«Riuscirai a volerle bene?» Una domanda che segna un destino e insieme lo sovverte, quella di Ines alla figlia Maria a cui è appena nata una bambina, Rita. Può una madre non amare la propria creatura? Se, come nel caso di Ines, il ruolo di madre è abitato nel segno dell’assenza, probabilmente sì. Perché la forza del destino, che guida e orienta La dinastia dei dolori di Margherita Loy (Atlantide Edizioni), lascia in ogni passo successivo della generazione una cicatrice profonda e silente, un segno d’inevitabilità, di tragica chiamata, di una sorte che agisce al di là della coscienza per interrompere ciò che l’uomo crede di poter governare. Che distrugge ciò che si era creduto di creare. In una frazione di secondo qualsiasi, di un giorno qualsiasi, ad esempio il 14 agosto del 2018. Nell’istante in cui il ponte Morandi si spacca e il Polcevera inghiotte il volo di quaranta persone che vanno e tornano dalle vacanze.
La grammatica che muove le pagine di Margherita Loy, però, prima di essere quella della possibilità, è quella della capacità. La domanda si formula, sotto l’apparenza del fosco presagio, per raccogliere, ancora una volta, un testimone. Riavvolgere a ritroso il filo di una dinastia, appunto. Di un’ascendenza tutta femminile che comincia negli anni Venti del secolo precedente, il Novecento. Comincia da Emma Proietti, romana di Portonaccio, ragazza povera, orfana e svelta di pensiero, per la cui causa il Priore dei Salesiani si presenta una mattina di aprile del 1922 alla ditta Garnieri e Ferraris. La ragazza è bella e pragmatica e nella sua figura porta scritto l’esempio di un’epoca. Emma, infatti, è sì una delle tre protagoniste vivide e tragiche del romanzo uscito da qualche mese per Edizioni Atlantide (che dimostra una volta di più il proprio accurato lavoro di selezione della qualità letteraria capace di andare oltre ciò di cui è goloso il momento per cercare il respiro lungo), ma potrebbe tranquillamente venire da altrove. Sa da sempre che deve bastare a se stessa e fare di necessità virtù. È, o potrebbe essere, ad esempio, una delle Solitarie di cui Ada Negri aveva tratteggiato il ritratto nella celebre raccolta di racconti uscita – non a caso, quello è il torno d’anni e quella l’atmosfera – nel 1917. Una raccolta, quella della prima Accademica d’Italia, che in quegli anni contese il Nobel a Grazia Deledda e Matilde Serao, che la neonata FVE Editori recupera – finalmente da un ingiusto oblio. Che meriti di più nella formazione dei canoni letterari italiani lo dice proprio il romanzo di Loy, e la possibilità sorprendente di leggere un libro attraverso l’altro, che lungi dall’essere un limite per Loy, ne racconta invece la possibilità di resistere al tempo.
I punti di contatto tra i due titoli, in effetti, sono tanti. Formali innanzitutto. Se quel po’ di memoria che non si è voluta rimuovere di Negri la consegna alla storia soprattutto come poetessa, anche ne Le Solitarie – scrive Laura Omodei nella prefazione all’edizione FVE – «si fregia di una scrittura colta, elegante ma chiara; una scrittura che parla di realtà concrete, se non dure, ma le ingentilisce con la penna di poetessa». Così Margherita Loy accompagna le sue protagoniste con una prosa ricca ed elegante, luminosa anche nella cupezza di una sorte già decisa. Per Emma, come per le Solitarie, infatti, il vissuto accade sopra la testa e a lei non resta che provare a prenderne le misure. Sembrano uscire dalle pagine di Negri la miseria industriosa della ragazza e delle sorelle – semplicemente spostate alla borgata romana dalle piane acquitrinose e industriali del lodigiano – ma anche tutta la sorte delle ragazze come lei.
Si legge Loy e si possono usare le parole di Negri. Il lavoro di Emma come dattilografa (quale, altrimenti?), prima donna in una azienda di soli uomini che la guardano cupidamente senza osare avvicinare una ragazza che deve provvedere a se stessa.
«Due lire e non di più. Perché il cavaliere Agliardi era buono, ma le paghe femminili non salivano più in là. Se ne accontentava la coraggiosa, pur di essere sicura del pane» del buon Ingegnere, devoto alla Santa Madre Chiesa quanto alla propria, di madre, santificata, crudele e giudicante come solo certi Sacri Cuori trafitti e fiammeggianti che occhieggiavano dalle credenze e dai quadri delle case di provincia di quegli anni (chi ha letto di Bonaria Urrai se ne ricorderà). Mentre il maschio dotato di posizione «è buono, è affezionato, guadagna denaro e denaro, e lo getta a profusione nel lusso di casa e nei gioielli della moglie. Ma non ha tempo di farle compagnia. […] del resto, chi se ne potrebbe lamentare? La moglie, oltre ai gioielli e all’automobile, possiede anche la libertà: che è, dicono, il bene più prezioso della terra». Una libertà che l’uomo elargisce munifico come un dio e che come tale si aspetta di essere accolto. Una libertà a cui Emma si consegna con la lucida rassegnazione di chi sa che di meglio non può accadere.
«Libera, comprendete? Voglio dire da tutto. A venticinque, trent’anni, io non avrei cercata né meritata questa rivelazione, che è assentimento divino. Conviene […] uccidere in noi il tormento del desiderio» soprattutto se un altro uomo ha già deciso per il tuo corpo coprendolo di disonore e svuotandoti «l’anima candida di un bimbo appena nato, che non sapeva d’avere un corpo». La sorte di una, si chiami Emma, Maria o Rossana, la sorte di tutte, siano gli anni della prima guerra o quelli liberi (davvero?) della contestazione e poi dell’eroina. Una sorte da cui un ingegnere viene a liberare, al “modico” prezzo di essere ciò che lui desidera, trasformando la dattilografa (o l’operaia) nella borghese a cui Negri dedica la seconda parte dei suoi racconti. Una borghesia opulenta, altera e infelice, che non sa ancora che il vero prezzo da pagare è la consegna della propria, personale, dinastia dei dolori. Nei termini di una discendenza che disconoscerà ciò che è stato per abbracciare fiera il nuovo blasone, respingendo una madre non abbastanza aristocratica, non abbastanza in grado di diventare ciò che era dovuto. Che ormai cova in sé la ribellione profonda di un amore dato contro i dettami del suo nuovo mondo. Il solo amore, quello per «una bastarda», simbolo ed erede anche di tutto il mondo che si è lasciato andare dietro le spalle. Simbolo della colpa di non aver – come si diceva all’inizio – saputo amare abbastanza da opporsi alla realtà così come il mondo di allora pretendeva che fosse.
«Come tutti gli amori, questo, osteggiato e smagliante, non invecchia, non conosce usura né delusioni. Solo tenerezza». E colpa, la colpa di essere stata la prima, «figlia di un padre povero».
Per Emma, però, come per le solitarie di Negri, «la colpa accese in lei moti di ribellione che si manifestarono in una nuova, decisa fierezza», che è fatta anche di consapevolezza.
«Sono una donna ignorante, e tale rimarrò sempre. Anche se moglie di un Ingegnere, proprietaria di pellicce, con un brillante grosso come una nocciola al dito, rimarrò sempre una donna miserabile. La sua inferiorità sociale, non più occultabile agli occhi dei figli e del marito, risvegliava in lei un nuovo ardimento».
Ma è una liberazione personale che viene da una mutilazione. E la mutilazione la scontano le generazioni che seguiranno. È la nipote amata e così uguale a specchiare in sé il vuoto dell’antenata, come sempre nella storia hanno pagato le donne: «Soffriva. Scoppi di dissonanze isteriche partivano da lei, fino allora così uguale e serena. Si stringeva talvolta, perdutamente ai figli, respirando con affannosa delizia il profumo di quelle fresche forze».
Basta una febbre, o una frazione di secondo in un giorno d’estate, per rompere per sempre quell’equilibrio fragile che forse alleggerisce dai pesi, ma chiede vite in cambio. «Vi sono tragedie che afferrano una creatura in piena bellezza, in piena felicità, in piena azione, e la incalzano e la premono come se volessero proprio ucciderla. […] Vi è invece la tragedia muta, sorda costante, fissa, che ha l’inevitabilità di un cancro».
E ciò che non si vede tocca alla terza generazione riconoscerlo. Tocca a chi viene oggi guardare indietro e chiedersi se il dolore e il destino delle donne passino attraverso le sinapsi, le cellule, le fibre di cui siamo fatte. Di certo passano attraverso i libri come La dinastia dei dolori e Le solitarie capaci di superare il proprio tempo per farsi pegno e testimone – ha scritto Giorgio Ghiotti sintetizzando in una frase Loy – «dell’avventura di una vita. Il quotidiano, giorni mesi e anni, che si fa letteratura».