Search
Close this search box.

Teatri e cattedrali del mondo. L’uomo dell’enciclopedia, di Marco Cavalli

Alla figura centrale di Diderot è dedicato il romanzo “L’uomo dell’enciclopedia” di Marco Cavalli



Un giovane cronista, che rimane innominato sebbene sovente apostrofato, raggiunge la casa nelle campagne di Sèvres che Denis Diderot, ormai settantenne, ha eletto a suo buen retiro, con lo scopo di intervistarlo. Qui, dove Diderot vive cercando, se possibile, di eludere il controllo della figlia che ha «un accanimento poliziesco», in una lunga confessione deliziata dalla pace della natura rigogliosa racconterà a un attento pubblico (il suo interlocutore, certo, ma soprattutto noi lettori) la propria vita e la cronaca di quel meraviglioso e impareggiato progetto culturale che fu l’Encyclopédie ou Dictionnaire raisonné des sciences, des arts et des métiers, pubblicato a Parigi in ventotto volumi tra il 1751 e il 1772.

A chi ha dimestichezza con la storia della filosofia e della letteratura, il nome di Denis Diderot suona tra quelli che più hanno a che vedere con l’Illuminismo e che ebbe come fulcro primigenio l’Inghilterra della seconda metà del XVII secolo, con John Locke, Isaac Newton e, più tardi, Adam Smith, ma che trovò massimo compimento nella Francia del secolo successivo, dove acquisì una portata ampia che investì l’ambito politico, sociale, culturale in senso lato. In Diderot si ritrova, oltre che una delle espressioni più eminenti del razionalismo e della lotta all’oscurantismo e alle superstizioni, questa stessa ampiezza di sviluppo di pensiero, la capacità, cioè, di applicare l’indagine e la critica ai più vari campi del sapere: scrisse opere di filosofia, teologia, narrativa, satira politica, scienza.

È Diderot, con il contributo iniziale del matematico Jean-Baptiste Le Rond D’Alembert, a convogliare quello che era l’energia e lo spirito dell’Illuminismo, i suoi valori e i suoi desideri, in un progetto concreto, L’enciclopedia, come luogo del sapere e come espressione dell’indagine sul mondo, inteso come ciò che l’uomo abita, conosce e modifica per poter vivere meglio. Non si sottovaluti, infatti, la forte componente tecnica del Dizionario, che fin dal titolo denuncia la rivalutazione dell’arte del fare le cose.

«Avete notato che qualunque realtà noi desideriamo conoscere, perfino un oggetto, ci respinge se cerchiamo di entrare in rapporto con lei solo per curiosità e non perché ne abbiamo bisogno?
Osservare un fenomeno, raccogliere informazioni su di esso, non bastano per capirlo. È necessario viverlo, quel fenomeno, soffrire la sua presenza, per così dire.»

Fu, l’enciclopedia, da un lato la summa sia del movimento filosofico, sia dei principi che lo muovevano: sconfitta della superstizione religiosa o laica che fosse, liberazione dalle pastoie dell’ignoranza, indagine e spiegazione del reale; dall’altro, uno dei motori che portarono il paese alla Rivoluzione del 1789.
La lunga e libera digressione che impegna il personaggio Diderot lungo tutto il romanzo è, alla fine, una sorta di rendiconto del proprio lavoro, ma anche una messa in scena teatrale, della quale il filosofo assume il ruolo di regista, tecnico delle luci, personaggio; e rispetto alla quale è altresì consapevole del rischio di annoiare o di raccontare cose prive ormai di interesse.

«Il mio mondo non ha più l’importanza che aveva fino a cinquant’anni fa. Le figure che vorreste avvicinare attraverso di me si sono talmente rimpicciolite che la lente incrinata della mia memoria non basta a renderle visibili.
La porta da cui vi farei entrare in quel mondo non esiste più o, se ancora esiste, non viene impiegata a quello scopo. Il tetro del palcoscenico è diventato il suo nuovo ingresso.»

Una sorta di captatio benevolentiae, questa, di Diderot nei confronti del suo interlocutore, e di Cavalli nei nostri, giusta la potente carica retorica di tutto il testo, che aumenta invece la riuscita di questo lungo ritratto di un uomo, di un ambiente culturale, di una città, di un secolo. Non sfugga l’immagine che le parole di Diderot evocano mentre avvertono del rischio di regresso all’infinito che l’evocazione dei personaggi causerebbe, nel tentativo di spiegare chi fossero e che parte avessero nella commedia umana raccontata; non è forse, questo procedere per continui e successivi collegamenti, il modo stesso in cui è strutturato il mondo della rete così tanto familiare a noi contemporanei? Non è forse, ancora, la caratteristica davvero enciclopedica di Wikipedia, coronamento ultimo della volontà umana di costruire una cattedrale del sapere?

I personaggi di Diderot sono sempre precisi e vividi, anche quando si limitano a una rapida pennellata, un rigo appena, o quando si rivolgono a persone di fama incontrate un’unica volta, come Lawrence Sterne o Cesare Beccaria.
Laddove lo spazio è più ampio, Cavalli dispiega una sequela di ritratti di estrema finezza e ironia, rendendo così onore alla capacità (dovremmo forse dire condanna?) di osservatore che, nel corso del romanzo, emergono chiaramente e vengono riconosciute anche da Diderot a se stesso.

«Avevo cercato l’eccitazione dentro al libro e l’avevo trovata in una sua immagine; cercandola nell’immagine, scoprivo di trovare eccitante non la scena d’azione, ma quella di contemplazione.»

Attraverso il ricordo e il racconto delle relazioni con gli amici più stretti, che spesso furono anche collaboratori dell’impresa enciclopedica, riusciamo a figurarci anche il protagonista, giusta la lezione narrativa che lo stesso Diderot ci consegna a inizio romanzo, laddove racconta di stare scrivendo un’opera (evidentemente Il nipote di Rameau) che si basa sul confronto vitale e funzionale di due personaggi contrastanti, il filosofo e il parassita; dal loro dialogo, dalla loro voglia di conoscersi da distante, l’opera trae la sua valenza. Ecco allora le pagine gustosissime su D’Alembert, Madame Pompadour, Montesquieu e Voltaire; anche se è parlando di Rousseau che esse si colorano della più vasta tavolozza di tinte emotive. Nell’insieme, insomma, una promenade elegante e godibilissima, venata di accenti farseschi o grotteschi, sarcastici o ironici, lungo una galleria che ci porta a (ri)conoscere uno dei secoli più vivi e felici nelle umane sorti e progressive.

Il rischio che Marco Cavalli si è assunto nello scrivere il romanzo L’uomo dell’enciclopedia. L’autobiografia mai scritta di Denis Diderot (Neri Pozza) non era di poco conto, soprattutto per la scelta di avere come istanza narrante l’Io del personaggio Diderot; e la profonda cultura dell’autore, la sua conoscenza del periodo storico, della letteratura francese e dei personaggi qui raccontati, avrebbe addirittura potuto aggravarlo, quel rischio, nella tentazione sempre umanamente presente di dimostrare la profondità della propria sapienza. Non è così, e l’avventura di questo romanzo è prima di tutto una riuscita operazione mimetica, che brilla per plausibilità e concretezza, che mescola ad arte ironia e disincanto, sapere e saper dire, nel pieno spirito della Repubblica delle lettere, coi suoi salotti e coi philosophes che li animavano.

libro cavalli

Alla fine della lettura e delle consigliabili riletture – fosse anche a volo d’uccello, per paragrafi lontani e sconnessi e disordinati – rimane la sensazione che il libro parli molto a noi e che la sua inattualità al quadrato (Diderot stesso, si è visto, considera il proprio racconto costruito attorno a personaggi e fatti già vecchi), non sia che una illustre mascherata.

Denis Diderot fu un filosofo, letterato, critico d’arte, enciclopedista e molto altro; fu uno dei personaggi più importanti e più noti della corrente filosofica nota come Illuminismo. Ma certo non è un personaggio di cui si senta parlare spesso. Cosa ti ha spinto a produrre questo enorme sforzo mimetico per raccontare Diderot attraverso una plausibile voce di Diderot?
A me interessava lo stile di pensiero di Diderot, più che la sua vita. Volevo descrivere il suo dinamismo intellettuale e le perturbazioni emotive che lo accompagnano, e volevo descriverli dall’interno. La cosa mi pareva fattibile perché Diderot è un personaggio che si presta all’immedesimazione. Non è un Montesquieu, un Voltaire, un Kant, con la loro imponenza di cattedrali di dottrina, la loro personalità esorbitante, imprendibile. Diderot è una testa che appartiene al suo tempo, con qualcosa che anticipa i nostri. Non viene al mondo preformato, arriva a conoscere se stesso gradualmente, e quasi alla cieca. Solo dopo aver realizzato qualcosa ne coglie il significato e il valore. È come una barca che si costruisce intanto che naviga, e che trae i propri pezzi dal mare. Non ha idee nuove, originali; la sua specialità consiste nell’istituire collegamenti tra le idee correnti. Sta nel circuito delle cose, più che nelle cose stesse. Passa da un argomento all’altro rifiutando di specializzarsi, di coltivare un interesse esclusivo. Perfino con la letteratura mantiene rapporti occasionali. Credo sia l’unico scrittore moderno ricordato, anziché per l’originalità delle sue opere, per aver guidato un’azione editoriale collettiva. È un convinto assertore del precariato in una società e in un’economia nelle quali il mezzo di sussistenza più in uso tra intellettuali era ancora la prebenda ecclesiastica, o il reddito di una sinecura procurata da un protettore facoltoso. Gli piace acquisire una varietà di competenze attraversandole tutte. Divertendosi a lavorare, raccoglie meno di quanto semina, e gli sta bene così. Anche dopo aver guadagnato una certa sicurezza economica, continua a vivere alla giornata, come un mendicante. Non ha ambizioni di carriera; la sua mobilità professionale è dispersiva, non fa curriculum. Un dilettantismo che a noi pare illogico, inverosimile. Perché? Perché è un dilettantismo a perdere, cioè anacronistico. Anche l’imprenditorialità di Diderot si regge su presupposti poco raccomandabili. Alla base vi sono l’improvvisazione e una fiducia quasi spericolata nella capacità di mettere a profitto esperienze personali estranee e oziose, però vissute sempre intensamente. Ad esempio, mentre lavora al piano generale dell’Enciclopedia, Diderot decide che le illustrazioni dovranno avere un’importanza pari al testo, non fare da semplice corredo o integrazione. A sostegno della sua scelta non porta argomenti razionali, motivazioni teoriche. Gli basta ricordare l’effetto che gli avevano fatto da giovane le incisioni oscene viste nei libri proibiti dalla censura.

Il tuo romanzo mi ricorda, vagamente, il libro di Boswell Visita a Rousseau e a Voltaire; oltre che per l’epoca, anche per l’idea di base, cioè il desiderio di un letterato, di uno scrittore, di andare a visitare chi rappresenta una figura di elevate risonanza culturale, una sorta di idolo, di punto di riferimento. Quanto c’è di tuo nel personaggio intervistatore del romanzo? E quali, altrimenti o in aggiunta, le fonti a cui hai attinto o da cui ti sei lasciato ispirare?
Dietro l’idea del colloquio personale con Diderot ci sono in effetti le interviste che James Boswell fece a Voltaire e a Rousseau. Boswell era un soggetto curioso, un incrocio tra l’avventuriero e il letterato. Desiderava ardentemente diventare uno scrittore ma sapeva, o credeva di sapere, di non avere abbastanza talento. Non brillando di luce propria ne prendeva dagli autori che ammirava e a cui dava la caccia nella speranza, oltre che di conoscerli, di farsi conoscere da loro. A dargliene la possibilità, si sarebbe fatto un selfie assieme a Voltaire. Il libro suo più noto è un’interminabile biografia di Samuel Johnson in cui spesso e volentieri il biografo ruba la scena al biografato. Il cronista che nel mio romanzo intervista Diderot è una timida versione francese di Boswell. Scribacchino anche lui, ama la letteratura di un amore fervido quanto sterile e non contraccambiato. Ha sposato una donna che è convinto di non meritare e alla quale, pur sapendo di farle torto, rimprovera di piacere troppo ad altri uomini. Probabilmente sbaglia a giudicarla, così come sbaglia a idolatrare Diderot. Ha il vizio di ingrandire le persone perché si sente più piccolo di quel che è. In fondo, non è un cattivo soggetto, anzi. È un provinciale irrequieto, scontento, che mescola il privato al professionale e che ha di se stesso un’opinione sempre eccessiva, in peggio o in meglio. Lascio agli altri il divertimento improbabile di indovinare quanto ci sia di mio in un simile personaggio

Il titolo del libro fa riferimento all’opera mastodontica che Diderot ideò e gestì per molti anni: L’Enciclopedia (o Dizionario ragionato delle scienze, delle arti e dei mestieri). Nel testo si racconta come l’origine del progetto fosse in realtà la traduzione di un’altra opera, la Cyclopaedia dell’inglese Ephraim Chambers, di cui Diderot doveva preparare una traduzione assieme all’amico D’Alembert, che fu poi sodale, almeno fino ai primi guai con la censura, dell’Enciclopedia. Possiamo dire che questo enorme lavoro sta come una delle massime punte, un percorso che va da Aristotele fino a Wikipedia, passando per Plinio il Vecchio Johann Alsted, l’Enciclopedia Britannica, la nostra Treccani. Un percorso che guarda al sapere come a una Cattedrale, e cioè un luogo verso cui andare e dove cercare il sapere che lì è depositato. Quanto credi possa ancora durare questa forma, questa struttura, ora che si fa sempre più presente un tipo diverso, quello della intelligenza artificiale che, per citare Roncaglia, assume i tratti dell’oracolo?
Sulla funzione e sulla durata dell’Enciclopedia il mio Diderot ha idee tutte sue. Per lui l’enciclopedia è un correlativo oggettivo dell’esistenza. Le scienze hanno i loro cicli di vita, nascono e muoiono come gli uomini. Qualcuna dura più a lungo, ma alla fine tutte, senza eccezioni, sono condannate a invecchiare. Allora si mutano in favole, miti, storie spesso più fantasiose che se fossero inventate. Ritornano alle origini, quand’erano considerate dei vaniloqui, delle supercazzole. A lungo andare diventa fictional ogni sapere che ha preso valore di scienza all’atto di essere accolto in un’enciclopedia. Che cos’è un’enciclopedia, se non una specie di museo in cui vengono fatte accomodare le conoscenze che contano? In campo scientifico si finisce sempre col mettere qualcosa dentro qualcos’altro. Tutto va custodito affinché possa essere ritenuto prezioso. È l’epilogo ironico che tocca in sorte a tutto ciò che gli uomini considerano alto, solenne e drammatico. All’apice della sua consacrazione istituzionale, anche l’Enciclopedia ottiene il suo monumento satirico: il capolavoro di Laurence Sterne, La vita e le opinioni di Tristram Shandy, gentiluomo, così tanto ammirato da Diderot da indurlo a scriverne un’imitazione, il romanzo Jacques il fatalista e il suo padrone.

Uno dei presupposti da cui muovevano Diderot e compagni era che l’Enciclopedia, fornendo conoscenza in modo accessibile, avrebbe avuto come esito se non la sconfitta almeno un grosso indebolimento di mali quali il pregiudizio, la superstizione, l’ignoranza; e cioè quello che per Kant significava Illuminismo: l’uscita dell’uomo dallo stato di minorità. La storia ci insegna però qualcosa di diverso: innanzitutto che c’è differenza tra nozionismo e conoscenza; e secondariamente, ma più problematicamente, che il sapere sembra sempre rimanere indietro rispetto a una volontà che porta l’uomo ad agire nonostante ciò che sa.
Un aspetto dell’Enciclopedia su cui insiste il mio romanzo riguarda la necessità di rendere le informazioni prontamente accessibili. Diderot intuisce che la trattazione approfondita ed erudita degli argomenti ha fatto il suo tempo. Per le voci dell’Enciclopedia serve un’esposizione snella, agile, accattivante. Il format della divulgazione scientifica a livello popolare nasce allora. Diderot ne è il principale promotore. È un format pensato su misura per un pubblico di lettori che spunta in quegli anni; un pubblico di uomini d’affari, che deve prendere in velocità le proprie informazioni a causa del ritmo vorticoso del lavoro. Un pubblico che va accontentato, non stancato, nelle sue richieste di conoscenza. Meglio somministrargli dosi razionate, che rimpinzarlo. Per reclutare gli estensori degli articoli dell’Enciclopedia Diderot cerca di preferenza tra i letterati free lance conosciuti durante il periodo bohémien della sua vita. Gente che ha esigenza di guadagnare poco ma subito, abituata a farsi bastare gli spazi stretti e i tempi contati. Poligrafi di un’erudizione mostruosa e disordinata, versatili, capaci di accontentare le committenze più diverse ed esigenti. Quelle committenze sono l’avanguardia del pubblico cosmopolita di oggi, composto di piccolo-borghesi volubili, incostanti, curiosi di tutto e di niente, istruiti ormai più dal mercato dell’intrattenimento di massa che dalla scuola pubblica.

In un punto del romanzo, durante il suo flusso ininterrotto di racconto, lei fa dire al suo Diderot questa considerazione:
«Suvvia, riponete il coltello. Rischiate di ferirvi o, peggio, di passare per un malintenzionato. E rallegratevi che ci abbiano interrotti: le storie che hanno una fine non la raccontano mai giusta. Risparmiarvi la conclusione della mia è l’ultimo regalo che vi faccio, e ve lo faccio con gioia. Se la vostra gratitudine è scarsa per quel che vi ho detto, datemene molta per quel che non vi dirò.»
La trovo una battuta, oltreché sapientemente ironica, di grande importanza per molti aspetti che hanno a che vedere con la letteratura. Da un lato sembra depotenziare lo strumento della narrativa, che nasce anche per permettere all’uomo proprio questo, cioè per una volta nella vita di raccontare inizio e fine di una storia, laddove, se pensiamo alla storia di ciascuno, ciò non è possibile. In più, svaluta l’opera stessa che stiamo leggendo, che essendo una biografia, dovrebbe poter raccontare tutto del suo protagonista.
Nel raccontare se stesso al giovane cronista che lo ha inseguito fino a Sévres, Diderot sceglie di partire dall’istante preciso in cui prende la parola allo scopo di raccontarsi. L’inizio della vita corrisponde all’inizio del suo racconto. Mi sembra una mossa sensata, in carattere con Diderot e con la sua sagacia di comunicatore. Evidenzia l’arbitrio di ogni incominciamento e di ogni conclusione, la loro natura di convenzioni narrative. Diderot, per concludere il proprio racconto, aspetta di essere interrotto dalla figlia. Stima l’interruzione la sola conclusione congeniale perché è accidentale quanto l’inizio. Diderot si vede togliere la parola così come l’ha presa, per caso. Succede lo stesso con la vita, credo.

In copertina La lecture chez Diderot, détail d’une gravure de Louis Monziès d’après une peinture d’Ernest Meissonier
(photo credit Bibliothèque nationale de France)


categorie
menu