Un viaggio nella geografia della musica, oltre i confini spaziali e temporali. È nelle librerie il volume Attraverso le Terre del Suono (Edizioni Underground?, 2019), raccolta di scritti firmati da Davide Sapienza dal 1984 ad oggi, dedicati ad artisti come Syd Barrett, David Bowie, Beatles, Daniel Lanois, Robert Wyatt, Pink Floyd, Scott Walker, Tom Verlaine e molti altri, e pubblicati su riviste cult come Diario e Specchio.
«La musica resta la voce cosmica più stupefacente: essa non vive di intenzione ma di essenza». Un’essenza che riecheggia nell’estratto che vi proponiamo, dedicato al musicista Brian Eno.
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(…) Brian Eno, icona culturale sfuggente, teorizzatore e realizzatore, musicista-non-musicista, lo immagino come un avvenimento, nella vita di molte persone che ogni giorno rinnovano la fede nella forza dell’arte: abbiamo tutti inalato una sostanza invisibile che fa parte dell’atmosfera come l’ossigeno. Respirare non è un pensiero, ma un atto di vita e così è la musica, il miracolo dello stregone che manipola l’energia, facendosi incarnazione temporanea del divino, come un’aurora boreale, che accade oltre l’atmosfera ma è visibile dalla terra.
Dove si innesca allora l’idea della musica come continuum ambientale paesaggistico, viso della bellezza nel territorio? L’opera di Brian Eno è una sorta di esodo biblico che si svolge mentre accade e che il navigatore interpreta mentre attraversa le grandi distese di acqua e di terra. Musica liquida, una definizione che si avvicina all’Essenza (ascoltare Taking Tiger Mountain, dove si passa dalle onde del pianoforte-mare alla salita delle voci-montagna). Eno compie il percorso allontanandosi dal flusso delle cose per lasciarci lo spazio di fruirle. Ha costruito l’arca e si è lasciato inglobare nel territorio dell’immaginazione, del foglio bianco da attraversare, più che da riempire: meno è di più, è una delle massime che ha applicato anche nel rock con risultati straordinari (John Cale, David Bowie, Devo, Talking Heads, U2, James) dove i suoi treatments sono passati e poi giunti a un pubblico di massa, senza perdere la propria forza innovativa e onirica. Allontanandosi da se stesso, Brian ha avvicinato l’essenza che compone le intuizioni tra le più folgoranti della musica popolare di fine ‘900.
Era la metà degli anni ‘70 quando Brian si fece trasportare dal suono di un album strumentale: «Ero a letto e c’era troppa quiete; una cassa dello stereo non funzionava, ma ero troppo debole per alzarmi per cui scivolai in un sonno intermittente, in un mix di antidolorifici e spossatezza. Ascoltai questo disco come se non avessi mai ascoltato musica: un’esperienza bellissima che mi donava la sensazione degli iceberg. Di tanto in tanto, percepivo i picchi più acuti, una cascata di note che emergeva al di sopra del suono della pioggia e poi di nuovo via, alla deriva. Cominciai così a pensare alla musica ambientale, una musica progettata deliberatamente per occupare lo spazio. La musica contemporanea era troppo intellettuale e ignorava le possibilità di catturare i sensi, mentre il rock andava nella direzione opposta: lì in mezzo immaginai di far succedere qualcosa di molto bello ma anche non impegnativo. Qualcosa che ti offrisse la possibilità di entrare nella musica ad un livello di tuo gradimento, con le cuffie oppure semplicemente come sottofondo. L’unica cosa che poteva corrispondere a questa idea era The Sinking Of The Titanic di Gavin Bryars. Il 9 maggio 1975 realizzai Discreet Music che, per me, cristallizzò questo nuovo stile».
Una collezione di ipnosi davvero unica perché nei suoni di questa musica discreta si coglie in pieno l’essenza sorgiva: Brian Eno non intendeva pensare a questa musica come a un esperimento. La tesi (l’esecutore come ricetrasmittente), aveva già conosciuto un’antitesi (l’alterazione sensoriale in un determinato ambiente) e fu così che trovò la straordinaria sintesi, una semplicità compiuta che non necessita di un oltre, che spazzava via la muzak, cioè i blandi rifacimenti strumentali di canzoni popolari sino ad allora utilizzati per la filodiffusione e i diversi ambienti, come innocuo sottofondo. Ma questa ambient music era un’altra cosa: la traversata dallo spazio-corpo allo spazio-immaginazione avrebbe reso ogni singolo ascolto irripetibile, come l’atto stesso della creazione. Un fremito senza fine per colmare di territori la nostra esperienza.
I suoni invadono la casa scaldata dal legno della tundra nordica, osservo i colori violacei del tramonto autunnale sul mare del nord. Sono spruzzi di luce che danzano con i suoni a forma di iceberg. Alzo lo sguardo e lascio gli appunti, cercando con lo sguardo qualcosa che esca dalle pieghe del mare, forse cerco le forme della musica discreta: è davvero mio quello che sto scrivendo, oppure sto semplicemente prendendo appunti dall’orizzonte? Forse Brian Eno non è mai stato avvolto nel torpore dell’autunno artico, che mi immagino così simile al suo di quella sera nel letto. La sua musica è geografia pura e incontaminata: The Equatorial Stars; The Plateaux of Mirrors; On Land; Evening Star; The Drop; Another Day On Earth. La musica nel mulinello vitale di Brian Eno fluttua come l’aurora che arriva nel buio, parlandoci di luce.
È un altro giorno sulla Terra e tutto è così chiaro: questo prestigiatore non usa trucchi, solo mappe da lasciar riempire a chi viaggia nelle terre dell’immaginazione; le più difficili da conoscere, le più affascinanti da cercare. Forse qui si chiude un cerchio, e forse Another Day On Earth è una parola d’ordine: preparatevi, è di nuovo il tempo di partire.