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W. B. Yeats, navigatore della Grande Memoria

Sono esistiti uomini, disseminati lungo le ronde del divenire, che sembrano essere nati per adempiere a un compito sacrale e, per le rispettive epoche, rivoluzionario. Non si tratta di ministri di culto, perlomeno non nella stretta accezione del termine: essi sono piuttosto visionari, veggenti e poeti. Già Giorgio Colli, in La nascita della filosofia e Apollineo e dionisiaco, ha dimostrato come tanto la poesia quanto la filosofia ellenica furono dirette discendenti dell’arte della mantica, figlie di secondo letto dell’incontro col Divino e con il suo enigma imperscrutabile: poeti e filosofi ricevettero così in eredità la sapienza degli iatromanti.

William Butler Yeats, insieme ad altri che lo precedettero (Blake, Keats, Shelley), merita di entrare di diritto in questo pantheon di anime al di sopra del tempo. L’intera sua opera — e prima ancora l’intera sua esistenza — fu consacrata a una Visione: risalendo in direzione contraria la corrente, egli si fece bardo in un’epoca che aveva bandito ogni carme, dimenticato Arcadia, negato e ridicolizzato la conoscenza degli antichi Druidi.

Yeats
William Butler Yeats

Yeats era della convinzione che magia e poesia fossero nate insieme, fondando la propria efficacia sulla più grande di tutte le forze, il simbolo, che «viene usato sia, coscientemente, dai maghi, che, meno coscientemente, dai loro successori, poeti, musicisti e pittori» (Oliva, 1998). La parola poetica viene vista così come l’aggiornamento dei suoni prodotti dai maghi per gettare incantesimi: ne consegue che spetterà al poeta privilegiare certe soluzioni ritmiche e metriche per raggiungere quell’equilibrio «tra il sonno e la veglia» da cui «scaturisce il simbolo, e per suo tramite la rivelazione» (Oliva, 1998).

Successore di Blake e in qualche modo anticipatore della psicologia del profondo jungiana, Yeats seppe elevare il mondo imaginale alla sacralità che gli spetta di diritto e che aveva perduto ormai dalla fine del Medioevo, prima con l’avvento dell’Illuminismo, poi con il razionalismo e infine con lo scientismo e la rivoluzione industriale. L’universo diventa così — come per gli alchimisti medievali — un enigma cifrato, che il poeta, così come anticamente il mago, deve penetrare con l’intuizione e tradurre in versi per il suo pubblico (ma prima ancora per se stesso).

«Il simbolo è riportato quindi al significato etimologico di “concetto che unisce”, e risulta intimamente legato alla sfera del sacro, di cui esso è espressione […]. Il mito e il simbolo diventano così il bandolo su cui tessere la trama umana, e a cui poeti e visionari attingono per enunciare le loro verità» (Gallesi, 1990).

La risoluzione di questo mysterium tremendum passa per l’accesso a quella che Yeats denominava la “Grande Memoria”, una sorta di anima mundi dei neoplatonici o di mundus imaginalis come inteso da Corbin in Corpo spirituale e Terra celeste, sede dell’inconscio collettivo, «serbatoio d’anime e d’immagini e punto d’incontro tra i vivi e i morti» (una teoria probabilmente mutuata dalla tradizione gaelico-celtica dei fairies), in cui è contenuto il seme di ogni cosa. La Grande Memoria, come il registro akashico della tradizione indù, serba ricordo di ogni manifestazione della storia ciclica: accedere a essa equivale quindi ad annullare i limiti spazio-temporali in vigore nel mondo sublunare, essendo il passato e il futuro contenuti “in seme” nella sua immensità sconfinata.

Gli antichi irlandesi, d’altra parte, sostenevano che i file, vale a dire i veggenti, ottenevano il dono della seconda vista e della profezia raggiungendo questo stato di coscienza tra il sonno e la veglia, tra il conscio e l’inconscio. In questo sotto-mondo animico, fluido e abissale, che è anche l’aldilà celtico e la dimora nascosta del popolo fatato, il file guadagnava la comprensione dei misteri più grandi e risolveva le questioni più problematiche che gravavano sui membri della comunità: come gli sciamani e i medicine-men di ogni parte del mondo, egli dialogava con gli spiriti, andava alla ricerca delle anime smarrite e pacificava quelle che ritornavano sulla terra benché non avessero più un supporto fisico.

Una delle descrizioni più riuscite di questi stati di coscienza estatici nell’opera di Yeats, con evidenti rimandi a mistici come Swedenborg e Böhme, si trova nel romanzo esoterico Rosa Alchemica:

«Mentre sprofondavo nell’abisso il grigio e il blu e il bronzo che sembravano riempire il mondo diventarono un mare di fiamme e mi travolsero, e nel turbine che mi trascinava udii sul mio capo una voce gridare, “Lo specchio si è rotto in due pezzi”, e un’altra voce rispondere, “Lo specchio si è rotto in quattro pezzi”, e una voce più lontana gridare con grido esultante, “Lo specchio si è rotto in innumerevoli pezzettini”; e poi una moltitudine di pallide mani si protese verso di me, e visi dolci e strani si chinarono su di me, e voci tra il lamentoso e il carezzevole mi dicevano parole che dimenticavo nell’attimo stesso in cui venivano pronunciate. Venivo tratto fuori da quella marea di fiamma, e sentivo liquefarsi i miei ricordi, le mie speranze, i miei pensieri, la mia volontà, ogni cosa ch’io ritenevo essere me stesso; poi mi parve di salire passando attraverso innumerevoli congreghe di esseri che erano, m’era dato di capire, in un modo più certo del pensiero, ciascuno avviluppato nel proprio attimo eterno, nel perfetto sollevar d’un braccio, in un cerchio di parole ritmiche, in un sogno a palpebre socchiuse e a occhi appannati.

E poi passai oltre queste forme, che erano tanto belle da aver quasi cessato di essere, e, dopo aver sofferto strani stati d’animo, malinconici, così pareva, per esser gravati dal peso di molti mondi, entrai in quella Morte che è la Bellezza stessa, e nella Solitudine che tutte quelle moltitudini incessantemente desiderano. Mi parve che tutte le cose che avessero mai avuto vita entrassero a stabilirsi nel mio cuore, e io nel loro; e non avrei più conosciuto né morte né lacrime, se non fossi improvvisamente precipitato dalla certezza della visione nell’incertezza del sogno, e diventato una goccia d’oro fuso che cadeva a velocità smisurata attraverso una notte trapuntata di stelle, e tutt’intorno a me un gemito malinconico ed esultante».

Altrove l’esperienza estatica diventa veicolo di una “nostalgia delle origini” di eliadiana memoria, con reminiscenze esiodee e lucreziane della mitica Età dell’Oro. È in questi frangenti che emerge l’aspetto più profondamente malinconico della prosa yeatsiana, connaturato all’irrimediabile distanza tra l’ideale e il reale, tra gli dèi e l’uomo, quest’ultimo condannato a essere relegato — sfruttando una tradizione che va dai presocratici agli gnostici, fino a Shakespeare e Poe — in una dimensione ontologica umbratile, come spiega ne Il crepuscolo celtico:

«Mi pareva di udire una voce di lamento proveniente dall’Età dell’Oro. Mi diceva che noi siamo imperfetti, incompleti, non più simili a una bella tela intessuta, ma piuttosto come un fascio di corde annodate insieme e gettate in un angolo. Diceva che il mondo era un tempo interamente perfetto e generoso, e che quel mondo generoso e perfetto esisteva ancora, ma sepolto come un cumulo di rose sotto tante palate di terra. Gli esseri fatati e i più innocenti tra gli spiriti vi avevano dimora, e si dolevano del nostro mondo caduto nel lamento delle canne mosse dal vento, nel canto degli uccelli, nel gemito delle onde, e nel soave pianto del violino».

Yeats

Proprio sul recupero del folklore irlandese Yeats fondò il suo personale anelito di rinnovamento dell’immaginazione: insieme a colleghi e comrades del calibro di Wilde, Lord Dunsany, Shaw, Synge e la Gregory, diede il via a quel movimento culturale rivoluzionario denominato Celtic Revival (Rinascimento Celtico o Gaelico). Yeats non studiò le tradizioni popolari sui tomi dei folkloristi, bensì raccolse personalmente testimonianze e racconti dai suoi connazionali, soprattutto all’interno della contea di Sligo.
Le famiglie di contadini, allevatori e pescatori presso cui Yeats dimorò e che contribuirono alla realizzazione di queste antologie di racconti tradizionali, pur essendo nominalmente cattoliche o protestanti, mantenevano credenze chiaramente “pagane” ancora all’inizio del Novecento: il loro mondo, scevro di santi e Madonne, pullulava invece di esseri ferici e spiriti incorporei, spesso connessi agli antichi lignaggi che talvolta, attraverso le epopee medievali, retrocedevano fino ai leggendari abitanti divini dell’Irlanda, i Tuatha de Danann, che il mito vuole essersi poi, una volta sconfitti in battaglia dai Milesi, “occultati” in una dimensione invisibile e parallela alla nostra: il mondo “sotterraneo” di Fairyland dove i poeti e i veggenti gaelici compivano i propri viaggi. «Dentro quei confini un mosaico culturale unico al mondo lasciava affiorare i resti straordinari delle antiche civiltà, secondo un disegno che Yeats credeva corrispondere a una coscienza popolare sotterranea, ma unitaria» (Copioli, 2001): la coscienza che trovava la propria fonte e la propria esistenza nella Grande Memoria.

Nondimeno Yeats non edificò la sua visione sul solo folklore: interessato fin dalla giovane età allo spiritismo e alle dottrine occulte, egli dapprima frequentò la Società Teosofica di Madame Blavatsky, poi si fece iniziare alla Golden Dawn. Ma ancora più decisivi, a questo riguardo, sono da considerarsi gli esperimenti di scrittura automatica che Yeats compì con la moglie Georgiana Hyde-Lees, in parte ispirati alla Magia Enochiana di John Dee, dai quali nacque la sua opera più criptica e trascendente, A Vision, pensata dal Poeta come «un ultimo atto di difesa contro il caos del mondo» (Stock, 1973).
Qui viene esposta, fra le altre cose, la dottrina yeatsiana — benché rivelata dalle potenze sottili — del Daimon, «sé ultimo dell’uomo» o «sé sepolto», «il lato perfetto e in atto dell’Essere di cui l’uomo è aspetto potenziale e perfettibile» (Gallesi, 1990), ma anche «una presenza quotidiana che percepiamo come l’altra metà del nostro essere, con cui abbiamo un rapporto dialettico di conflitto e attraverso la quale possiamo indirizzarci verso ciò che è giusto» (Gallesi, 1990), che in certi casi, come Beatrice con Dante e la Fylgja nella tradizione scandinava, si confonde con la donna amata o con la Sposa Celeste.
Un’altra sua opera incentrata sulle tematiche più esoteriche della sua Weltanschauung, e precisamente sulla visione, la maschera e la questione dei morti, è Per amica silentia lunae, che riecheggia il trattato sul “popolo invisibile” e la “seconda vista” del reverendo scozzese Robert Kirk de Il regno segreto, redatto sul finire del XVII secolo.

L’escatologia yeatsiana, oltre a riallacciarsi a quella dei neoplatonici e alla dottrina dell’anamnesi, similmente a quella di Blake e di Eliade (ma anche di McKenna, navigatore della Grande Memoria nella seconda metà del Novecento, anch’egli di origini irlandesi) mira in prima battuta all’uscita momentanea del poeta/veggente dal tempo lineare, guidato dal suo Daimon, e, in ultima analisi, a un definitivo annullamento dell’elemento cronico, per accedere alla beatitudine suprema di quello che lo storico delle religioni romeno definiva “tempo sacro”, il tempo fuori dal tempo, la dimensione al tempo stesso primordiale e terminale, al di là di ogni dicotomia, cui infine le anime giungeranno:

«perché il mondo esiste solo per essere racconto porto alle orecchie delle generazioni future; e il terrore e la gioia, il nascere e il morire, l’amore e l’odio, e il frutto dell’Albero, non sono che strumenti di quell’arte suprema che dovrà strapparci alla vita e farci entrare, insieme, nell’eternità, come colombi nella colombaia» (da Rosa Alchemica).


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