Una pioggia torrenziale si sta abbattendo su Hukuméji, luogo immaginario vicino a Cartagena, collocato in prossimità del Mar dei Caraibi. Qui, i suoi abitanti vengono assaliti, braccati dall’acqua, che – foriera di un pericolo passato ma non concluso – lascia emergere verità sconcertanti e un passato sconvolgente. Una pioggia rivelatrice, da cui esala la memoria di vuoti e mancanze, la storia dei corpi depredati e mutilati. Cola su ogni lembo di pelle, rivelando agli occhi e al cuore gli orrori subiti in nome del potere precostituito, di uno status quo che non può essere ribaltato.
In questa indefinitezza geografica e sensoriale, la scrittrice e giornalista colombiana Vanessa Londoño addensa le quattro storie protagoniste del suo primo romanzo, Assedio animale, pubblicato in Italia da Polidoro editore nella traduzione di Massimiliano Bonatto.
«A volte vorrei bloccare questa memoria accidentale e sfuggente al centro di qualcosa di fisso; vorrei restaurarla tornando all’esatto strappo iniziale, ma inseguendola i ricordi si disintegrano come palline di sabbia indurita che si sgretola illudendoci di essere pietra. Allora mi chiedo se a quel tempo fossi felice; mi domanda se quelle immagini corrispondano sul serio a momenti di legittima allegria o se non si tratti invece dell’attaccamento a un’epoca meno triste e piena di eventi, frutto di un difetto della memoria. […] Allora giungo alla conclusione che forse l’origine di quella felicità risarcita, di quella felicità ipotetica, sorga invece per contrasto. Sorge, mi dico, perché oggi sono più miserabile di allora, perché oggi faccio pena anche agli animali che mi scacciano volgendomi il dorso; non perché mi manca la parola ma perché parlo a suon di ululati.»
Concepito inizialmente come raccolta di racconti, Assedio animale ha preso poi forma e consistenza come un vero romanzo, nonostante l’apparente diversità dei suoi protagonisti, i quali sembrano raccontare ciascuno una storia diversa. Eppure, essi condividono in egual misura una perdita, uno strappo: prima emotivo, risultato della consapevolezza che tutto sta per cambiare; poi sociale, inteso come forma di furto di ciò che di più caro si possiede, la figura di un familiare, ma anche un raccolto, una piantagione per cui si è sudato una vita intera; infine, uno strappo fisico, carnale, gambe tranciate via come erba, lingue estirpate dalle bocche, occhi abbacinati. In questo enorme lutto collettivo, che la memoria tenta malamente di risarcire evocando la vita prima, è facile rinvenire l’eco di un pianto, quello dell’intera America Latina, con le sue storie di violenza perpetrata per secoli che echeggiano ancora oggi. Londoño non sosta però in nessuna forma di autocompatimento; nelle sue parole non c’è alcun rimpianto. Tutto il libro è piuttosto un’ammissione di verità, una consacrazione della violenza a normalità, non come accettazione passiva ma come presa di coscienza definitiva delle diseguaglianze. È una forma di resistenza (l’unica possibile per quei destini orfani): quando ti hanno strappato finanche la lingua per parlare, ricordare vuol dire opporsi, non lasciarsi sopraffare dal dolore e dalla perdita, camminare «tra quelle parti strappate e diseguali» senza soccombere.
La finzione letteraria può allora diventare lo strumento per protestare collettivamente, per restituire dignità a uomini e donne trasmutati in animali che pur avendo ormai perduto per sempre la propria simmetria corporea possono ancora annusarsi, lasciare tracce su quella terra imbevuta d’acqua.
In copertina Mattina sulla Senna sotto la pioggia di Claude Monet (photo credits Arthive)