Search
Close this search box.

Dio, famiglia e vicinato. L’America e le armi nell’epoca di Trump

Pochi mesi prima del lockdown mi trovavo a Panama, frontiera eterna del Centro America e dogana di transito per merci, sostanze stupefacenti e migranti africani in rotta verso gli Stati Uniti. Da sempre terra attrattiva di spie e contrabbandieri, negli ultimi decenni Panama è diventata anche un rifugio per anziani statunitensi in cerca di una pensione fresca e rilassata, lontana da polverose città del sud e tassazioni invadenti. Quel viaggio è stato per me occasione per due incontri tanto fortuiti quanto illuminanti sull’insanabile frattura tra le due anime del popolo americano, cioè tra chi considera le armi un diritto inalienabile e chi un rischio costante per la propria incolumità. Due dialoghi che ho raccolto e che ci restituiscono uno sguardo dall’interno dell’America al tempo di Trump, alla vigilia delle elezioni che decideranno la rotta degli anni a venire.

Siamo a Santa Fe, sulle montagne centrali del Panama, quando avviene il primo incontro. È l’alba, il Bed and Breakfast un curioso mix di accoglienza asiatica e atmosfera latina («la migliore cucina cambogiana dell’America centrale» pronuncia fiero il sito internet, incurante del bizzarro cortocircuito culturale). L’uomo somiglia a Ernest Hemingway, ha occhi calmi e generosi, ma un’inquietudine sommersa lo fa apparire come un fantasma dal passato tormentato. Fa colazione da solo, particolare che non lascia indifferenti in questa dorsale centroamericana dove gli yankee si rifugiano quasi esclusivamente a coppie. Vedovo, penso erroneamente. Sorseggia il suo caffè, taglio il suo spazio visivo due volte, è lui ad attaccare discorso. Sono le sette di mattina, alle otto io e la mia compagna abbiamo un pullman da non perdere e sarà complicato rispettare l’appuntamento: l’uomo ha molta voglia di parlare.

Mi racconta la sua storia: missionario (ne esistono ancora, mi domando?), originario dell’Indiana, «ma vicino a Louisville, Kentucky» sottolinea, come a scrollarsi di dosso una patina di provincialismo. Viaggia senza moglie perché la meta che si è prefissato è troppo pericolosa per coinvolgerla: si tratta del Darien, remota regione panamense al confine con la Colombia, famigerato rifugio di narcotrafficanti nonché inferno nell’inferno per i migranti che dall’Africa tentano la fortuna lungo la stretta via centroamericana. Non ci sono strade laggiù, non puoi muoverti da solo, soltanto affidarti a qualcuno del posto che ti guidi nella giungla e provi a tenerti lontano dai guai. Guai che si verificano regolarmente sotto forma di agguati, rapine, stupri, omicidi. Il Darien è un cimitero a cielo aperto. L’uomo dice che prima di entrare nel Darien la polizia ti fa lunghi discorsi per scoraggiarti e convincerti a cambiare destinazione; sanno che se ti succede qualcosa saranno loro a doverti recuperare, e nel Darien qualcosa succede sempre. Non a caso, è l’unico tratto mancante della Panamerican Highway, mitica rete di strade che collegherebbe altrimenti ininterrottamente l’Alaska alla Patagonia.

armi

L’uomo parla, io osservo. La barba bianca. L’orologio di metallo al polso. Un missionario che percorre la colonna vertebrale del Centro America alla ricerca di nativi da convertire al Cristianesimo, nel terzo millennio, qui davanti a me. È lui ad approcciare il tema delle armi. Non ci sto pensando quando l’uomo, in evidente legame connettivo tra la pericolosità della propria meta e la cronaca in madrepatria, mi domanda se in Italia siano in vigore restrizioni per viaggiare negli Stati Uniti. Oggi penseremmo al Covid, ma non era così fino a pochi mesi fa. L’uomo intuisce che non ho compreso, e in effetti è così. Mi ricorda che nel 2019 negli Usa sono avvenuti oltre 400 mass shootings, espressione da noi inesistente perché difficilmente la violenza si esprime in queste forme al di qua dell’Oceano Atlantico: è raro che un europeo uccida un numero elevato di connazionali durante un singolo episodio. Più spesso, gli dico, sono i femminicidi a tenere banco sulle testate nazionali. L’uomo annuisce, triste. Dice che è incomprensibile come il governo non ponga un freno alla circolazione delle armi. Mi spiega che la propaganda di destra sostiene che bandendo le armi un criminale troverà comunque un modo per procurarsi una pistola, rubandola nelle abitazioni dei civili o acquistandola al mercato nero, e che la libera vendita sia l’unica modalità efficace per schedare i proprietari. La propaganda di destra ne fa una questione di controllo, conclude. Io annuisco, bevo il mio caffè, c’è silenzio per un minuto e poi l’uomo torna a sorridere, mi racconta di Panama e di quanto adori stare qui. Dice di voler vivere dieci mesi all’anno su queste montagne e i restanti due negli Stati Uniti, ma solo perché i nipoti abitano là, altrimenti vivrebbe sempre e soltanto qui. Confessa che a Natale tornerà negli Usa a malincuore, e lo farà perché i parenti ci tengono. «È il periodo più bello dell’anno, a Panama. Non vivrò per sempre» conclude rammaricato. Gli stringo la mano e rifletto su quanto differente sia la mentalità di un genitore in America e in Italia. Non sarà l’unico episodio a farmelo pensare durante questo viaggio.

Il giorno seguente siamo a Boquete, sempre sulle montagne ma più a nord e più in alto rispetto a Santa Fe. Boquete è una cittadina adagiata sulle pendici di un vulcano a oltre mille metri di altitudine, e questo garantisce riparo dall’afa tutto l’anno. È patria del caffè più prestigioso del mondo, il Geisha, varietà giunta dall’Etiopia per vie misteriose e arrivato a costare oltre 2000 dollari al kg sul mercato internazionale. Facciamo colazione in un bar prediletto dalla gente del posto, un locale tranquillo gestito da Olga, donna di mezza età che all’ingresso ti bacia le guance e chiama tutti mi amor. Siamo qui da pochi minuti quando una coppia di americani, sempre anziani ma meno in forma del sosia di Hemingway, ci domanda da dove veniamo e a fronte della nostra risposta grida – realmente grida – di gioia. L’Italia li eccita, parlano sovrapponendosi e zittendosi a vicenda, come gli anziani in ogni angolo del mondo occidentale.

Mentre la donna conversa con la mia compagna, l’uomo mi racconta di essere nato in Ohio, ma cresciuto in California («nel mio periodo da single» dice mimando l’espressione oh my god al riparo dagli occhi della moglie). Parliamo di Italia e Panama, di come adorino il cibo e la gente di queste due mete parimenti esotiche per loro. Mi viene in mente la conversazione del giorno prima. Automaticamente e – mi rendo conto poi – con poco tatto, chiedo all’uomo di offrirmi il suo punto di vista sulla questione delle armi. Gli dico che un suo connazionale mi ha chiesto se in Italia fossero in vigore restrizioni per viaggiare negli Usa. Per via dei mass shootings, specifico. Per la prima volta il sorriso dell’uomo, fin lì onnipresente, si incrina, la voce si abbassa, l’uomo si pulisce la bocca con il tovagliolo (io sto mangiando french toast, lui un piatto mastodontico di carne, formaggio e verdure) e mi dice che la stampa promuove sempre un solo punto di vista, senza mai fornire il quadro completo. Mi incuriosisco, gli domando quale sia il quadro completo.

L’uomo si sporge verso di me come a restringere il palco a un dialogo appartato e importante. Espira rumorosamente attraverso tubicini dell’ossigeno appesi alle narici. Dice che la stampa tralascia le migliaia di storie nelle quali un civile armato abbia risolto una situazione prima che diventasse drammatica. Dice che ogni settimana una rivista promossa dalla National Rifle Associaton riporta cronache di civili armati salvatori di vite umane. Dice che la libera vendita è l’unico modo per sapere chi possegga le armi e controllare i criminali; se perdi il controllo perdi tutto, dice gettando con disprezzo il tovagliolo sul tavolo, un gesto talmente teatrale da stupire perfino un italiano. Mi domanda se io abbia sentito parlare di ciò che è successo in Oregon, poi scuote le mani seccato; «Ovviamente no» dice. In Oregon un uomo armato ha sparato alle spalle di un ladro che stava compiendo una rapina. «Prima che la polizia intervenisse» aggiunge fiero. Dice che sia lui che sua moglie sono ottimi sparatori, «mia moglie anche più di me» dice orgoglioso. Dice che adora Panama perché la giustizia funziona nello stesso modo: se qualcuno subisce un torto, la soluzione è il machete. Nessuno va da un avvocato. Dio, famiglia, vicinato. Sono i tre fari guida. In quest’ordine, sottolinea.

Il sole ha lasciato la stanza ed entrambi lo interpretiamo come un segnale per riallargare la scena e riportare la conversazione su tematiche più leggere. La coppia ci parla dei rispettivi figli, frutto di matrimoni precedenti. Hanno entrambi voglia di raccontarci tutto ed è proprio come in Italia, gli anziani si accavallano e combattono colpo su colpo per l’attenzione di due estranei che non corrisponderanno mai pienamente la loro foga. Li salutiamo, di lì a poco abbiamo in programma la visita di una piantagione di caffè. In stanza indosso le scarpe da trekking e ripenso ai due uomini e alle due conversazioni, al senso di impotenza del primo e alla fierezza patriottica del secondo.
Il clacson di una jeep mi richiama al presente, io e la mia compagna usciamo e ci rigettiamo sulla strada.

categorie
menu