Benzina, champagne, formaggini, calze di seta: è solo un parziale inventario della refurtiva che i personaggi dell’ultimo capolavoro di Irène Némirovsky si sgraffignano tra loro. Anche l’elenco di quello che viene portato via durante l’esodo è indicativo. Si scappa dal nemico arraffando panini, caramelle, biscotti, materassi, lenzuola ricamate, servizi d’argento, porcellane cinesi, gioielli. Dei nonni, invece, ci si dimentica, come nel caso del vecchio Péricand, dimenticato, durante la fuga, in un edificio in fiamme. C’è chi si preoccupa solo del destino della cattedrale di Rouen, chi solo dei propri manoscritti. È il segno di come non esista più nessuna scala di valori, di come la società vacilli travolta dagli eventi. Allo scetticismo dei primi momenti («Non importa. Me ne resto a letto, non ho paura. Mica bombarderanno proprio qui») si sostituisce ben presto la paura, la consapevolezza della necessità della fuga. Siamo nel giugno del 1940, i tedeschi sono alle porte di Parigi, bisogna lasciare la città.
È questo l’universo descritto da Irène Némirovsky in Tempesta in giugno. Descritto e descritto una seconda volta con maggior nitore nella seconda versione del romanzo. La scrittrice aveva immaginato Suite française come una grande opera di oltre mille pagine, composta da cinque parti indipendenti ma legate tra loro (un po’ come Alla ricerca del tempo perduto di Proust). Riuscì a scriverne solo due, Tempesta in giugno e Dolce. Di Tempesta in giugno, dedicata all’esodo da Parigi nel giugno del 1940, scrive una seconda versione, oggi pubblicata in Italia per la prima volta da Adelphi.
La Tempesta è quella della storia che sconvolge la quotidianità, che sorprende gli individui come un fulmine a ciel sereno e poi, impietosa, li travolge, li trascina alla deriva. Il giugno in questione è quello del 1940: al mese tragico della storia si contrappone quello dell’estate in arrivo, quello dei nugoli di passerotti scuri che pigolano sui pioppi del lungosenna. In modo ancora più chiaro di quanto non avvenisse nella prima versione, l’imperturbabilità della natura fa emergere, per contrasto, l’inconsistenza delle passioni dei personaggi, la futilità delle inquietudini umane.
Tra i tanti personaggi di cui si seguono le vicende da un capitolo all’altro, uno dei più inquieti è certamente Hubert Péricand. Nato in una rispettabile famiglia borghese, quella dei Péricand, Hubert vive tutte le trepidazioni dei suoi diciassette anni. È capace di uno sguardo lucido sulla sua famiglia, di cui conosce bene l’ipocrisia. Il giovane, per esempio, coglie la falsità del padre che al mattino parla della Repubblica come di un «regime corrotto» e la sera riceve in pompa magna ministri di cui sollecita i favori. E l’ipocrisia della madre, che non perde occasione per ostentare la sua generosità, ma che durante l’esodo si guarda bene dal rinunciare a uno dei fagotti di biancheria che ingombrano la macchina per dare soccorso agli sfollati che lasciano Parigi a piedi. Guardando questi ultimi esclama: «Vedete com’è buono Gesù Bambino: potremmo essere al posto di quei poveretti!». Tuttavia, quando si tratta di sé, Hubert non è altrettanto lucido. Nel momento in cui si rende conto che la disfatta della Francia è ormai imminente, il ragazzo si convince di poter salvare la patria mettendosi a capo della sua banda di scout. Risoluto, prende allora la carta geografica che gli serve generalmente per i compiti e inizia a pianificare la controffensiva: «Io l’ho capito quello che deve fare», annuncia perentorio alla madre. «Li lasceremo avanzare fino a Parigi e poi con una manovra li accerchieremo da Évreux e da Auxerre. Capisci, mamma?». La madre stronca le sue illusioni e gli ordina di andare a lavarsi le mani: è ora di cena. Furioso, Hubert proclama la celebre frase di Gide tra sé e sé – il coraggio di pronunciarla ad alta voce gli manca –, «Famiglie, vi odio!». La sua rivolta culmina con un calcio ai giocattoli del fratello minore. Più avanti, sfugge alle cure della madre e raggiunge le truppe. Ancora una volta, però, la realtà infrange le sue illusioni. Proprio come Fabrice nella Certosa di Parme di Stendhal, l’esperienza della guerra è ben diversa dalle aspettative. Hubert segue come un’ombra due soldati, imita i loro comportamenti senza comprenderli e, ogni volta che qualcuno gli si avvicina, teme di essere cacciato via. Per una volta, però, le sue previsioni sono esatte. Poco dopo, infatti, sente un soldato inveire contro di lui: «Ehi, tu, che cavolo ci fai qui? Non vedi che dai fastidio?». Ferito, Hubert, si allontana «come quando al liceo, sulle prime i grandi si rifiutavano di farlo giocare con loro e lui borbottava “Sai come m’importa… Non gioco più. Si divertissero da soli, ecco!”». Poco dopo un frastuono lo desta dalle sue fantastiche. Hubert è convinto di partecipare finalmente al combattimento, ma subito dopo si rende conto che le grida dei soldati erano dovute alla gioia: la brasserie del paese aveva appena mandato centocinquanta bottiglie di birra.
Hubert è il simbolo di come per Némirovsky l’eroismo non sia più possibile ai nostri giorni. Il racconto della sua esperienza in guerra, inoltre, è emblematico della condizione di spaesamento di una intera società raffigurata dinanzi alla catastrofe generale. Hubert, come tutti gli altri personaggi, osserva quello che succede accanto a lui ma rimodella la realtà seguendo le sue illusioni, senza riuscire a cogliere la portata generale degli avvenimenti.
In questo racconto in cui tutti, o quasi, nei momenti più difficili danno il peggio di sé, non manca però, come abbiamo visto, un tocco di leggerezza e di ironia. E l’ironia, talvolta amara, si aggiunge a molte altre sfumature della comicità presenti nel romanzo, dall’umorismo alla satira, passando per momenti quasi farseschi. Come è stato detto talvolta, è proprio nel momento più tragico della sua vita che Némirovsky scrive il suo romanzo più comico.
In copertina: Félix Vallotton, Le vent, 1910