Un luogo comune: i libri nel loro involucro di carta contengono universi. Ebbene alcuni libri sono più efficienti di altri in qualità di contenitori, ci sono casi in cui la chiusura non è ermetica e il contenuto… deborda. Particolarmente debordante, come la personalità dell’autore, è il contenuto di Yoga, l’ultimo, attesissimo libro di Emmanuel Carrère, uscito in Francia nel 2020 e in Italia a maggio 2021 per Adelphi, nella traduzione di Lorenza Di Lella e Francesca Scala.
Tutto sconfina e perde il controllo, alla deriva l’autore e alla deriva la materia del libro: quello che doveva essere «un petit livre souriant et subtil», un trattatello sullo yoga, si trasforma in un’autoanalisi che ripercorre il deragliamento di un uomo che si credeva stabile e al sicuro, da un ritiro di meditazione interrotto in modo tragico dall’attentato alla sede di Charlie Hebdo, passando attraverso una profondissima depressione, istinti suicidi, il ricovero in ospedale psichiatrico e l’elettroshock, per giungere alla lenta ripresa, con il soggiorno su un’isola greca in compagnia di una donna con il cuore spezzato e di giovanissimi rifugiati che costringono al confronto con il proprio privilegio. Carrère vaga tra le memorie, erra tra autobiografia e autonarrazione, anche dopo l’uscita del libro è come se la storia continuasse a riscriversi, con lo scandalo suscitato dalle dichiarazioni dell’ex moglie.
Yoga – il titolo non potrebbe essere più ironico e fuorviante eppure contraddittoriamente accurato – è il racconto di una fuga fallimentare dal proprio ego, ma questo fallimento letterariamente rappresenta un successo. Lo facciamo raccontare a chi ha dovuto calarsi nelle insidiose profondità di questo libro, evitando di farsi trasportare fuori dalle pagine dalle ondate debordanti, ma evitando anche di perdersi nel suo caos interno: le traduttrici Lorenza Di Lella e Francesca Scala.
Lorenza per Adelphi aveva già tradotto Carrère, sempre in collaborazione, mentre per Francesca è stato il primo incontro con questo autore. Carrère si presta più di altri scrittori alla traduzione a quattro mani? Quali aspetti e quali nodi del testo sarebbero stati più complessi da sciogliere, se aveste affrontato la traduzione da sole?
Di Lella: In realtà non sono sicura che alcuni autori si prestino più di altri alla traduzione a quattro mani. Da quando collaboro con Adelphi ho sempre tradotto a quattro mani: ho cominciato lavorando con Giuseppe Girimonti Greco su Il barone sanguinario di Vladimir Pozner (2012). Da allora, insieme a mia sorella Federica e a Maria Laura Vanorio (che già traducevano per Adelphi), formiamo una specie di quartetto e accettiamo le proposte di traduzione dell’editore nella formazione che in quel momento è più libera. Siamo stati felicissimi di aggiungere al nostro quartetto un quinto validissimo elemento, quando si è unita Francesca. Il lavoro a quattro mani è meno avvilente perché quando si pongono problemi – e se ne pongono sempre, se si vuole capire non solo il senso, ma anche il “suono” di un’opera letteraria – è utilissimo potersi confrontare un’altra persona, calata quanto te nel testo. Tuttavia non si può tradurre a quattro mani con chiunque.
Non credo che esista un unico modo giusto di tradurre. Traduttori che hanno approcci diversi riescono a essere diversamente fedeli e a ottenere ottimi risultati, però non è detto che possano lavorare insieme. Tra noi c’è chi è più pignolo, chi si prende qualche libertà in più, chi tende a migliorare il testo e viene sistematicamente insultato [ride; ndr], ma abbiamo idee sulla traduzione e sul concetto di fedeltà abbastanza simili.
Scala: È bello perché si impara gli uni dagli altri, però è impossibile senza tolleranza e umiltà.
Quando consegni il testo, pur sapendo razionalmente che dall’altra parte arriverà qualche modifica, qualche suggerimento alternativo, purtroppo hai comunque l’illusione di essere arrivata al massimo grado di perfezione, di aver finito il lavoro; invece non è affatto vero, quindi se da un lato è molto utile lavorare insieme perché il confronto è un allenamento e un’occasione di “formazione permanente”, d’altro canto è molto faticoso e richiede più tempo di quanto ne impiegheresti lavorando da sola.
Di Lella: C’è un equivoco che va assolutamente dissipato: tradurre a quattro mani non significa fare a costo di traduzione anche la revisione. Lavorando a quattro mani sfuggono meno cose e si risolvono più problemi, perché se ne pongono di più, ma due traduttori non sostituiscono il revisore, che deve essere un esterno e trovarsi direttamente di fronte al testo in italiano. Il tempo aggiuntivo speso nel confronto tra noi non si riguadagna accorciando i tempi della revisione. Prova ne è il lavoro successivo di revisione di cui si fa carico Adelphi.
Nel caso di Yoga, Francesca ha tradotto la prima e l’ultima parte (I. Il recinto e V. Continuo a non morire), io le tre centrali (II. 1825 giorni, III. Storia della mia pazzia e IV. I ragazzi), una spartizione brutale, fatta a tavolino prima ancora di leggere il libro e basata sostanzialmente sul numero di cartelle, in modo tale da tradurre metà libro a testa. Questa divisione del lavoro, considerata la struttura per blocchi in cui è articolato il libro, si è poi rivelata sensata. Francesca ha fatto la parte più costruttiva e io quella più distruttiva.
Scala: Sono uscite recensioni che dicono che le prime 130 pagine si possono anche saltare. Personalmente sono stata contenta di tradurle, mi sono piaciute ed erano nelle mie corde: in passato ho praticato la meditazione e mi è parso che Yoga la rispecchiasse, che fosse un buon modo per fare divulgazione. La prima parte del libro sembra intessuta sulle ripetizioni e sull’anafora, un tratto stilistico che non si ritrova altrove. Forse Yoga si presta molto alla traduzione a quattro mani anche in virtù di questa sua suddivisione interna. Eppure, nonostante la prima parte molto più compatta, che avrebbe dovuto costituire un libro a sé ma che poi è diventata altro, e nonostante l’aggiunta degli eterogenei pezzi successivi, Yoga non è poi così slegato, tanto è vero che abbiamo dovuto prestare la massima attenzione al ricorrere di alcuni elementi, soprattutto lessicali, che innervavano tutto quanto il libro e che ci hanno costrette a un coordinamento continuo.
Carrère è quel che si dice una presenza ingombrante, non solo perché si tratta di un autore molto noto e molto apprezzato e quindi i suoi libri in uscita creano un’aspettativa, ma anche perché tende a infilarsi nei suoi libri, anche quando non parla di sé. Quanto incide questo aspetto sul vostro lavoro di traduzione?
Di Lella: Io avevo già tradotto Carrère, ma, con l’eccezione di A Calais (traduzione di Lorenza Di Lella e Maria Laura Vanorio, Adelphi 2016), che è un breve reportage sulla Giungla di Calais, si era sempre trattato di ritraduzioni. Dopo aver accettato Yoga la prima cosa che ho pensato è stata: «Oh cavolo, abbiamo tutti gli occhi puntati addosso» e mi è venuta un’ansia colossale. Quando il libro è uscito in Francia, se ne è parlato subito anche in Italia, e intanto noi stavamo traducendo. Sui giornali sono apparse le prime recensioni e una cosa ci è subito saltata agli occhi: Carrère parla del suo libro sullo yoga come di «un petit livre souriant et subtil» e lo ripete parecchie volte nel corso del racconto. Una delle prime questioni che ci siamo poste, e che ci ha posto anche la redazione di Adelphi, è stata come rendere quel «souriant et subtil». Era meno semplice di quanto potrebbe sembrare, anche perché in un punto l’espressione ricorreva girata diversamente: dovevamo quindi trovare una coppia di aggettivi con la stessa iniziale, molto assonanti e che si prestassero anche al gioco presente nell’originale. Mentre noi ci scervellavamo, i giornali italiani hanno iniziato a parlare di un libro «sorridente e sottile». In italiano «libro sorridente» non significa niente, e «sottile» fa pensare allo spessore. Ci siamo chieste: e adesso che facciamo? Ma poi abbiamo pensato: il libro uscirà a maggio, tra otto mesi la gente si sarà dimenticata degli articoli che parlavano di «un libricino sorridente e sottile», per cui possiamo scegliere quello che ci pare. Per fortuna anche la redazione di Adelphi era del parere che «sorridente e sottile» non fosse una buona soluzione. Ci siamo sentite meno sole.
Scala: Alla fine è diventato «arguto e accattivante». Al di là del Carrère ingombrante che troviamo nel libro, per quanto riguarda invece Carrère come persona fisica, scrittore ancora vivente con cui ci si può confrontare, quando abbiamo fatto delle segnalazioni alla redazione lui le ha sempre recepite con molta disponibilità.
C’è un episodio nel libro in cui Carrère racconta che fino a quel momento non aveva mai avuto un profilo facebook e aveva così scarsa familiarità con la piattaforma che si fa aiutare da sua figlia e quando occorre impostare l’immagine profilo crede di doversi mettere fisicamente di profilo per la foto. Il fatto che Carrère frequenti così poco l’ambiente digitale e che sia quindi estraneo al suo linguaggio specifico, è qualcosa che avvertite nella sua scrittura quando traducete?
Di Lella: Io sono passata da Pozner a Boileau e Nacejac a Simenon… non mi è mai capitato di tradurre autori che usassero un linguaggio chiaramente influenzato dal mondo dei social e degli altri mezzi di comunicazione contemporanei. Così, paradossalmente, Carrère è forse lo scrittore meno classico su cui ho lavorato finora. Una delle caratteristiche della scrittura di Carrère è che si fa divorare. In un certo senso riesco a capire sia quelli che lo adorano sia quelli che lo detestano, ma quale che sia l’opinione che si ha di lui è un fatto che la sua prosa scorre con una naturalezza straordinaria. A un certo punto in Yoga Carrère dice che lui scrive tutto quello che gli passa per la testa e che imparare a scrivere sulla tastiera con dieci dita gli permetterà di essere più veloce e quindi di aderire ancora di più al pensiero, senza mettere freni. Penso che questo sia vero solo in parte: il miracolo della scrittura di Carrère è che riesce a conservare sempre la scioltezza e l’apparente semplicità di una lingua spontanea e vicina al parlato, pur essendo frutto di un costante e meticoloso lavoro sulla parola. È un effetto difficilissimo da riprodurre, anche perché il francese ha una serie di costruzioni sintattiche (anticipazioni, ridondanze pronominali ecc.) che suonano appunto molto naturali in francese e che invece in italiano risultano spesso pesanti.
Scala: Da un punto di vista lessicale, se non fosse per la parte diciamo psichiatrica, in cui compaiono dei tecnicismi, tutto il resto è molto piano, non c’è slang, né appunto mimesi di un linguaggio dei media o dei social. Apparentemente tutto facile… E invece, nell’istante in cui cerchi di ricreare sintatticamente la frase in modo che sfiori il colloquiale alla stessa maniera, ti accorgi di quanto non sia affatto banale riuscirci.
Verso la fine di Yoga leggiamo:
«Esistono due scuole di pensiero. François Truffaut diceva che un film è un processo di perdita. Tra l’idea che uno se ne faceva prima di iniziarlo e il risultato finale c’è uno scarto maggiore o minore: se è piccolo il film è riuscito, se è grande no. La pensano così gli artisti amanti del controllo, i demiurghi che, come Hitchcock o Kubrick, intendono piegare la realtà al loro volere e al loro ideale. Per altri, e io sono tra questi, è il contrario: meno il film o il libro somigliano a quello che si erano immaginati, più lungo e capriccioso è il percorso tra il punto di partenza e quello di arrivo, più il risultato li sorprende e più sono contenti. Quello che conta è il percorso, non la destinazione – o, come diceva Chögyam Trungpa: “La meta è il viaggio”.»
Per come Carrère racconta la scrittura di questo libro nel libro stesso, sembrerebbe potersi dichiarare contento: all’inizio il progetto era il famigerato «libricino arguto e accattivante» di cui si diceva e invece gli è uscito questo libro che parla sì di yoga, ma è molto distante da un piccolo saggio di divulgazione sull’argomento. Questa erraticità nella composizione che effetto ha sulla traduzione?
Di Lella: Mi vengono in mente due cose: l’alternarsi di diversi tempi verbali e piani temporali (che è sicuramente una precisa scelta stilistica, ma che forse deriva proprio dal modo in cui il libro è stato concepito) e la relativa vaghezza dei riferimenti cronologici. Ricostruire la cronologia interna del racconto (è un po’ una mia fissazione) è stato tutt’altro che semplice, e in alcuni casi sono emerse piccole incongruenze di cui abbiamo discusso con l’autore (in realtà il confronto è stato mediato dalla casa editrice) e che derivavano probabilmente sia dai continui aggiustamenti e dai cambiamenti di direzione che hanno caratterizzato la stesura del libro, sia dal rapporto complesso che i libri di Carrère in generale e Yoga in particolare intessono tra realtà e finzione. È emblematico, da questo punto di vista, il racconto della permanenza a Leros: nel libro l’incontro con i giovani rifugiati e con le loro terribili esperienze di vita spinge lentamente Carrère a uscire dalla depressione che lo aveva portato al Sainte Anne, è l’inizio della risalita. Ebbene, nella realtà l’episodio a cui è ispirata questa parte del libro è avvenuto parecchio tempo prima (prima del ricovero al Sainte Anne) e ha avuto una portata completamente diversa. Quale che sia l’importanza che vogliamo dare a discrepanze di questo tipo, questa scoperta ci è servita a sanare qualche veniale errore di cronologia di cui probabilmente nessun lettore si sarebbe accorto, ma su cui un traduttore fa fatica a soprassedere.
Scala: Credo che ci siano tutti questi aspetti: la caoticità, l’istantaneità, la naturalezza e poi un tentativo di organizzazione a posteriori, un gusto per l’osservazione, la ricerca di un senso. A un certo punto del libro Carrère esprime l’intenzione di rileggere tutta la propria opera letteraria alla luce del disturbo bipolare: mi è parsa un’idea molto affascinante oltre che perfettamente in linea con la sua inclinazione metaletteraria. E questo suo ripercorrere quello che ha scritto cercando di intravedervi un disegno, questo suo rileggersi, in fin dei conti è in qualche modo simile all’attività di meditazione, al tentativo di guardarsi da fuori.
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Copertina: Leros, Grecia. Anastasia Dimitriadi tramite Unsplash
Ritratto di Carrère: Dmitry Rozhkov tramite Wikimedia Commons