Quando nasce un libro, quando viene o arriva al mondo, i suoi genitori, autore ed editore, hanno un’idea molto diversa del futuro che dovrebbe avere dinanzi a lui. Lo scrittore sogna per la sua opera un futuro infinito, e che quindi quell’opera diventi immortale e senza tempo e che tra cinquant’anni se ne parli ancora. L’editore, invece, giustamente, costretto dal suo stesso ruolo ad essere più realista, si augura che quel libro venda tutto quello che può nei primi tre mesi di vita e poi avanti un altro.
Giustamente, perché lo scrittore deve pensare esclusivamente al suo percorso, mentre l’editore non può dimenticare di avere la responsabilità dei dipendenti, del marchio, di tutti gli altri scrittori che pubblica e così via. Dunque questi interessi, forse contrapposti o forse no, sono le acque su cui un libro naviga. Però, esistono anche storie diverse.
Quella di Utopia comincia senz’altro con un’imprudenza. Perché già è un’imprudenza avviare una casa editrice indipendente, sempre, in un qualsiasi momento della storia, ma oggi, in questo rocambolesco 2020, cominciarne una come Utopia fa e spero continuerà a fare, volta al recupero di libri vecchi e praticamente sconosciuti in Italia, è molto più che un’imprudenza: è una follia. Vuol dire rinunciare alle presentazioni, per dirne una, e quindi rinunciare ad una presenza e a dei contatti diretti con i librai – cose fondamentali e belle per una casa editrice indipendente. E vuol dire anche rinunciare all’effetto freschezza, novità, notizia e hype che troppo spesso sono la molla dietro l’acquisto di un libro che, appunto, tra sei mesi al massimo avrà lasciato poco o niente. Utopia, invece, inverte la rotta. Si presenta al mondo con delle grafiche rigorose e con quattro titoli di cui, sinceramente, io non conoscevo nulla.
Di Massimo Bontempelli, ammetto la mia ignoranza, sapevo soltanto che insieme a Curzio Malaparte fondò la rivista 900 e basta, fine, niente più. Così ho letto l’estratto di Gente nel tempo presente su IBS, come oramai faccio per qualsiasi libro che forse m’interessa, e non ho superato l’incipit, perché sono bastate dieci righe per convincermi di ritrovarmi di fronte ad uno scrittore di cui volevo assolutamente saperne di più.
Ho comprato il libro e il 2020 è un anno così strano che insieme a Gente nel tempo, come omaggio, mi hanno dato delle gomme da masticare che fanno dormire. Poi sono uscito fuori e c’era la Polizia in tenuta antisommossa. L’ho lasciato sul comodino, in mezzo agli altri da leggere, fino a che non è stato il suo turno. Mi son detto: rileggo un attimo l’incipit. Quando ho staccato gli occhi erano trascorse 64 pagine. Sei ore dopo avevo finito tutto il romanzo.
Gente nel tempo, pubblicato per la prima volta nel 1937, è una magia; non mi viene una parola migliore. Un romanzo buio e veloce come un tunnel e quando lo finisci ti abbaglia con la sua assenza. I personaggi sono pochi, tutti splendidamente caratterizzati, e sono tutti inutili eccetto uno che con la sua maledizione muove gli altri. Forse Gente nel tempo è una maledizione sulla borghesia italiana e sui suoi placidi romanzi borghesi. Gente nel tempo mi ha fatto pensare a La Mennulara, al primo capitolo de I Viceré, a Oblomov e a La nube purpurea di Shiel e non so a quale numero di Dylan Dog. E poi, quando Bontempelli si rivolge direttamente al lettore ti fa tremare proprio come ti farebbe tremare vedere l’attore del film horror che stai guardando bussare, per attirare la tua attenzione, dall’altro lato dello schermo. Gente nel tempo è bellissimo, ed è entusiasmante come Bontempelli usa i tempi verbali, giocando tra remoto, imperfetto e presente, nello stesso periodo, e rendendoli lisci come l’acqua; e sono tante altre le cose sparse che ho in mente se penso a questo libro.
Eccone l’incipit:
«La Gran Vecchia morì di domenica, 26 agosto del 1900, ultimo giorno d’una settimana che era tutta stata di ferocissimo sole. Invano gli uomini implorarono cantando in coro e sonando forte l’organo: il cielo era rimasto immobile, le sorgenti su per la montagna screpolata morivano e i fiori nei giardini stavan secchi come sotto le campane di vetro nei cassettoni. Si spaccavano le pietre dal caldo contro il ventre delle lucertole, gli uomini guardavano imbambolati la donna da lontano. Perché gli usignoli eran caduti morti dalla cima dei lecci, le cicale stridevano anche la notte.»
Poi, la Gran Vecchia lancia la sua maledizione:
«Come vedete muoio in regola, dunque non c’è da far chiacchiere. Non c’è niente di male perché s’ha da morire tutti, se uno non morisse sarebbe una cosa spaventosa; io poi ho settant’anni. E domani quando vi domanderanno e questo e quello e di che cosa è morta e non so che altro, ditegli che lo sapevo io e basta, e pensino ai casi loro e delle loro famiglie, come ho sempre fatto io che non mi sono mai interessata d’altro che della famiglia mia; che è tutta qui, perché Livio certamente è morto chi sa da quanti anni. E nessun altro ha da nascerne, già lo sapevate, perché con i tempi che corrono quattro persone sono anche troppe, specialmente tipi come voi che non siete mai stati buoni a niente e morta io sarete ancora più inutili, perciò è meglio che la famiglia finisca; anche quelle due lì quando saranno grandi è meglio che non ne facciano…»
La Gran Vecchia muore, quindi, e la maledizione comincia a infuriare. A scadenza esatta si porta via un pezzo della famiglia, all’inizio inconsapevole di far parte di un destino e dopo, una volta compreso, partecipe suo malgrado. Silvano, sua moglie Vittoria e le loro figlie, Dirce e Nora, sono scacchi che qualcun altro gioca e ogni tanto ne perde un pezzo. I personaggi non fanno nulla e nulla possono per risolvere la loro condizione.
In mezzo, ci sono delle vite sprecate, condotte fino all’ultimo istante con l’idea di farsi trascinare dal tempo più che cavalcarlo. In effetti, Gente nel tempo è una riflessione sul tempo e su come gli esseri umani lo attraversano e di come, a loro volta, ne vengono attraversati i romanzi e i personaggi che li affollano: «È perché non ci pensavamo quando la vita era bella; se uno quando c’è ci pensasse forte, ma ben forte, mi pare che il tempo non dovrebbe andarsene a questo modo».
«Regalo orrendo. Non importa morire, importa non sapere quando. L’ignoranza è giovinezza. Di mano in mano che uno un poco lo sa, lui se ne va. La vita è essere incerti, Dirce, la vita è non sapere, non sapere né quando né dove uno va, Dirce»
«Ma io credevo, in Dio, abate Clementi»
«Anche i più credenti non vogliono morire, dunque un poco dubitano. La vita è dubitare»
«Ma allora Nora, dov’è Nora?»
«Nessuno lo sa. La vita è andarsene…»
Gente nel tempo è anche la storia di due sorelle molto diverse tra loro, con caratteri e approcci diversi, eppure accomunate dal sapere almeno in parte come il loro tempo si svolgerà. D’altronde, se ci si dovesse trovare davanti ad una immensa valanga, dalla quale non è possibile scappare, cosa fare: provare a correre, girarsi e dare le spalle, oppure rimanere immobili a guardare uno spettacolo mortale, ma che di certo non ricapiterà?
Sono molte le cose che questo libro dice e siccome è un gran libro ancora di più sono quelle che ti lascia ipotizzare. C’è il realismo magico, l’onirico che sposa la realtà; anche se forse è più l’incubo a plasmarla. Ci sono anni che passano uguali e indifferenti; trascorsi solo perché ti avvicinano ancora di più alla meta finale. Non c’è alcuna compassione per il lettore. Non c’è nessun occhiolino o buffetto simpatico. Ci sono parole dure, pesanti, e un editore che ha avuto il coraggio di farle potenzialmente rileggere a tutti.
Sono molto felice di aver letto Gente nel tempo di Massimo Bontempelli. Continuo a non sapere nulla della sua biografia e non m’importa. Perché m’importa molto di più l’emozione che c’è dietro a questo senso di assoluta scoperta che mi ha restituito la lettura di un libro e di uno scrittore di cui non sapevo. E voglio farlo esistere, Bontempelli, ora, senza bulimizzarlo. Senza azzannare a grandi morsi tutto il possibile. E sono felicissimo anche dell’esistenza di Utopia e spero che nel loro mirino ci siano, per dirne soltanto due, anche Thomas Wolfe, mai affrontato seriamente in Italia, e Luigi Incoronato, completamente perso, fuori da ogni logica.
Perché quello che Utopia fa, secondo me, è di rimetterci tutti quanti in riga con la nostra natura di lettori selvaggi. Praticamente, usare la nostra ignoranza come il trampolino da cui prenderemo slancio e ci tufferemo. Perché a tutti quelli che hanno il tarlo dei libri piace entrare in una libreria perché una libreria, con la sua esistenza, i suoi libri e i suoi scaffali ricolmi, ti sbatte in faccia tutto quello che ancora non hai letto e che potrebbe piacerti e cambiarti la vita. Utopia va oltre, molto semplicemente: ti ricorda che oltre i libri presenti, per i quali provi eccitazione, ci sono quelli che sono esistiti e non esistono più e restano bellissimi, e quindi è come se i libri da leggere si moltiplicassero per mille e con loro anche l’eccitazione. E questa è una cosa che mi piace. Forse, è la consolazione più grande.
In copertina: La città che sale, Umberto Boccioni, 1910