«Se ascolto dimentico, se vedo ricordo, se faccio capisco» recita un celebre proverbio orientale, che soleva ripetere Bruno Munari. Potremmo estendere il significato del verbo ‘fare’ e includervi anche la lettura: «se leggo capisco» – in fondo leggere è un gesto, un’attività completa, che impegna mente e corpo. Credo sia questo il senso profondo di un progetto editoriale come Awand, una rivista che al primo sguardo appare come ‘costruita’ oltre che pensata; da toccare con mano – fatta a mano. Un oggetto di scambio, che passa di mano in mano… e cosa scambia? Percorsi, di chi con le proprie mani ha fatto qualcosa: creatività.
Ma facciamo un passo indietro. Prima di tutto, Awand non nasce come «operazione culturale» mi spiega Antonio Cornacchia, direttore creativo della rivista. Il panorama editoriale è affollato di iniziative culturali con un intento apparentemente ‘normativo’, volto a indirizzare il lettore, a sensibilizzarlo riguardo determinati temi. Non vi è nulla di male in questo, soltanto che Awand non si pone questo obiettivo: l’organo della vista, infatti, non è un sistema atto a prendere la mira, a mettere a fuoco un bersaglio. Piuttosto, è un apparato ricettivo rispetto a una moltitudine di stimoli che abbraccia un panorama molto più ampio, in grado di comprendere porzioni di spazio che apparentemente sfuggirebbero al nostro ‘controllo’. Si tratta di porre l’accento sulla dimensione partecipativa cui i nostri sensi ci pongono dinnanzi.
Awand è termine dialettale, si pronuncia «auànd». Nel dialetto pugliese si traduce letteralmente con «agguanta», «afferra», ma in un senso più figurato: «fai attenzione».
Ciò ci pone immediatamente nella prospettiva giusta per apprezzare l’oggetto Awand: la carta ha una consistenza pregevole. Il nero dell’inchiostro si staglia netto sulla pagina, la qualità della stampa risalta le immagini, il formato permette di apprezzare l’impaginazione e rende comoda la fruizione dei testi: tutto è pensato a vantaggio dell’esperienza della lettura, che ne risulta avvalorata. Esperienza che non può prescindere dalla dimensione tattile cui è legata – il gesto della lettura è la forma stessa dell’attività di assimilazione e apprendimento che si sta svolgendo. Ridare corpo e possibilità al gesto significa tracciare i contorni di un’esperienza autentica. È questa una delle principali differenze che intercorrono tra la fruizione di contenuti online (o formati di lettura digitali) e l’utilizzo di un supporto cartaceo. Come ricorda Antonio, l’attenzione è meglio disposta se può avvalersi di uno strumento, come il libro, la cui estensione nello spazio è limitata e che, di conseguenza, necessita di localizzare (lì) la propria concentrazione.
Leggendo, ci imbattiamo in lunghe interviste ad autori e autrici che ci raccontano il loro rapporto con la creatività. Sono nomi noti del mondo dell’arte, altri meno conosciuti, che illustrano il proprio lavoro senza mettersi “in vetrina”, ma rielaborando criticamente il proprio percorso. La sensazione è quella di uno spazio di lettura molto ben curato, dove sostare. Come un intervallo di tempo prezioso che poggia su un supplemento cartaceo. La rivista, infatti, alterna le interviste a tre portfolio dedicati a poesia, disegno e fotografia. Nel primo numero i portfolio sono stati dedicati al fotografo Carmelo Eramo, e al disegnatore Guido Scarabottolo. Nel secondo numero un portfolio è stato dedicato alla poetessa Chandra Candiani, una delle voci più interessanti della poesia contemporanea, insieme alle fotografie di Chiara Fossati e ai disegni di Ilaria Urbinati. Nell’ultimo numero ci sono i portfolio di Maria Grazia Calandrone (poetessa), i disegni di Gabriella Giandelli (che ha realizzato anche la copertina) e le fotografie di Guido Mencari.
In copertina si trova sempre un’illustrazione molto curata, che appaga l’occhio e lascia immaginare storie. Ricordo a questo proposito il contributo di Guido Scarabottolo durante la presentazione del primo numero della rivista, alla libreria di vicinato Noi, nel quartiere Nolo a Milano. I disegni di Scarabottolo sono punti di sospensione che invitano l’osservatore a proseguire, a costruire la propria storia. Un disegno, secondo l’artista, non dovrebbe mostrarsi nella sua compiutezza, ma interrogare l’osservatore. In una formula: si pronuncia come una domanda, si scrive come uno spazio.
Ciò che anima la rivista è sicuramente lo «spirito di una fanzine, che si fa interprete del buon gusto senza per questo imporre alcunché, senza aspirare alla militanza culturale» prosegue Antonio. Eleganza e semplicità sono le parole chiave, che dischiudono un mondo in cui approfondire e incuriosirsi sono valori di per sé.
La rivista ha una tiratura limitata, ma un prezzo accessibile e viene distribuita esclusivamente online (sul sito della testata) e nelle librerie indipendenti. Ciò consente di creare un circolo virtuoso di scambi e incontri. Antonio mi racconta che in occasione dell’uscita del terzo numero della rivista è andato a consegnare personalmente le copie nelle librerie indipendenti dell’hinterland milanese. «La rivista sta prendendo corpo, col prossimo numero, che uscirà a ridosso dell’estate, faremo un bilancio e vedremo se eventualmente aggiungere, oltre alle interviste e ai portfolio, articoli di approfondimento sull’attualità. Siamo molto soddisfatti del lavoro svolto sino a qui e dei riscontri positivi che continuiamo a ricevere dai lettori».
Questo articolo esce in giorni drammatici, che toccano tutti noi e ci costringono a vivere con grande apprensione e angoscia per il futuro. Come ci poniamo di fronte al presente cupo che viviamo è una questione non da poco, e l’editoriale scritto da Antonio Cornacchia per accompagnare il secondo numero della rivista (uscito nel Dicembre 2021/2022) mi sembra un’ottima rappresentazione della postura collettiva che, nel suo piccolo, la rivista Awand auspica e persegue.
Riconoscere chi e che cosa.
Copertina bianca come la neve dell’inverno, stagione che accoglie questo secondo numero. Col tempo probabilmente si sporcherà, ma va bene, non abbiamo manie di perfezione e i segni del tempo ci piacciono.
Su quel bianco ombre scure. Lunghe come il percorso di Igort che le ha disegnate, come l’intervista che ci ha rilasciato. Ricca di incontri, riviste, segni, immagini, suoni e orizzonti.
A lui va un ringraziamento particolare per la pazienza e la disponibilità. Grazie anche a tutte le autrici e agli autori che ci accolgono e rispondono alle tante domande che poniamo. Grazie, infine, alle persone che ci cercano in libreria, online e alle presentazioni: vi siamo grati per la fiducia, l’attenzione e la curiosità che dimostrate nei confronti di questa rivista di carta, piccola ma con qualche ambizione, come questa:
L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme.
Due modi ci sono per non soffrirne.
Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto
di non vederlo più.
Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio.Italo Calvino
Le città invisibili, 1972