventa un fatto che nelle scelte la suddetta direzione si è sempre distinta nel convogliare, nel site-specific naturale del Teatro Romano, produzioni che collimassero con un sentire di titoli affini al pubblico fidelizzato dell’Estate.
Ciò però non ha tolto valore alla capacità di sperimentazione che, a memoria, almeno degli ultimi anni allentati dalla pandemia, si sono ritrovati, ad esempio, per una delle ultime regie di Eugenio Allegri, nel Teatro Comico di Carlo Goldoni con Giulio Scarpati (e Goldoni non può non starci anche nell’attuale programmazione con l’iconico Sior Todero Brontolon).

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Schiarito come dovrebbe essere a tutti il racconto della vicenda ed evitate le ovvie esegesi del testo scespiriano e tutte le implicazioni filosofiche, morali, psicanalitiche che ne hanno stratificato le interpretazioni e gli adattamenti dalla sua apparizione, l’Amleto di Davide Sacco – oltre la regia, sua è anche la drammaturgia – riesce nell’intento, per nulla scontato ed in questo aiutato dalla presenza scenica, ingombrante e catalizzatrice di Franco Branciaroli nel ruolo dell’anima inquieta e desiderosa di vendetta del padre di Amleto, di spingere la successione drammatica degli eventi che porteranno il figlio (un Francesco Montanari istericamente in parte) a compiere gli ordini del genitore in una texture postmoderna e metateatrale.
Lo spettacolo assorbe le lezioni pienamente comprese nel secolo breve: da Auden a Nabokov (e si tace della centralità del Bardo nel Canone Occidentale tracciato da Harold Bloom) e qui in Italia a pescare da un ampio mazzo fuoriescono tra gli altri (e tanti) Cesare Vico Lodovici, Agostino Lombardo, Marzio Pieri, Gabriele Baldini, per arrivare alle prove “in lingua” di Eduardo e di Testori (qui però c’entra molto il melodramma verdiano) e, perché no, alle indolenti escursioni, pure queste “in scena”, di una poetessa come Patrizia Cavalli. E di poeti-traduttori in Italia ce ne sono stati tanti che hanno sfidato l’opera di Shakespeare.

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Ph. Gaia Capone

Balzano all’occhio dello spettatore l’ambientazione della corte danese negli anni Trenta del Novecento, i costanti rimandi alla traduzione di Montale (posta in scena nel 1943, quando si consuma al suo massimo la tragedia della seconda guerra mondiale) con il suo opening affidato a un «Chi vive?» per giunta rivolto a qualcuno che è morto o dovrebbe esserlo, quando per citare altri due traduttori, peraltro agli antipodi, pure temporali, come Luigi Squarzina e Sergio Perosa, traducono il «Who’s there?» con il «Chi è là?», più consono vista la mala parata che si ha innanzi. Inoltre, il regista ha disseminato nello spazio scenico, diviso in più stanze, i cui confini sono tracciati dalle astrazioni della chitarra e dall’elettronica di Francesco Sarcina, il frontman delle Vibrazioni, elementi che appartengono a più autori del XX secolo. Per lo più appartenenti al cosiddetto Teatro dell’Assurdo. La platea di sedute che ingombra a lungo la scena strizza l’occhio al capolavoro di Ionesco, sottolinea la presenza-assenza di un pubblico che si vuol reinventato a ogni rappresentazione. E vi sono lacerti joyciani, scampoli beckettiani, cornici pittoriche che scavallano tecnologie antidiluviane come la lavagna luminosa che esalta a dismisura il volto del padre, che a sorpresa ed è questa l’ossessione filiale, al suo gruppo familiare.

Lo stesso strumento, a pensarci bene, evoca un’infanzia ingenua e senza fini, un’epoca d’oro per Amleto e non solo. Purtroppo breve. Per tutti. Ma su tutto vi è l’intenzione del regista di concedersi il lusso di esporre al pubblico una messa in scena a tesi che centra il bersaglio e pare far riecheggiare una felice intuizione in un saggio celebre di Massimo Cacciari: «In Amleto il soggetto è impotente a costituirsi come substratum della decisione e, mentre fa segno alla possibilità di nuovi ‘ordini’, senza mai riuscire a denominarli, è costretto a obbedire alla logica dei fatti».

Immagine di copertina di Gaia Capone
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