Ho tradotto i voluminosi diari di Patricia Highsmith (più di 8.000 pagine ridotte a poco più di 1.000 da Anna von Planta) non solo con la cura di una traduttrice ma con la meticolosità emotiva di un’amante, tentando di restituire gli smottamenti di una personalità in crescita, dai voraci vent’anni – conquiste sessuali giornaliere, poi scaricate come immondizia (ben quattro delle sue ex tentarono il suicidio) – ai trent’anni di abnegazione e martirio, fatti di sottomissione a donne gelide e sofisticate (spicca quella che la obbliga a ogni pasto a dividerlo con il suo adorato cagnolino, con cui divide più spesso il letto che con Pat, relegata al divano) – all’età matura più lenta e solitaria, in cui ai corpi femminili preferisce le silenziose comunicazioni con i suoi gatti, reclusa nel suo maniero svizzero con finestre simili a feritoie di una cella.
È stato tumultuoso e chirurgico, il mio viaggio semantico dalla voce originale alla voce italiana, poiché questa voce italiana doveva essere necessariamente nuova: in italiano conoscevamo solo la sua voce algida di narratrice, e non quella traballante e oscura che si riserva all’esplorazione dell’inconscio, il linguaggio segreto del tra sé e sé. Questo significava da una parte tentare di conciliare gli ossimori di un carattere complesso, rispettando le differenze espressive di ogni slancio emotivo (cambiano anche le lingue effettive, passando per francese e spagnolo e persino per un italiano buffo e stentato) e dall’altra al contrario affilare le lame di questi ossimori per la consapevolezza che proprio nel conflitto Pat aveva trovato il carburante della sua creatività: il conflitto con la madre e subito dopo con la madre “interiorizzata”: con la se stessa vulnerabile che non si è mai liberata dal tono persecutorio di una madre reazionaria che non aveva mai accettato la sua omosessualità.
Dura e romantica, dunque, e cinica e generosa, e chiassosa e solitaria, e carismatica e insicura. Nel fragore dello scontro tra tendenze e aggettivi, tra cadute depressive e tuffi maniacali nel sesso e nella scrittura, ho avuto l’impressione – e lo avrà chi legge il volume edito da La nave di Teseo – che le sfaccettature della natura di Pat potevano essere integrate solo dalla scrittura, unica modalità esistenziale che la salvava dalle voragini simili a fosse di serpenti dove le sue inconciliabili asperità e le sue tenerezze l’avrebbero annientata.
Senza la scrittura, sosteneva, sarebbe stata una serial killer, e in effetti, mentre leggiamo nel diario di lei che spiava E. R. Senn, la donna che ispirò la Carol dell’omonimo romanzo (poi trasposto nello splendido film di Todd Haynes), ci sentiamo al cospetto di un’operazione insieme magica e sordida: quella che nasce nel limbo tra realtà e letteratura, e che basta poco a spingere da una parte o dall’altra, mutando l’incanto narrativo in un miraggio di violenza.
Quando incontrò la signora Senn, Pat lavorava nel reparto giocattoli di Bloomingdale proprio come la Therese del romanzo. La magia di quell’incontro la portò quella stessa sera a tratteggiare febbrilmente la prima parte della storia. Come Therese, Pat frequentava un bravo ragazzo e si preparava mentalmente a un futuro matrimonio, a una vita eterosessuale quieta e confinata in ciò che era lecito e dunque prometteva serenità. Ma Pat non era Therese: non era una candida ragazza in attesa di sbocciare nella consapevolezza di sé, aveva già un’identità solida e da quell’identità al tempo tentava ancora di affrancarsi. Di fatto, lavorava da Bloomingdale proprio per pagarsi una terapia di conversione, quel violentissimo ramo della psicoanalisi che prometteva di “guarire” il paziente dall’omosessualità. Ironicamente, e per fortuna, non solo la psicoanalisi non funzionò (ovviamente) ma la portò proprio a dedicarsi a quel romanzo lesbico che avrebbe avuto un’importanza politica sorprendente.
Pat si vergognava della dolcezza di quel suo unico romanzo d’amore, che infatti firmò con uno pseudonimo – a cui rinunciò solo negli anni Novanta, dopo aver ottenuto una massiccia fan base – eppure lottò perché gli fosse concesso un lieto fine in un mercato che ancora tollerava solo amori saffici che finivano in tragedia. Forse proprio perché Carol, più di ogni altro suo libro, è un patchwork delle sue esperienze di vita (l’episodio di Bloomingdale è solo un catalizzatore, tutti i suoi trent’anni sono stati costellati da Carol eleganti e remote e molto spesso sposate), ma vale anche l’inverso: la sua stessa vita è stata fortemente influenzata dai suoi romanzi, gli snodi narrativi diventavano spesso snodi esistenziali, come se il vissuto fosse un mero strumento chirurgico di creazione e manipolazione letteraria.
Quando, per puro caso, Pat scopre di avere con la signora Senn un amico comune, e dunque di poterla incontrare, si configura una scelta familiare ai veri scrittori: rischiare che la realtà deformi il racconto che stava scrivendo, o proteggerlo da ogni possibile storpiatura. Sceglierà quest’ultima opzione: sceglierà, per una volta nella sua vita fatta di tuffi nel sentimento, di proteggere la scrittura, e di definire dunque la realtà come fonte di “storpiature”. Non a caso i suoi ultimi decenni furono caratterizzati da una vita quasi ascetica, come se davvero quella scelta letteraria fosse stata anche una scelta esistenziale. Spiò la signora Senn solo fugacemente, come una Tom Ripley appena accennata, pur di dedicarsi solo al personaggio che aveva inventato.
Eppure questa – Pat alle prese con amori febbrili, infine subordinati a intense trance di scrittura – è solo una delle storie possibili: una vita è fatta di infinite letture, e un diario è una seduta spiritica che apre un misterioso portale verso ognuna di loro. Soprattutto, leggere un diario che ripercorre una vita intera è come avere accesso al meccanismo segreto del tempo, quello che il vissuto oscura e che il ricordo opacizza. In altre parole, è il contrario di sfogliare quei libretti di una volta che traducevano i vari fotogrammi in un’immagine in movimento. Vivendo, il vero moto del tempo ci è precluso, eppure leggendo un diario lungo quanto un’esistenza possiamo scorgere i segni lentissimi, quasi immobili, di quel moto al microscopio.
Il diario di Pat si legge come una lunga poesia in cui fanno continue incursioni le brutture del reale (il dolore e la burocrazia, le banalità e le piccole paure, le scarpe nuove e le difficoltà editoriali, le tribolazioni della vita quotidiana), a volte trasformate in arte, altre no, come succede sempre nella vita. Quando ne usciamo – io soprattutto, ma credo anche chi la leggerà – avremo dentro un tempo in più, non solo una vita ma una collezione di altre vite, disordinate e caotiche, sfavillanti.