Ho sempre trovato più semplice essere cattivi: i cattivi non ci sono. Per quello fanno paura. Chi non c’è è un presentimento e spaventa più di qualsiasi cosa conosciamo. Forse per questo la dannazione del protagonista di Matteo Quaglia affonda nel peccato originale, nel voler sapere, a ogni costo, ben sapendo che la salvezza risiede altrove: la cultura non ci salverà: la cultura non serve a niente. La condanna e la redenzione sono, per lui, la stessa cosa e si sintetizzano con l’espressione sfrontata di un desiderio bambino, di un’impazienza di infinito: «volevamo magia». Peccato che la magia, per essere vera, è destinata a non esserlo mai.
Uno degli aspetti più memorabili di Volevamo magia (nottetempo) è l’intreccio di riferimenti culturali, che spaziano dalla letteratura alla cinematografia, e che creano un continuo gioco di specchi tra l’universo appiccicato alle suole del protagonista e quello che vorrebbe vivere. La rivista Fucilazione, che funge da rifugio per giovani intellettuali, diventa il simbolo di una generazione che vive in un conflitto costante tra la ricerca di un senso e l’indicibile consapevolezza che, forse, quel senso non esiste. Quaglia fa riferimento ad autori come Camus, Dostoevskij, e Yates, solo per citarne alcuni, i cui romanzi alimentano l’interiorità del protagonista, mentre il cinema di Tarantino o i film di Moretti forniscono un’alternativa più popolare eppure non meno significativa alla ricerca di senso. Ecco che l’esistenza, all’interno di queste pagine, è definita non solo da un sanguinante conflitto interiore, ma anche dalla tensione tra l’alto e il basso, tra ciò che è colto e ciò che è popolare, senza, tuttavia, poter mai separare questo intreccio se non proprio attraverso un irraggiungibile ideale: l’illusione che qualcosa di straordinario possa veramente accadere.

Ludovica è un qualcuno che accade, impersonificando, anche se solo per un attimo, questo tanto atteso mistero. Ludovica è la montagna, è l’ombra di leggende dimenticate, è il perturbante. Ludovica è imperturbabile. Ha il potere di vivere sospesa tra pop e ricercato, tra carne e déi, tra intangibile evasione e realtà nera come la cattiveria delle cose concrete. Il suo è un inquietante rifugio, un luogo dove la magia è sempre sul punto di manifestarsi, ma si arresta alla condizione di presagio: «L’appartamento era spoglio. Aveva qualcosa di artefatto e sinistro, quasi ci trovassimo dentro il video musicale di una band black metal». Ludovica, come la magia, s’intuisce appena. Ludovica non c’è. Per questo il protagonista la desidera sopra ogni cosa e, di fronte alla sua necessaria assenza, l’unica ossessione è quella – sbagliata – di comprendere, invece che quella salvifica della fuga che è solo un sussurro, ma in qualche piega della coscienza risiede tanto che tutto è claustrofobico: una pastorale del Nord-Est e tutto il suo inestricabile senso di inquietudine che percorre le arterie come autostrade ai tempi delle partenze intelligenti. Qui, tutto ciò che accade è destinato a restare celato nell’ombra, tutto è «cose di sangue. Cose di sangue e di magia».
Essere qui è una delle conseguenze di Trieste: un luogo in cui nascondersi – ma, come ci ricorda Carmen Gallo in Tecniche di nascondimento per adulti (Italo Svevo), se nascondersi è un gioco per bambini, scomparire è un rischio per adulti – un luogo da cui non riuscire più ad uscire. Ogni passo del protagonista è, infatti, un tentativo per sfuggire a una realtà asfittica, ma sempre e definitivamente un ritorno inevitabile a ciò che lo definisce. Trieste è anch’essa simbolo: chi cerca risposte, chi è incapace di trovarle. Trieste, in Volevamo magia, è più personaggio di qualsiasi personaggio nel suo granitico non dire di essere ancora e per sempre confine tra un tempo, un mondo, incapace di comunicare. Il confine è una linea, ma una linea non ha dimensioni, quindi, di nuovo, non esiste: appartiene, dunque, al sogno e, infatti, «Trieste non era così male, specialmente la notte, quando la città si addormentava lasciando libero spazio all’immaginazione». Questi vicoli in cui il protagonista e noi cerchiamo risposte conducono sempre più a fondo: un puzzle che si scompone, un giuramento destinato a non compiersi, almeno non per noi.
La sua geografia acida e la sua cultura piena sono il palcoscenico perfetto per un dramma esistenziale, lo stesso di una sconfinata Padania sbilanciata e schiantata su crudeli montagne: «Imboccai una via stretta, che mi condusse dentro cunicoli mai percorsi prima, erano le labbra tumefatte di una città in lacrime». Siamo perduti. Ci illudiamo di ritrovarci, ma siamo perduti nelle promesse di una giovinezza insincera che ora, mentre ci accorgiamo che c’è e ci tiene la mano, è già svanita.

Questo è il vero «neo-horror del Nord-Est», quello che mi spaventa veramente, la stessa paura che mi fa leggere Trevisan, la stessa di quando rivedo una me che non esiste più ai tempi di un’università tanto diversa quanto, per questo, identica. Non è il buio. Non sono «le Alpi Dolomitiche, […] in cui le ombre diventano fantasmi di ghiaccio e d’estate le mucche brucano l’erba fino a renderla gialla e morta». Volevamo magia è il neo-horror del Nord-Est. Un disagio. Un essere scomodi e sapere perché e volerlo, lo stesso. Impossibile, quindi, non pensare a Tiziano Sclavi e alle sue opere dove non è l’orrore a mescolarsi con la quotidianità, ma quest’ultima ad apparire mostruosa a chiunque la osservi veramente. Come per Sclavi, anche per Quaglia la vita è senso di straniamento, dove quanto più osceno l’immaginario tanto più sopportabile il resto. Trieste come Craven Road: ogni angolo un mistero, ogni mistero una caduca salvezza. Quaglia e il nostro grande incubo: nostra unica speranza.
«Tanto potente era questo suo desiderio, che, per sopravvivere, era costretto a pensarsi altrove […] percorrendo di continuo strade sempre uguali, ma diverse, nella sua testa, senza con questo riuscire mai a trovare quella via d’uscita che tutti, prima o poi, sembrano trovare» (Vitaliano Trevisan, Il ponte): sonoro il richiamo a Trevisan e alla sua capacità di descrivere la provincia e le sue ombre e le sue contraddizioni con un realismo crudo e spietato: tutti sempre in bilico tra il desiderio di fuggire e la paura di riuscirci. Come nelle sue opere l’inquietudine esistenziale e la costante ricerca di qualcosa che non si può mai realmente afferrare divengono spazi fisici e mentali dove l’individuo si smarrisce, così per Quaglia la verità è lontana eppure irresistibile. Non possiamo fare a meno di avanzare, verso ragionamenti privi di soluzioni, verso la tensione tra il voler continuare a cercare e il sapere che questa ricerca si rivelerà pericolosa e ai danni nostri: non possiamo fare a meno di avanzare. Lo sappiamo che non ci salveremo, ma salvarsi non serve a niente. Resistere, invece, sì. La magia, in fondo, è anche questo.
In copertina: Maltempo a Trieste, 2019 (Ansa)