In un’incisione dell’artista francese Marcel Roux, intitolata La morte e la bambina e realizzata nel 1905, una piccola fanciulla appare in primo piano mentre stringe la mano di una signora. Tuttavia osservata più da vicino, quella sinistra presenza che l’accompagna, di cui si scorge solo parte del corpo dal busto in giù, rivela mani e piedi che sono ridotte a sole ossa: la lunga veste bianca e nera, quindi, cela uno scheletro, quello della morte.
Formatosi artisticamente e spiritualmente a Lione, figlio del romanticismo e del simbolismo, Roux, forse colto da una crisi mistica, si avvicina all’arte religiosa e sono otto le serie di incisioni in cui spesso è il male a essere rappresentato nelle sue diverse forme. La morte, in questo disegno, non appare sul punto di cogliere l’ultimo afflato di una bambina prostrata, ma si presenta tentando di siglare un’unione inusuale. È la bambina di Roux a catturare lo sguardo: ha tra le braccia una cartella di scuola, è vestita di tutto punto e fissa negli occhi l’osservatore, la percezione è che lo voglia mettere al corrente che la morte è ovunque si guardi, ti tiene per mano, si ritrova nella quotidianità, nel passato, e risiede in quella parte di noi che nasce esattamente nello stesso momento in cui si viene al mondo.
Questa percezione della morte, “sempre in agguato”, appartiene a Juan Carlos Onetti, lo scrittore uruguayano che negli ultimi anni della sua vita si rinchiuse nella sua casa e forse ancor più nella sua stanza e forse ancora prima nella sua scrittura. Con la costante percezione di una “dama de negro” intorno a lui, nel 1992 diceva a María Esther Gilio: «Hay los que no la ven o se dan vuelta para no verla. Yo siempre la vi. La “dama de negro” siempre anda por allí cruzándose conmigo y con mis personajes»1. La morte abita gli scritti di Onetti non tanto come evento nefasto che travolge i suoi protagonisti, ma come parte di una vita condotta con la presunzione di poterla scacciare e allo stesso tempo sentendone la presenza costante. Il dialogo che apre questo lungo racconto, La morte e la bambina, edito da Sur, preannuncia una morte che è nelle mani degli uomini.
Diaz Grey, medico, incontra Augusto Goerdel, un ex seminarista. Quest’ultimo, dopo aver consultato altri esperti e aver appreso che una nuova gravidanza può essere fatale alla moglie Helga, chiede al medico un parere ponendolo di fronte a un enigma: lasciare che la gravidanza si compia e per questo condannare la moglie a morte certa o interrompere la gravidanza e condannare a morte certa suo figlio?
Quando Helga morirà mettendo al mondo la sua bambina, la calunnia e le malelingue che serpeggiano in questo luogo mitico e leggendario che è Santa María finiranno per condannare Augusto Goerdel all’esilio: è a lui che vengono rivolte le accuse di omicidio nei confronti della moglie. In questo lungo racconto rifletto sul fatto che qualsiasi fosse stata la scelta dell’uomo, nulla avrebbe impedito che si generasse un certo senso del peccato, perché è inevitabile che termini religiosi, quasi terrosi tanto sono attaccati ai protagonisti, si accostino alla storia: peccato, redenzione, salvezza, anche se Onetti non parla di peccato «la parola, per me non aveva senso»; oppure un senso di colpa, quest’ultimo è ciò che colpisce non tanto Augusto quanto il medico che sul far della sera si riunisce a se stesso.
Diaz Grey è un uomo che vive dei momenti trascorsi durante la giornata, fuori di casa, con i suoi pazienti, anche se turbato dalla malattia dei suoi malati, ma che allo stesso tempo è un uomo che, ogni sera tornando a casa, rivive in un mondo perduto. Anche se vuole convincerci che il suo è un passato archiviato, nascosto, non rivelabile ad alcuno, in realtà confessa al suo interlocutore, «quasi con stupore, come se non capisse fino in fondo», che questo passato esiste.
Allora mette a nudo la sua vera natura, questo moto di desiderio e di felicità che viene continuamente anestetizzato da una morte che si palesa attraverso la malattia dei suoi pazienti, fa in modo di mitigare la sua necessità di vivere desiderando qualcosa che non ha o non ha più.
Ogni sera («con ciclica regolarità sostituivo le carte dei miei solitari notturni, i solitari con cui guadavo lentamente e poco convinto la fatalità dell’insonnia e i suoni familiari dell’alba») gioca una partita con se stesso senza svelare mai chi è il reale vincitore, «tiravo fuori la busta con le foto, facevo una pila con le foto, le carte del nuovo solitario, e proseguivo il gioco, un gioco che finiva sempre prima che potessi sapere se avevo vinto o perso».
I giocatori, che sono i due volti di una stessa persona, e questo gioco del solitario che lui conduce con se stesso e contro se stesso raccontano un passato fatto di persone ormai senza volto. Senza volto perché sono persone di cui non sa più nulla o di cui non è più possibile sapere qualcosa; tra queste c’è una donna («è dolce o ha per me la dolcezza del mistero chiamare ancora donna senza volto quella nelle fotografie»), confessando che «se mi sono deciso a pensarla donna senza volto non è stato perché lei stava diventando una donna diversa, anno dopo anno, una busta riluttante dopo l’altra. L’ho fatto perché non ho avuto la forza di tollerare che lei fosse una persona».
C’è da chiedersi qual è il ruolo che Onetti affida alla morte, in questo romanzo che condivide il titolo con la bambina ma che a differenza del disegno di Roux non si defila in un angolo, sopravvivendo senza volto e lasciando l’enigma della sua presenza all’osservatore e nelle mani della giovane fanciulla. Per Onetti la morte è al centro della storia, aleggia su ciascuno dei suoi personaggi e su questo villaggio misterioso e immaginifico, questa Santa María «dove solo le buone azioni restano segrete», a sua volta crocevia di città e strade distribuite nel mondo ma anche un ideale in cui poter vivere e far perdere le proprie tracce, in cui la morte vive in questo gioco a due: «Non ci era concesso invecchiare, modificare un poco il nostro aspetto, ma nessuno impediva che gli anni passassero, scanditi da feste, dalla baldoria allegra e ripugnante dell’immensa maggioranza rumorosa di quelli che ignoravo – a volte c’era da credere a una dimenticanza – che i burocrati di Brausen li avevo messi al mondo con una condanna a morte allegata a ogni atto di nascita».
Infine, Onetti dà della morte un’interpretazione insolita: non è la fine di tutte le cose, ma sinonimo di un cambiamento, quello che ad un certo punto della vita di Diaz Grey, come degli altri personaggi, sopraggiunge dolorosamente necessario, tanto da creare uno squarcio tra un mondo e l’altro che si può ricucire solo di notte: «Guardavo i volti con calma e attenzione per soffrire meglio, perché il gioco valesse la pena: il volto, i volti, l’evoluzione e il cambiamento, le piccole trasformazioni vendicative. Accendevo una sigaretta, avvicinavo gli occhi, li allontanavo, comprendevo i cambiamenti, o cercavo di capire».
Che cosa combattono i personaggi di Juan Carlos Onetti? Un passato che Diaz Grey rivela esistere, ed esiste per tutti. Una vita che ripropone la quotidiana disfatta come un disco rotto che continua a ripetere la stessa strofa; il tempo che “in sé non esiste” e che in letteratura “si scrive sempre con la maiuscola”; oppure se stessi? Guidata da una regia singolare, quella di Brausen, la morte si insinua nei cambiamenti radicali, nella direzione contraria che imboccano i personaggi di questo romanzo, definitivamente disegnati da questo dio che utilizza la scrittura per delineare le loro esistenze amare.
«In La morte e la bambina i personaggi ammettono di essere stati immaginati da Brausen per dar vita a Santa María e alle sue vicende»2, esistenze segnate dal confronto quotidiano con la sconfitta, rassegnate alla tangibilità che la morte ha di volta in volta nelle loro vite, come è accaduto ad Augusto Goerdel, il quale non si rassegna e tornerà a distanza di anni a Santa María, fermamente deciso a dimostrare la sua innocenza, «non era tornato solo per lottare contro la calunnia o l’ingiustizia. Voleva parlare di sé, voleva spiegarsi, voleva coprire con disinteressato cinismo un’epoca del suo passato».
La scrittura di Juan Carlos Onetti si fa vorticosa, magnetica, un poco inquieta, accompagna il lettore in un’intercapedine costruita apposta per dividere la realtà dal concetto di fantastico, lo stesso che Ricardo Piglia, a proposito dello scrittore uruguayano, disse: «La construcción de mundos alternativos y el imperio de la ficción en Onetti, lo fantástico como construcción de otro espacio, está muy tramado en torno a la idea de que es el sujeto asocial quien consigue instalarse en el espacio de los sueños»3.
Onetti sceglie la strada del non ritorno, sceglie la dimensione del mondo perduto. In ogni storia scritta dall’autore uruguayano ci si aspetta sempre il momento in cui sopraggiunge l’ora di riaprire gli occhi.
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- Lezcano W., Juan Carlos Onetti: Treinta años de la muerte del gran pesimista rioplatense, 2024, Clarin.com ↩︎
- Montieri G., Sono stato a Santa María in La morte e la bambina, Edizioni Sur, 2024 ↩︎
- Lezcano W., Juan Carlos Onetti: Treinta años de la muerte del gran pesimista rioplatense, 2024, Clarin.com ↩︎
In copertina: L’enfant et la mort, Marcel Roux, 1905, dettaglio